17.2.07

Filosofia Teoretica: Il fenomeno razziale e la disumanizzazione

di Silvia Del Beccaro













Le riflessioni di autori come Dal Lago, Bauman, Arendt e Foucault forniscono lo spunto per un approfondimento su tematiche comuni: il fenomeno razziale, la necessità di conoscere il passato, la disumanizzazione.

Esaminare il fenomeno razziale e comprenderlo non è certo un compito facile. Occorre innanzitutto capire il significato del termine razzismo per poi risalire alle sue origini e ripercorrerne la diffusione fino ai giorni nostri.
Gli autori Dal Lago, Bauman, Foucault e Arendt sono riusciti in questo intento, seppur ciascuno a modo proprio e con un proprio stile linguistico. Ma tutti e quattro, comunque, hanno utilizzato ragionamenti profondi ed accurati per esaminare quel complesso fenomeno che è il razzismo.

Alessandro Dal Lago, ad esempio, si è espresso nei seguenti termini. Egli è convinto che quello che noi chiamiamo razzismo, nelle sue forme vecchie e nuove, sia il prodotto di circostanze storico-economiche precise, che vanno ricostruite e conosciute.
In particolare, analizza il razzismo economico odierno, legato allo sfruttamento dell’immigrato e al mondo del lavoro in nero, sottopagato.
L’autore crede che la conoscenza di tali circostanze possa permettere di combattere o di ostacolare quello che noi chiamiamo razzismo. A detta di Dal Lago, infatti, “conoscenza” e “responsabilità” servono se si vuole comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità propri della nostra cultura.
In che modo, dunque, oggi è possibile combattere il razzismo?
«Riconoscendo i diritti dei lavoratori emigranti, combattendo l'idea che questi siano necessariamente delinquenti, criticando la stampa o gli intellettuali che prendono per vere queste leggende».

Le affermazioni sopra citate trovano conferma nel testo “Non-Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale ”, scritto dallo stesso Alessandro Dal Lago.
Ripercorrendo alcuni fatti di cronaca realmente accaduti, l’autore pone in evidenza l’atteggiamento di ostilità e superiorità degli italiani nei confronti degli stranieri che sono scappati dal loro Paese, per trovare in Italia un po’ di fortuna ma soprattutto un po’ di lavoro.
La sua non è una semplice ricostruzione dei fatti, bensì la descrizione di un complessivo atteggiamento di chiusura della società italiana verso gli stranieri, trasformati in nemici sociali attraverso la doppia spirale di panico ed esclusione. Dal Lago utilizza termini come inferiorizzazione e valorizzazione negativa, per spiegare l’atteggiamento timoroso degli italiani nei confronti degli stranieri. E la paura che essi provano, al contrario di quanto si possa pensare, non “paralizza” gli italiani, piuttosto li spinge a reagire sfruttandoli, comandandoli, dominandoli, facendoli lavorare in condizioni di pericolo e in nero.
Questa strategia di controllo impone, allo stesso tempo, una lagerizzazione degli stranieri immigrati; il controllo sul diverso da sé, infatti, diventa una condizione eccellente per rafforzare l'idea di sé, per produrre consenso, per incanalare malcontento, per rassicurare i cittadini di diritto di uno stato nazionale in un orizzonte apparentemente globale e transnazionale. Ma mentre i cittadini del Paese ospitante rafforzano l’idea di sé, gli stranieri immigrati vedono negarsi, davanti ai loro occhi, i propri diritti. Quasi sempre essi giungono nel nostro Paese senza documenti e, a detta di Dal Lago, «chi non ha un documento di identità che lo rende pezzo di una compagine nazionale, chi non è dunque un cittadino, non gode di diritti sociali e, di conseguenza, non ha diritti umani». Persone che non hanno la cittadinanza e quindi possono essere espulse in qualunque momento, evidentemente non possono far valere i propri diritti. Ecco dunque che, a partire da un atteggiamento di ostilità e di paura, si giunge ad un atteggiamento di disumanizzazione del diverso, che si trova privato di ogni diritto.

Ma il concetto di disumanizzazione, qui utilizzato da Dal Lago, in realtà ha origini ben lontane. Addirittura si può ricollegare all’epoca dell’Olocausto. Esso infatti viene ripreso anche da Zygmunt Bauman, nel testo “Modernità e Olocausto”.
In esso l’autore dichiara che la disumanizzazione ha avuto inizio nel momento in cui gli ebrei catturati (i nemici) sono diventati “oggetti” dell’attività burocratica nazista e sono stati ridotti ad una serie di misurazioni quantitative.
Secondo Bauman, i burocrati non hanno avuto a che fare con degli esseri umani, bensì con un carico, ovvero con un’entità costituita esclusivamente da quantità misurabili e priva di qualità. Per la maggior parte dei burocrati, infatti, ciò che contava davvero erano solo gli effetti finanziari delle proprie azioni; il loro fine, infatti, era solamente il denaro.
Ridotti, come tutti gli altri “oggetti” della gestione burocratica, a semplici quantità misurabili, gli esseri umani hanno perso allora la propria specificità. A questo punto essi sono stati disumanizzati.
E se, riferendoci alle stragi dell’Olocausto, a noi oggi sembra più corretto parlare di genocidio (pensando alle migliaia di persone uccise da nazisti), alcuni preferiscono parlare di disumanizzazione, trattandosi di oggetti (della burocrazia). Ciò viene confermato dal linguaggio utilizzato all’epoca delle stragi. Ai soldati, ad esempio, veniva ordinato di sparare a dei “bersagli”, i quali cadevano quando venivano colpiti.

Agli occhi dei criminali, quelle stragi brutali sembravano normali. Essi obbedivano solamente agli ordini dei loro comandanti, niente di più. La loro coscienza non si sconvolgeva, tutt’altro. Loro eseguivano solamente un ordine. Che si trattasse di uccidere un uomo, piuttosto che trasportare centinaia di deportati non aveva importanza. Si trattava sempre e comunque di un ordine.
Questo atteggiamento di banalizzazione del male ha scioccato Hannah Arendt, la quale seguì (nel 1961) le 120 sedute del processo ad Eichmann come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme.

(ndr. Otto Adolf Eichmann aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio).

Contrariamente alle aspettative, la Arendt sostenne che «le azioni naziste risalenti all’epoca dell’Olocausto furono mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso».
La Arendt esprime così la sua opinione nel testo “Origini del totalitarismo”. Il male non è più qualcosa di eccezionale, ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Eichmann ne è un esempio. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, infatti, egli sostenne sempre che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini.
Secondo Hannah Arendt, la banalizzazione del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. Ed è proprio questo che mancò ad Eichmann: quello che lei chiama “lo spazio pubblico”, cioè lo spazio per giudicare quello che avviene.

Di normalità parla anche Alessandro Dal Lago, il quale studia la ragione (lo straniero lavoratore, i diritti di cittadinanza) attraverso la follia (noi e le nostre fobie).
Egli vuole far emergere il paradosso costitutivo della nostra esistenza quotidiana, per cui sembra di vivere in un mondo rovesciato, dove il buon senso non ha cittadinanza e la follia si manifesta nella “normalità” del senso comune: «un’impressionante coro di luoghi comuni, di dati orecchiati se non inventati, di banalità spacciate per realismo, di pregiudizi da trivio».

Come combattere allora questo senso comune, questi luoghi comuni? Dal Lago chiede di ritrovare oggettività nei resoconti della realtà, che talvolta viene occultata o modificata attraverso i media e le parole di opinion leader quali magistrati, avvocati, poliziotti, giornalisti ed operatori sociali.

La stessa necessità di far emergere la verità è chiamata in causa anche dal francese Michel Foucault, il quale si interroga sull’esistenza di un problema storico di fondo, che consiste nel sapere perché l’Occidente non ha voluto vedere, così a lungo, il potere che esercitava se non in un modo giuridico-negativo, invece che vederlo in un modo tecnico-positivo.
Michel Foucault è stato autore di opere fondamentali che hanno contribuito a mettere in luce aspetti poco studiati dal pensiero politico, in particolare i cambiamenti avvenuti nel modo in cui il potere viene esercitato. Lo studio del potere non dovrebbe passare tanto attraverso il concetto di sovranità e contratto sociale, a detta di Foucault, quanto piuttosto analizzare “le relazioni di assoggettamento”.
L’analisi del filosofo francese parte dalla constatazione del cambiamento che si è verificato nell’esercizio del potere; il diritto di morte è stato infatti sostituito dal potere sulla vita.Il sovrano disponeva del diritto di vita e di morte sui suoi sudditi. Questo potere però, con il passare del tempo, si è modificato: il diritto di morte, infatti, è stato sostituito con un potere che si dava come priorità la gestione stessa della vita, con precisi controlli e regolazioni d’insieme. Questo potere sulla vita, che si sintetizza bene nel termine bio-politica, a partire dal XVII secolo si è polarizzato attorno a due nuclei principali: il primo considera il corpo una macchina da disciplinare con delle tecniche opportune e precise, il secondo polo è centrato sul corpo-specie e su tutta una politica della popolazione.
Il primo meccanismo, quello della disciplina, è stato realizzato con la sorveglianza e l’addestramento, che si sono sviluppate tra il XVII e XVIII secolo attraverso istituzioni come la scuola, l’ospedale, la caserma e la fabbrica.
Alla fine del XVIII secolo si è poi verificato il secondo adattamento, quello che ha coinvolto i fenomeni globali di popolazione, con una bio-regolazione a livello statale, per quanto riguarda ad esempio le nascite e la longevità.
Il bio-potere è stato anche un elemento importante per lo sviluppo del capitalismo, che è riuscito ad affermarsi grazie all’inserimento dei corpi negli apparati produttivi, funzionali ai processi economici. Le istituzioni dello Stato hanno assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione e hanno agito favorendo l’instaurarsi di una certa gerarchia sociale, che garantiva rapporti di dominazione e di egemonia. Così, gli esseri umani si sono dovuti adeguare all’accumulazione del capitale e alla ripartizione del profitto.
I problemi legati alla società industriale, come gli infortuni, e l’impossibilità di lavorare oltre una certa età, hanno fatto sì che la bio-politica producesse tutta una serie di istituzioni di assistenza, che esistevano già in quanto legati alla chiesa ma che sono stati resi più sottili e razionali con le assicurazioni e le varie forme di risparmio e sicurezza sociale. Nel XVIII secolo si ha avuto quindi l’ingresso della vita nella storia, cioè l’ingresso dei fenomeni propri della vita della specie umana nell’ordine del sapere e del potere, nel campo delle tecniche politiche.

Per concludere, infine, mi ricollego alla Arendt, la quale, come Dal Lago e Foucault, insiste sull’importanza del sapere, anche se l’autrice si concentra più sulla necessità di conoscere il passato, perché, a detta sua, ogni problema attuale è espressione di un altro problema passato o di un insieme di problemi.
Dietro agli elementi che stanno alla base del totalitarismo (antisemitismo, razzismo, imperialismo), si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano; dietro l'espansionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo e che siamo costretti a dividere con popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale.

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