25.2.07

Riflessioni su Cechov e sul teatro russo - Intervista a Giulio Scarpati

di Silvia Del Beccaro

«Questa di misurarmi con testi che abbiano alle spalle una riflessione sulla nostra arte è un po' la mia ossessione. Scelgo sempre testi - e autori - che, nel momento stesso in cui li metto in scena, mi diano il modo di riflettere sullo stile di regia di cui si fanno portatori. Se scelgo Čechov è anche perché Stanislavskij ha creato l'impianto del suo cosiddetto sistema proprio su questo autore. Se dico “Čechov”, infatti, viene subito in mente Stanislavskij» (Federico Tiezzi, Pisa, 2004).
Con questa affermazione l’attore Federico Tiezzi ha risposto al quesito “Perché hai scelto di mettere in scena un testo come l'Antigone di Sofocle di Brecht?”, rivoltogli in occasione della sua Prima nazionale[1] a Prato. Nonostante la scelta del testo da interpretare, Tiezzi ama gli scritti checoviani; ma nell’ambito teatrale, non è l’unico artista ad amare Čechov. Anche Giulio Scarpati, intervenuto recentemente a Brugherio (MI) nello spettacolo “Una storia d’amore”, ha svelato la sua attrazione per i testi del drammaturgo russo.


L’idea di recitare nei panni di Čechov mi ha sempre allettato, perché si tratta di un autore che mette una grande passione in tutto quello che fa… Un po’ come me. Più mi sento coinvolto da una storia o da un personaggio e più mi sento spinto ad approfondire gli aspetti che lo caratterizzano. Di Čechov mi ha impressionato la condizione drammatica in cui ha vissuto gli ultimi della sua vita, nella piena consapevolezza di una morte imminente a causa della malattia; ma allo stesso tempo sono rimasto affascinato dalla reazione Čechoviana di fronte a questa tragicità. Faccia a faccia con la morte, Čechov è riuscito sempre a sminuire la sua condizione di malato, ironizzando in maniera ammirevole. Questo binomio, onnipresente nei testi di Čechov, composto da malinconia e ironia, è anche una caratteristica tipica del teatro russo in generale, dal quale sono particolarmente affascinato.[2]


Lo spettacolo, di cui è protagonista Giulio Scarpati insieme a Lorenza Indovina, è incentrato sulla storia d’amore tra il grande scrittore Anton Čechov e Olga Knipper, attrice della compagnia di Stanislavskij. “Una storia d’amore” trae spunto dalle circa 400 lettere che Anton Čechov “lo scrittore” e Olga Knipper “l’attrice” si sono scambiati durante i loro sei brevi anni d’amore. Čechov conobbe la Knipper proprio in occasione del trionfo del “Gabbiano” a Mosca; nel maggio 1901 la sposò. Sulla base di questo epistolario appassionato, ironico, poetico e commovente è stata ricostruita la loro storia intima: il primo incontro, l’amicizia, la relazione clandestina, il matrimonio, la morte di lui (annunciata ma repentina, che avvenne a luglio 1904, durante un viaggio in Germania. Čechov aveva 44 anni).
Knipper e Čechov trascorsero poco tempo insieme nel loro breve matrimonio e le lettere ad Olga sono di una sdolcinatezza imbarazzante, piene di vezzeggiativi quali: “Cucciolina mia”, “mia cara cucciolina”, “carissima cucciola”, “oh, cucciolina, cucciolina”, “piccola cucciolina fulva”, “mia vivace cucciolina”, “adorata bastardina mia”, “mia cara, mia pesciolina”, “mio ghirigoro”, “carissima puledrina”, “mia incomparabile cavallina”, “mio carissimo fringuello”…


Il loro è stato un amore difficile, ostacolato inizialmente anche dalla differenza di età; la Knipper infatti era molto più giovane. Ostacolo che comunque sono riusciti a superare immediatamente e in maniera brillante. Il loro è stato un grande amore, vissuto in piena libertà (tant’è che Čechov non ha mai imposto alla moglie di restare a casa insieme a lui, nonostante la malattia) e molto spesso a distanza (a causa della tournée di Olga). Le lettere che si sono scritti entrambi, e che noi riproponiamo durante lo spettacolo, presentano un amore non tanto diverso da quello dei giovani innamorati odierni. Ovviamente le lettere sono stese in maniera più forbita, essendo stato Čechov un grande scrittore, ma i temi e i vezzeggiativi affettuosi che si rivolgono l’un l’altro sono decisamente paragonabili alle storie d’amore moderne. E questo permette al pubblico di seguire più volentieri lo spettacolo e di rimanerne catturato.


Nelle lettere che Olga scrive dalla tournée, ad un Anton costretto dalla tisi a lunghi soggiorni in campagna, in paesi caldi, o in sanatorio, sentiamo gli echi dello spettacolo, dei successi e degli insuccessi, della vita di compagnia, dei fermenti del grande teatro russo di Stanislavskij. Quest’ultimo fu particolarmente legato al drammaturgo russo per diversi motivi: il successo della scrittura Čechoviana drammatica “Il Gabbiano” fu dovuto proprio a Stanislavskij. Dopo i fischi ottenuti alla Prima al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo (1896), l’innovazione drammaturgica di Čechov venne presa in considerazione dal Teatro d’Arte di Mosca. Furono infatti Stanislavskij e Dancenko a individuare la novità del teatro Čechoviano e a scorgerne la somiglianza con la loro teoria di antiteatralità. Ma le comunanze con Stanislavskij non finiscono qui… Olga Knipper, moglie di Čechov, come già anticipato, fu un’attrice della compagnia di Stanislavskij così come il nipote dello stesso Čechov, Michail[3]. Nello spettacolo “Una storia d’amore”, si accenna sovente al rapporto di amicizia e lavoro esistente tra Stanislavskij e Čechov; Scarpati ne dà una conferma.


Stanislavskij viene citato spesso nelle lettere. Come ha giustamente accennato, la Prima de “Il Gabbiano” inizialmente fu un vero fiasco e solo grazie alla messa in scena del regista russo riuscì ad ottenere il consenso del pubblico. Ma soprattutto, Stanislavskij viene citato perché spesso Anton nelle lettere scriveva di trovarsi in disaccordo con l’iperrealismo del suo connazionale.

La storia del teatro novecentesco è stata fortemente caratterizzata da una serie di singolari avvenimenti che hanno portato ad una nuova concezione di “fare teatro”; fra questi vi è certamente la nascita del laboratorio teatrale di Stanislavksij.
Il Novecento è stato caratterizzato da un’azione di rinnovamento che ha portato ad una forma di spettacolo che intendeva contrapporsi all’idea di teatro del secolo precedente. Infatti si passa da un teatro basato quasi esclusivamente sulla recitazione enfatica dell’attore ad un altro che si prefigge di determinare un rapporto con gli uomini che abbia valore in sé, cioè che sia in grado di assumere un significato. Nasce quindi un “nuovo teatro” che segue essenzialmente due direttive: all’interno ha come centro l’attore, all’esterno si pone come obiettivo la comunicazione col pubblico.
Proprio da questo spostamento dell’attenzione, focalizzata ora sull’attore come protagonista del processo di rinnovamento del teatro, nasce l’incontro senza precedenti tra quest’ultimo e la pedagogia. Il teatro diventa luogo della scoperta e valorizzazione delle possibilità espressive dell’uomo, luogo in cui la sua creatività e fantasia si manifestano liberamente.
Le prime scuole dedicate esclusivamente agli attori nacquero presso il Teatro d’Arte di Mosca. Queste strutture avevano però un grosso limite, quello di restare troppo legate alla specifica personalità di un determinato insegnante e di non prevedere mai un metodo che si basasse su una solida base teorica e che si fondasse su un organico disegno pedagogico.
Proprio ad un tale modo di concepire la formazione dell’attore si oppose Konstantin Sergeevic Aleksèev Stanislavskij[4], il quale rivoluzionò le tecniche teatrali introducendo una metodologia di ricerca sperimentale sull’attore, basandosi su alcune intuizioni di alcuni suoi predecessori, quali Appia e Craig.


Come molti attori della mia generazione, anche io ho studiato Stanislavskij. Ritengo sia stato un pilastro fondamentale per i metodi di insegnamento e le scuole di recitazione contemporanee, vedi gli “Actor’s Studio”. Non a caso, attori del calibro di Al Pacino provengono proprio da quel genere di scuole, a parer mio più formative rispetto a quelle italiane (almeno in passato).


Stanislavskij giunse a New York e cominciò ad insegnare in una chiesa al centro della città. Molte persone seguivano i suoi corsi: tra queste vi era Lee Strasberg. La cosa veramente memorabile per questi individui fu il fatto che in America ogni attore lavorava per conto suo e solo in seconda battuta con gli altri, quindi non si era abituati a portare avanti un lavoro d’insieme, un lavoro “d’ensemble”. Le compagnie di repertorio, così come il teatro commerciale, non conoscevano questo tipo di prassi, mentre nel teatro di Stanislavskij si faceva un percorso del genere, e alla fine ne uscivano dei personaggi che non sembravano attori, ma persone reali. C’era della vita in ogni personaggio, e fu questo ad appassionare tutti coloro che seguivano i suoi corsi.
Il grande boom del metodo Stanislavskij ebbe proprio luogo in Usa, dove nacque il celeberrimo Actor’s Studio. Fondato a New York nel 1947 da E.Kazan, C.Crawford e L.Strasberg, è ancor oggi la più prestigiosa scuola di recitazione degli Stati Uniti, anche se ha raggiunto il culmine della fama negli anni Cinquanta. Vi hanno studiato attori come James Dean, Rob Steiger, ecc.., e più di recente Jane Fonda e Robert De Niro. L’Actor’s Studio si rifà alle teorie dell'American Laboratory Theatre, fondato negli anni Venti da alcuni attori russi emigrati discepoli di Stanislavskij, sostenitori di una tecnica recitativa improntata al massimo di realismo psicologico. L'Actor's Studio propugna un metodo di recitazione finalizzato alla totale identificazione dell'attore con il personaggio che interpreta, in modo da rivelarne le più intime contraddizioni. Il risultato del metodo è un'interpretazione di grande intensità e coinvolgimento, assai adatta ad esprimere personalità nevrotiche e tormentate, spesso afflitte da conflitti interiori insanabili. Non è più il personaggio che si adatta alle caratteristiche dell'attore, secondo la tradizione hollywoodiana, ma viceversa. L'interprete deve penetrare nel ruolo con tutto se stesso e quindi non solo con le battute della sceneggiatura, ma anche e soprattutto con la gestualità e le espressioni del volto.
In Europa il metodo Stanislavskij venne applicato meno, anche se è stato in parte riscoperto da alcuni registi in anni recenti.


Ritengo personalmente importante dare spazio a Stanislavskij perché, a parer mio, fu il primo a porre le basi del teatro moderno, in collaborazione con Anton Čechov ovviamente. Prima che venissero introdotte e divulgate le innovazioni d’Arte di Mosca, le realizzazioni ottocentesche tendevano ad evidenziare solamente la semplicità e la naturalezza nella recitazione. Con il teatro russo di fine Ottocento-primo Novecento, invece, si sono aperti nuovi orizzonti e si è cercato di dare ai personaggi una maggiore aurea di profondità, riflessività e umanità, riscontrabile anche nelle piccole cose (come ad esempio le indicazioni di regia). Ricordo un buffo aneddoto legato a Il gabbiano. In una delle sue primissime messe in scena, Stanislavskij, per rendere il tutto più reale, voleva mettere sul palco delle rane e delle libellule vere. Ne discusse con Čechov, il quale gli chiese: “Perché?”, e Stanislavskij rispose: “Perché è vero, è più realistico!”. Al che Čechov disse che era inutile, allo stesso modo in cui sarebbe stato inutile togliere da un ritratto ad olio il naso dipinto per sostituirlo con un naso vero. Il realismo di Stanislavskij era interessante da un certo punto di vista, perché si trattava di sperimentazione, ma alla fine non risultava “realistico” in senso teatrale.


Quando in Russia si cominciò a scrivere e recitare in un modo diverso, lo stile predominante era quello del melodramma: personaggi o tutti bianchi o tutti neri, trame dalle forti emozioni. Čechov portò tutto ad un altro livello, un livello pieno di trappole per gli attori: da una parte bisognava aderire di più alla vita, alla realtà quotidiana, dall’altra, però, non si doveva essere solo naturalistici, perché c’era una “poesia” di cui tener conto. È proprio questa poesia a provocare una forma più alta di espressione artistica.
Stanislavskij fu uno di quei personaggi che hanno inciso profondamente sulla storia del teatro; infatti fu il primo regista che possiamo considerare “moderno” a tutti gli effetti. Durante la sua carriera, col tempo, egli tese ad interessarsi sempre meno alla messa in scena e sempre di più all’addestramento dell’attore. Così nacque il celebre “metodo Stanislavskij”[5], il quale è basato sul presupposto che il personaggio debba essere un’entità reale e quindi che non debba essere riprodotto da trucchi e artifici. Un altro concetto-base del metodo è che l’attore deve vivere l’emozione del personaggio come fosse una sua emozione e per far questo deve trovare nella sua biografia una sensazione analoga a quella provata dal personaggio, che gli consenta di rappresentarla.
Lo scopo del grande regista fu quello di far diventare il personaggio una persona a tutti gli effetti. L’attore per rappresentare questa “immedesimazione” deve partire da se stesso, da tutte quelle sensazioni già immagazzinate, dalle quali deve attingere al momento di recitare. Questo processo è chiamato reviviscenza ed è un processo che non si esaurisce alla fine delle prove ma deve necessariamente essere riattivato ogni sera; la “ricerca” deve sempre ricominciare quasi daccapo e quindi, vista la complessità del processo, l’improvvisazione risulta inutile. Ed è per questi motivi che Stanislavskij lavorò sempre con i suoi attori “fedelissimi” in quanto il metodo era difficilmente trasmissibile ad altri attori.
C’è da aggiungere però che la maggior parte del lavoro compiuto in Russia a cavallo tra Ottocento e Novecento – in riferimento al Teatro d’Arte di Mosca - fu lasciato a metà nel momento in cui molti suoi protagonisti emigrarono in Occidente. Questo perché in Russia le cose andavano differentemente - il contesto era molto diverso e la mentalità anche - e in Occidente non ci si rese pienamente conto della portata del cambiamento nella preparazione degli attori. Si presero solo gli elementi più esoterici del lavoro di Stanislavskij e di Čechov, senza sperimentare, senza esplorare, senza vedere cosa poteva accadere nella pratica. Ciò che si fa oggi è essenzialmente un’estensione del lavoro di Stanislavskij e di Michail Čechov, quest’ultimo nipote di Anton e allievo del primo. Certi elementi c’erano già nel metodo originario, ma in Occidente molti elementi iniziali sono stati via via tagliati, rigettati, considerati inutili. Credo quindi che abbiamo perso qualcosa di tutto il processo. “Lo stesso Stanislavskij ha smesso di sperimentare e di esplorare una volta arrivato in quest’altra parte del mondo, ritengo quindi che molte delle questioni da lui sollevate – come da Anton Čechov – sul teatro e sull’attore ancora richiedano una risposta. Il metodo, il sistema di lavoro deve ancora essere perfezionato, deve ancora svilupparsi completamente”[6].
Al giorno d’oggi, con gli attuali tempi di produzione teatrale, l’attore non ha tempo per studiare a fondo il personaggio: c’è troppa pressione, troppa urgenza di emozioni forti, sparate, in condizioni impossibili. Tutto questo tende poi al peggioramento quando entrano in gioco i telefilm, le soap opera e cose simili.






[1] Il 14 aprile 2004 al Teatro Metastasio di Prato è andata in scena, in Prima nazionale, l'Antigone di Sofocle di Brecht diretta da Federico Tiezzi, storico regista dei "Magazzini Criminali".
[2] La dichiarazione è stata rilasciata da Giulio Scarpati in un’intervista, tenutasi in occasione della rappresentazione brugherese dello spettacolo “Una storia d’amore: Cechov e Cechova”.
[3] Michail Cechov (nipote di Anton), l’allievo più brillante del celebre Stanislavskji, scrisse il libro La tecnica dell’attore, in cui percorre e illustra il metodo del Maestro, le sue finalità artistiche e la definizione del gesto psicologico.

[4] La concezione di recitazione il regista russo può essere riassunta in una sua affermazione: “Il mio scopo non è insegnarvi a recitare. Il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi” (Konstantin S. Stanislavskij)

[5] “Nel metodo Stanislavskij, l’espressione è qualcosa che nasce, è agitata, è stimolata, è guidata dagli avvenimenti interni; l’attore deve saper dominare e sollecitare la propria natura nascosta per poter agire sull’esterno (sulla maschera) e manifestare la vita emotiva del personaggio. Non solo, ma il personaggio dev’essere dotato di una vita interiore ed esterna: sono i suoi pensieri nascosti che guidano le sue azioni. Creazione, per Stanislavskij, è sinonimo di procreazione” (Gerardo Guerrieri)

[6] Considerazione di Michel Margotta, prima studente del Pasadena Playhouse College of Theatre Arts, poi membro dell’Actor’s Studio di New York e di Los Angeles. A Roma ha fondato ed è direttore artistico dell’Actor’s Center.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Very pretty design! Keep up the good work. Thanks.
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Anonimo ha detto...

Sapete che hanno girato un film basato su Le Tre Sorelle? Si chiama The Sisters ed è ambientato a New York con Mary Stuart Mastersone, MAria Bello e molti altri attori famosi.
Purtroppo qui in Italia non lo danno al cinema ma solo in home video quindi ci tocca andare da blockbuster e affittarcelo, vabbè meglio che niente :-)
Ciaooo

Anonimo ha detto...

MA è QUESTO THE SISTERS??????????????????????