29.6.07

Dico, coppie di nome e di fatto

di Silvia Del Beccaro

“C’è chi dice no... c’è chi dice no!” cantava anni fa Vasco Rossi, senza sapere che qualcuno avrebbe detto “no!” per davvero. La Chiesa e parte del Governo attuale condannano le coppie di fatto, i famigerati Dico – diritti e doveri dei conviventi: coppie unite nel sacro vincolo dell’amore, ma disunite nell’altrettanto sacro vincolo del matrimonio.
Nel corso della lunga battaglia politica, che ha avuto per oggetto i Dico, c’è stato chi ha detto esplicitamente “no”, proprio come aveva previsto Vasco, per una serie di ragioni.
Il vescovo Velasio De Paolis è convinto che esista un gruppo capace di agire nell’ombra e influenzare chi fa le leggi, intenzionato ad attuare una guerra ideologica contro la famiglia, il matrimonio e i valori difesi dalla Chiesa.
Anche papa Ratzinger si è scagliato contro i Dico, ribadendo che matrimonio e famiglia sono il fondamento più intimo della verità per l’uomo. Sulla roccia dell’amore coniugale – fedele e stabile – tra un uomo e una donna, si può edificare una comunità degna dell’essere umano.
C’è dunque chi dice no... Ma per fortuna c’è anche chi dice sì: un sì convinto, fermo, deciso a regalare alle unioni di fatto dei diritti.
Barbara Pollastrini, Ministro delle Pari Opportunità, è convinta che se il Senato facesse naufragare i Dico sarebbe uno spreco per le persone, per i loro diritti, doveri e speranze. Co-autrice – insieme a Rosy Bindi – del disegno di legge sui diritti e i doveri dei conviventi, la Pollastrini è sostenuta anche da Vannino Chiti, Ministro dei Rapporti con il Parlamento, che si augura che un tema così delicato – com’è quello delle unioni civili – possa svilupparsi in un confronto serio ed approfondito, senza elementi pregiudiziali.
Politici a parte, il tema Dico è visto positivamente da tutti coloro che non desiderano o vorrebbero ma non possono – e rappresentano la casistica più numerosa – sposarsi.
Coppie di fatto, unioni civili... Tanti termini per indicare un unico vero concetto: l’amore di due persone. Uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna. Attenzione, però. I Dico non sono una via di fuga per sostenere la causa omosessuale, come molti erroneamente hanno pensato. Si tratta di un’agevolazione per tutte quelle coppie che magari, al momento, non possono permettersi di spendere 3.000 euro per un vestito da sposa, 2.000 euro per uno smoking, 10.000 per un rinfresco e 5.000 euro per le bomboniere. Perché il matrimonio sarà sì un’unione sacra, ma è anche una spesa ingente che molti giovani oggi – tenendo conto dell'universo multiforme del precariato – non possono permettersi.
Non escludo che esistano anche casi in cui la coppia, per principio, non sia intenzionata a sposarsi. Ma si tratta: uno di persone che comunque si amano, forse più di qualche coppia sposata; due di uomini e donne che santificano il concetto di coppia amandosi reciprocamente e onorandosi l’un l’altra.
Approvare i Dico non significherebbe sminuire il matrimonio, tutt’altro; piuttosto equivarrebbe a dare un’opportunità anche ai giovani di poter vivere una vita insieme, godendo di diritti e di doveri, gli uni verso gli altri...

24.6.07

La religione vichinga: dèi Asi e dèi Vani

di Marco Apolloni


Una religione guerresca, come quella vichinga, non poteva non avere la sua genesi se non in uno scontro epico tra due fazioni di divinità: gli dèi Asi e i Vani1. Questa guerra si conclude con un'insperata pace. L'accordo prevede uno scambio di ostaggi. Quelli che vengono a vivere ad Asgard, la capitale degli dèi Asi, sono: il padre Njörd, suo figlio Freyr e sua figlia Freyja – divinità queste simboleggianti ciascuna: la fertilità della terra, la vita sessuale e la vita amorosa. Per far pace essi sputano di comune accordo su di un recipiente. Da questo «pegno di pace» viene plasmato un uomo Kvasir, di straordinaria saggezza. Il destino di Kvasir è però segnato: due nani lo uccidono, distribuendo il suo sangue in tre recipienti diversi, in cui vi mescolano del miele formando così «l'idromele di poesia e di saggezza». I due nani poi raccontano agli dèi che Kvasir è soffocato nella propria saggezza, non essendovi stato alcuno capace di esaurirla con le sue domande2. Molti studiosi propendono col ritenere che questa guerra tra gli dèi Asi e Vani sia lo specchio di un analogo conflitto tra due popolazioni umane, laddove i Vani corrispondono ad una stirpe più originaria e pacifica, mentre gli Asi ad una venuta dopo e decisamente più guerresca. Lo studioso di religioni francese Georges Dumézil, invece, non è di questo avviso. Questi frappone ad una tesi storicizzante, che vede nella guerra tra gli dèi Asi e Vani un riflesso di avvenimenti storici realmente accaduti, la sua tesi strutturalista3. Secondo questa, infatti, Asi e Vani sono divinità che presuppongono ciascuna l'altra, poiché sono appunto complementari – ossia gli uomini hanno bisogno di affidarsi sia agli uni che agli altri. Anche se Dumézil stesso non nega una certa veridicità della tesi storicizzante, che riflette davvero un mondo che esisteva già prima degli Indoeuropei – poi divenuti i Germani. Ad ogni modo lui ritiene che persino le popolazioni più antiche necessitassero sia di un tipo di divinità pacifiche che di altre – per così dire – guerrafondaie, a cui rivolgere i loro tributi a seconda dei casi.
Tutte le principali divinità appartenenti al pantheon nordico sono degli Asi: Odino, Thor, Ty, Baldr, Heimdal, Ull. La capitale degli Asi è Asgard, da dove il potente Odino amministra saggiamente il suo potere nella grande magione chiamata Valhalla, con le sue quaranta porte e il trono splendente Hlidskjalf. Il cielo iperuranico degli dèi è separato dal ponte Bifröst – trattasi del tremulo arcobaleno. La terra è circondata dal grande oceano, dimora del serpente di Midgard. Sulla sponda più lontana dell'oceano si trovano le montagne dei titani, Jötunheim, dov'è situata la loro cittadella, Utgard. Negli abissi della terra è celata la landa desolata dei morti, Hel – da cui deriva l'inglese Hell: Inferno. L'equivalente dell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male, che si trova nelle Genesi, qui lo riconosciamo nell'albero di frassino Yggdrasil. Accanto a Yggdrasil si trovano due fontane: la fontana della saggezza di Mimi e l'altra del destino di Urd. Quattro cervi insidiano le radici di Yggdrasil, che per questo langue e rischia di marcire. Ma le tre Norne: Urd, Vernandi e Skuld – vale a dire le tre dee rispettivamente: del Passato, del Presente e del Futuro – lo innaffiano in continuazione e si prendono cura dei suoi germogli. In un sacrario nei pressi della fontana di Urd si riuniscono gli dèi, Asi e Vani, per il loro consueto thing o assemblea.
Di particolare interesse è la concezione escatologica – cioè della fine dei tempi – propria della religione vichinga. Il paradiso è concepito dai vichinghi come una battaglia senza posa in attesa del giorno finale del giudizio: il Ragnarök, dove si regoleranno tutti i conti lasciati in sospeso fra gli dèi buoni e quelli altresì malvagi. Esso sarà preceduto da «tempo di spada» e «tempo di lupi», in cui verranno compiuti fratricidi e incesti. Dice Brøndsted nel suo saggio I vichinghi:

I galli canteranno nel palazzo di Odino, nello Hel e nelle selve dei sacrifici. Cresceranno orrore e paura. È l'epoca dei mostri giganteschi: il cane infernale Garm abbaierà; il lupo Fenrir, rotte le catene, scorrazzerà libero con le sue fauci che vanno dalla terra al cielo; il serpente di Midgard sferzerà l'oceano facendolo spumeggiare e sputando veleno sulla terra. Il gigante Hrym solcherà i mari con la sua nave Naglfar, costruita con le unghie dei morti; i figli di Muspel vi s'imbarcheranno e partiranno agli ordini di Loki. L'albero Yggdrasil tremerà, il cielo si spaccherà, le rupi crolleranno. In Jötunheim si sentirà un rombo, i nani strilleranno. Odino starà in allarme, Heimdal suonerà il suo corno, il ponte Bifröst crollerà, e il gigante Surt avanzerà vomitando fuoco. [...]4

Segue a questo efficace proemio, la descrizione roboante della battaglia decisiva in cui ciascuna divinità, sia essa benigna che maligna, verrà annientata. Odino verrà sbranato dal lupo famelico Fenrir, che a sua volta troverà la morte per mano di Vidar, che vendicherà così l'uccisione del padre. Thor ucciderà il serpente di Midgard – ma come Beowulf e Buliwyf – morirà a causa del veleno di questi. Ty e il cane infernale Garm si ammazzeranno a vicenda e stessa sorte toccherà a Heimdal e Loki. E così via per gli altri... In conclusione, però, dalle ceneri di questa battaglia risolutiva, rinascerà un nuovo mondo totalmente epurato dal male. L'alba di un nuovo giorno bussa ormai alle porte, una nuova religione senza peccato prenderà il posto della vecchia religione pagana: al martello di Thor si sostituirà la croce di Cristo.

***


1Vi sono anche altre specie di divinità, meno importanti. Tra cui primeggiano: gli Elfi o alfar.
2Dumézil, G., Gli Dèi dei Germani, Adelphi, Milano, 1991, vedi pp. 44-45-46-47-48-49. Kvas era anche il nome di una bevanda in uso presso i popoli slavi, che donava l'ebbrezza. Questo mito germanico presenta una palese analogia con un mito indiano. Come gli Asi e i Vani della mitologia germanica, anche nella mitologia indiana vi è un conflitto originario dello stesso tipo tra gli dèi Indra e quelli Nâsatya. Un'asceta alleato dei Nâsatya fabbrica con la forza della sua ascesi un mostro: «Ebbrezza», Mada, che minaccia d'inghiottire tutto il mondo. Indra, spaventato, subito cede e stipula la pace coi Nâsatya. Per questi ultimi, però, a questo punto si pone il problema di come sbarazzarsi del mostro che non è altro che la personificazione dell'ebbrezza. Sicché l'asceta suo artefice si sbarazza della sua mostruosa creazione, facendolo in quattro pezzi, che vanno poi a distribuirsi nei quattro elementi che da quel momento in poi inebrieranno gli uomini: la bevanda, le donne, il gioco, la caccia. In questa analogia tra i due miti – germanico e nordico – è possibile rintracciare oltre che la diversa accezione – nel primo positiva e nel secondo, invece, negativa – che si dà dell'ebbrezza, anche una comune accezione – per entrambi positiva – di come all'origine dell'iniziale conflitto, seguito poi ad una pronta riconciliazione, tra divinità della fertilità e divinità della guerra vi sia l'esaustivo punto di approdo per un'armoniosa collaborazione delle classi sociali: sia dei coltivatori che dei guerrieri...
3Gli Dèi dei Germani, vedi pp. 28-29-30.
4I vichinghi, cit. pp. 271-272.

20.6.07

I vichinghi: cultura o civiltà?

di Marco Apolloni

Nelle pagine iniziali di presentazione del suo romanzo Mangiatori di morte, Crichton ci dà una descrizione sommaria dei vichinghi. Ci dice che i nostri libri di storia ci hanno insegnato che la “culla della civiltà” è l'Oriente e che l'Occidente è solo un ricettore, seppur attivo, dei valori espressi nelle società orientali. Tesi, questa, rafforzata da uno studioso di filosofia della storia qual è Remi Brague, che nel suo saggio Il futuro dell'Occidente individua proprio nella «secondarietà» il carattere preminente che l'Occidente ha saputo imporre. I due esempi, universalmente riconosciuti, che lui cita sono l'impero romano e il cristianesimo. Entrambi hanno avuto l'indiscutibile merito di esser stati dei continuatori di ciò che prima era già stato imposto: dalla grecità classica e dall'ebraismo1. Seguendo questa linea interpretativa, dunque, cosa dovremmo dire di quei pirati dei mari del nord, usualmente raffigurati con dei baffoni spioventi, chiome fulve, elmi con le corna, spade damascate e una ferocia inaudita in battaglia? Qual è stato il contributo storico da loro dato alla formazione, ad esempio, di quella grandiosa idea – che noi tutti prima o poi ci auguriamo possa diventare realtà – che è l'Europa? Riportiamo un'opinione di Lord Clark:
«Se si considerano le saghe islandesi, annoverabili tra i grandi libri del mondo, dobbiamo ammettere che i normanni produssero una cultura. Ma era anche una civiltà?... Civiltà è qualcosa di più che energia, volontà e capacità creative; è qualcosa che gli antichi normanni non avevano ma che, già a quell'epoca, cominciava a riapparire nell'Europa occidentale. Come posso definirla? Be', assai sommariamente, un senso di permanenza. I nomadi e gli invasori vivevano in uno stato permanentemente fluido. Non sentivano il bisogno di guardare oltre il prossimo marzo, il prossimo viaggio o la prossima battaglia. Per questo non gli venne mai in mente di costruire case di pietra o di scrivere libri.»2.
Questo tipo di opinione è il più lampante esempio di pregiudizio contro quella che è la cultura vichinga. L'opinione di Lord Clark più o meno ricalca quella del grande storico danese Johannes Brønsted, che così conclude il suo saggio intitolato I Vichinghi: «Quando finalmente l'età vichinga volse al termine, i Vichinghi avevano ricevuto dall'Europa più di quanto non avessero dato; il nord che essi lasciarono ai loro discendenti, per quanto animato da influenze europee, non si era indebolito, ma era cambiato giacché era entrato in una nuova civiltà.»3. Tuttavia quando Brønsted parla di «nuova civiltà» crediamo presupponga che già quella dei vichinghi fosse una civiltà, seppur magari più acerba di quella in cui essi stessi poi confluirono. Come Crichton, anche noi pensiamo che stabilire se i vichinghi abbiano prodotto soltanto una cultura oppure una civiltà sia una mera questione di semantica – neanche delle più rilevanti. Quel che importa è che questi giganti tatuati – così come ce li descrive Ibn Fadlan – nascondevano dietro la loro smania d'avventura, di battaglie e di imprese sempre nuove, anche numerose abilità: i loro agili scafi di frassino – che guadagnarono loro il soprannome di ascomanni, letteralmente “uomini dei frassini” – sui quali erano scolpiti i volti di draghi che servivano a proteggere l'equipaggio dagli spiriti maligni e che denotavano la loro perizia marinara; inoltre, essi erano anche degli esperti fabbri e conoscevano per filo e per segno i segreti della metallurgia; poi ancora, la loro sublime poesia4 e prosa scaldica – ci hanno consegnato autentici capolavori della letteratura universale; infine, che dire del codice etico Hávamál, che non ha nulla a che invidiare a codici orientali quale, ad esempio, l'HagakureCodice segreto dei samurai – del monaco buddista Yamamoto Tsunetomo. Che importanza ha poi se opere come l'Hávamál peccano di fatalismo? C'è un fatalismo che ancora oggi è duro a morire. Che la nostra vita sia un bene di cui non disponiamo, ma di cui bensì siamo disposti, chiunque ne sa qualcosa. È lecito pensare che l'etica vichinga sia la vetta massima raggiunta da questi rozzi guerrieri con un indistruttibile senso dell'onore, dell'amicizia e del buon morire – quindi anche del buon vivere, dato che Morte e Vita sono elementi della stessa sostanza omogenea.
Il prepotente ingresso dei vichinghi, nelle pagine dei manuali di storia europea, è segnato da quella che è la loro prima scorreria piratesca di cui ci è giunta memoria, ossia l'assalto dell'8 giungo 793 a Lindisfarne, nei pressi della costa del Northumberland. Qui essi sbarcarono e come dei demoni venuti da oltremare – non a caso gli arabi erano soliti chiamarli madjus, cioè stregoni pagani – si portarono dietro l'inferno e dietro di loro lasciarono solo terra bruciata. I vichinghi, infatti, passarono a fil di spada molti monaci inermi, scassinarono i tesori locali che subito vennero stivati nei loro fulminei scafi e rapirono donne – da quegli insaziabili esseri sensuali qual erano. I monaci sopravvissuti tramandarono nelle loro memorie l'orrore e la brutalità di quegli uomini pugnaci. Una cosa va però specificata: scorrerie come queste sono state episodi fugaci dovuti all'iniziativa isolata di qualche intrepido capitano di ventura, capofamiglia o capotribù.
Gli storici sono propensi a rintracciare due motivi principali per questa entrata in scena prepotente dei vichinghi. Il primo motivo è da ricercarsi nella poligamia. Tesi questa sostenuta per la prima volta da Dudone di San Quintino (morto nel 1043) e successivamente avvalorata da Adamo di Brema, che definisce i vichinghi in materia di donne «viziosi come gli slavi, i parti e i mori»5. Di certo i costumi sessuali lussuriosi di costoro, come naturale conseguenza dei loro sfrenati eccessi, doveva produrre una numerosa figliolanza. E così fu, almeno in parte. Molti di questi “frutti della lussuria” ad un certo punto della loro vita venivano esplicitamente messi alla porta di casa dai loro stessi padri, che li invitavano ad andarsi a procacciare miglior fortuna altrove. Dunque, in un contesto simile, ci sembra piuttosto ovvio come l'indole di questi giovani potesse venire temprata dalla fame di avventure e di conquiste memorabili, vista l'aridità e la ristrettezza del suolo natio. Il secondo motivo della loro comparsa fu appunto la volontà di espansione, dovuta in larga misura a ragioni di natura prettamente geografica. Addirittura taluni hanno intravisto in questa loro sete illimitata di conquiste territoriali, una motivazione ulteriore di tipo climatico. Tuttavia molti dati in nostro possesso ci fanno propendere per un misurato scetticismo riguardo questo eventuale terzo motivo.
Solitamente per popolazioni vichinghe s'intendono: i danesi, i norvegesi e gli svedesi. Ciascuno di questi popoli tardò a trovare una struttura socio-politica unitaria e anche quando la trovò si trattò di una costruzione piuttosto fragile. Vi era una sostanziale divisione in classi laddove spiccava il re come primus inter pares6, primo fra pari. Poche altre società si sono forgiate, come quella vichinga, sull'altissimo e nobilissimo valore dell'amicizia, oggi troppo spesso trascurato. Mai come per un vichingo: trovare un amico significava trovare un tesoro. L'amicizia era il cemento con cui venivano rinsaldati i loro rapporti umani. A tal proposito, così recita un passo molto bello dell'Hávamál: «Ero giovane, molto tempo fa; camminavo solo e smarrii la via, ma trovai la ricchezza in un compagno. Nell'uomo è la gioia dell'uomo.»7. In definitiva, le classi erano pressoché tre: i conti, ovvero la classe più abbiente, disponevano di una propria flotta e potevano organizzare – al pari del re – lunghe campagne militari lontano dalla madrepatria; i contadini, i quali godevano della massima libertà e dignità, vivevano di ciò che producevano e le loro donne, così come quelle dei conti, erano anch'esse ben trattate e rispettate da tutti; infine, vi erano gli schiavi che venivano spesso fustigati in pubblico8 e totalmente disprezzati, come d'altronde avveniva in un po' tutte le società dell'epoca.
I danesi e i norvegesi, che disponevano di territori decisamente poveri, furono i più avventurosi – costretti evidentemente dalle condizioni contingenti. Approssimativamente i danesi conquistarono e mantennero l'egemonia, seppur a fasi alterne, di tutta la zona comprendente l'attuale Inghilterra. Essi, inoltre, non rinunciarono a terrorizzare diverse località della costa della Normandia. I norvegesi, invece, proliferarono in Scozia e Irlanda. Essi, poi, colonizzarono terre ostili quali l'Islanda e la Groenlandia e, in particolare, si servirono di quest'ultima come trampolino di lancio per spingersi fino al Labrador e a Terranova. A quanto risulta, i primi scopritori delle inesplorate coste americane furono proprio i norvegesi; alcuni di essi, smarrendo la rotta, approdarono poco prima dell'anno mille nel continente nordamericano. Da qui si originarono le leggende sulla scoperta del Vinland o “terra del vino”, per la presenza potenzialmente sterminata di vigneti. Per quel che concerne altresì gli svedesi, essi si espansero ad est e, seguendo il corso del Volga, giunsero fino a Bisanzio. Una curiosità a riguardo è la presenza di un corpo di guardia, formato esclusivamente da formidabili guerrieri detti variaghi – inizialmente questo termine designava i mercanti –, al soldo dell'imperatore bizantino. La presenza svedese in Grecia è oltretutto testimoniata dalle iscrizioni runiche, ormai cancellate dalle intemperie, presenti sul grande leone marmoreo ritrovato nel Pireo, che oggi è conservato a Venezia. Inoltre, il nome dell'attuale Russia lo dobbiamo proprio ad una tribù svedese: i «Rus».
L'epopea vichinga si snoda in ben tre secoli: IX, X e XI secolo (dopo Cristo). Durante questo periodo essi raccolsero più di quanto non seminarono, contaminandosi con altre società senza dubbio più evolute. Malgrado le quisquilie sul fatto che i vichinghi abbiano saputo produrre o meno una civiltà, di sicuro la loro presenza nella memoria collettiva europea è pressoché indiscutibile. Il loro apporto, di qualsiasi entità si sia trattato, v'è sicuramente stato. Tanto che almeno un tassello di quell'intricato mosaico qual è l'identità europea, lo dobbiamo senz'altro ai vichinghi. Senza di loro l'Europa non sarebbe mai stata ciò che è ora e, quel che più conta, mancherebbe di uno dei suoi tasselli costitutivi.

***

1Brague, R., Il futuro dell'Occidente, Rusconi, Milano, 1998.
2Mangiatori di morte, cit. p. 11.
3I Vichinghi, cit. p. 321.
4Uso appositamente il termine “sublime” per descrivere particolari composizioni come l'Edda di Snorri Sturluson, il cui lirismo è tutto proteso a cantare gesta eroiche in un linguaggio davvero forbito ed emozionante. Vedi espressioni quali: l’«ape feritrice» (la freccia), «la tana del drago» (l’oro), la «terra dei falchi» (il braccio, dato che regge il falcone da caccia), «l’uccello chigliato» o «l’alce del fiordo» (la nave) e per finire «l’idromele di Odino» (la poesia).
5Pörtner, R., L'epopea dei vichinghi, Garzanti, Milano, 1972, cit. p. 18.
6Tuttavia solo in linea teorica si trattava di una società paritaria. Infatti difficilmente una famiglia ricca godeva dello stesso trattamento giuridico di una famiglia meno abbiente. Addirittura nei thing o assemblee locali, dove ci si riuniva per prendere le decisioni più importanti, spesso finiva che la famiglia più povera dovesse pagare pegno a quella più ricca, anche nel caso in cui uno dei suoi componenti aveva subito un torto da uno dei componenti dell'altra famiglia. In definitiva, l'uguaglianza delle società vichinghe era ben lontana dall'utopica égalité: entrata a far parte del vocabolario collettivo soltanto dalla Rivoluzione francese in poi.
7I Vichinghi, cit. p. 250. Questo passo testimonia come popolazioni considerate “barbare”, come quelle vichinghe, fossero tutto il contrario di quel che si dice. Crediamo sia difficile trovare una così vibrante dimostrazione di umanesimo, inteso come ricerca della propria ricchezza nel diverso da sé, che vuol dire esattamente specchiarsi negli occhi dell'altro e riconoscervi un'unica grande persona umana...
8Tanto era radicato il senso dell'onore tra gli uomini liberi, che essi preferivano pagare i loro sgarri con la morte piuttosto che con la frusta, per non doversi sottoporre allo stesso trattamento riservato agli schiavi.

18.6.07

"Mangiatori di morte" di Micheal Crichton

di Marco Apolloni

Il bel romanzo storico di Micheal Crichton, Mangiatori di morte, si aggiunge alla schiera di quei veri e propri “casi letterari”, come Le poesie di Ossian di Macpherson e Il Necronomicon di H.P. Lovecraft1, le cui fonti sono state dagli autori stessi volutamente occultate o comunque mistificate. La storia si basa su un manoscritto, che esiste davvero e che peraltro è molto citato fra gli storici, del dignitario arabo Ibn Fadlan. Questi ci fornisce una prima dettagliata descrizione degli usi e dei costumi dei vichinghi, da quel fine osservatore e antropologo quale fu. Di questo manoscritto Crichton trascrive, parafrasandoli, alcuni punti tra cui ciò che concerne: i costumi dei normanni – letteralmente: “uomini del nord” – e i loro usi funerari. Esemplare è la descrizione che lui ci dà del funerale di un grande capo normanno. Di essi lui dice: sono alti come palme, tanto da parere dei giganti; indossano abiti di panno ruvido buttati dietro ad una spalla in maniera tale da lasciare libera una mano; sono muniti ciascuno di una scure, di un pugnale e di una spada – persino le donne sono armate di pugnale; le loro spade sono di fabbricazione franca2, nonostante gli stessi scandinavi non disdegnassero fabbricare in proprio delle buone armi e fossero dei fini conoscitori dei segreti della metallurgia; avevano tatuaggi sul collo raffiguranti alberi, animali o altri esseri viventi3.
Su Ibn Fadlan le notizie storiche sono perlopiù incerte e frammentarie. Di lui si sa che partì da Baghdad – allora “città della pace”4 – il giorno giovedì 11 safar dell'anno 309 secondo il calendario arabo (corrispondente al 21 giugno 921 in quello cristiano), insieme ad un'affollata carovana di persone. Il Califfo al-Muqtadir5 lo aveva incaricato di andare a diffondere l'islam presso la corte del re dei Bulgari, dal quale non giunse mai. Il motivo di questa missione nel romanzo viene spiegato con una “marachella” da libertino impenitente commessa da Ibn Fadlan, che ha giaciuto con la bella moglie di un vecchio mercante. Quest'ultimo, sospettoso, si era rivolto al Califfo per chiedere giustizia, che in privato si fece una risata ma in pubblico dovette accontentare il vecchio e perciò esiliare momentaneamente Ibn Fadlan. Dopo mille peripezie la carovana del diplomatico arabo si accampò sulle rive del Volga, dove venne a stretto contatto con una tribù di mercanti-guerrieri vichinghi. Il termine con cui lui chiama questa popolazione scandinava è «Rus»6. Da qui ha inizio la storia romanzata: l'incontro con l'impavido Buliwyf e i suoi valorosi dodici guerrieri, il suo luogotente Ecthgow e il fido combattente Herger – che nel corso della narrazione sarà l'unico interlocutore diretto dell'arabo, dato che è l'unico normanno a conoscere alcuni vocaboli latini.
La descrizione complessiva del romanzo è fedele al manoscritto originale pervenutoci nella traduzione di Per Fraus-Dolus, conservata presso gli Archivi della biblioteca dell'Università di Oslo, Norvegia. Ibn Fadlan rimane subito inorridito dalla sporcizia di questi giganteschi infedeli, che defecano senza pulirsi, fornicano davanti a tutti, si lavano la faccia e si soffiano il naso in una bacinella che viene puntualmente riutilizzata e fatta girare da tutti. La morte del loro capo Wyglif innesca una contesa per il comando tra Buliwyf stesso e un omone di nome Thorkel. Il rituale della sepoltura di Wyglif viene descritto minuziosamente: una nave viene tirata a secco, il defunto viene riccamente rivestito, numerosi oggetti di valore – che si pensano possano servire nell'aldilà – gli vengono posti accanto, animali vengono fatti a pezzi – un cavallo, due buoi, un gallo e una gallina – e, cosa più sconvolgente, una schiava si offre di accompagnare il padrone nel suo ultimo viaggio. Sotto gli occhi increduli di Ibn Fadlan, la ragazza prescelta, in uno stato pressoché totale di trance, passa da una tenda all'altra degli uomini di Wyglif, che la possiedono carnalmente per onorare la memoria del loro capo. Infatti ognuno di essi prega la ragazza di riportare testuali parole: «Dì al tuo padrone che ho fatto questo solo per amor suo.»7. Dopodiché alla ragazza viene data una gallina a cui essa distrattamente trancia di netto la testa e nella sua lingua si lascia andare ad una nenia rituale. L'arabo incuriosito chiede e ottiene di farsi tradurre quanto dice la ragazza. Questo è quel che gli riferisce l'interprete: «La prima volta ha detto: “Oh, vedo mio padre e mia madre”; la seconda volta: “Oh, ora vedo seduti tutti i miei parenti defunti”; la terza volta: “Oh, ecco il mio padrone, seduto in paradiso8. Il paradiso è così bello, così verde. Ci sono con lui i suoi uomini e i suoi ragazzi. Mi sta chiamando. Portatemi da lui.”»9. Dopo quest'ultima preghiera la ragazza viene affidata ad una vecchia strega – detta appropriatamente “angelo della morte” –, che la introduce nella cabina della nave dov'è adagiato il corpo del defunto e le squarcia il costato, mentre allo stesso tempo alcuni uomini tirano una corda per strangolarla – questo serve per darle una morte immediata. Intanto per soffocare le grida della poveretta vi è un rullo assordante di tamburi, in modo tale che le altre giovani non si spaventino troppo e che quando occorra non si tirino indietro nel sacrificarsi per i loro padroni. In ultimo la nave coi corpi dei due defunti viene incendiata e presto le fiamme guizzano favillanti. Particolarmente rivelante è l'altarino che vede protagonista un normanno e l'arabo: il primo definisce gli arabi degli stupidi perché seppelliscono i loro defunti, facendoli divorare dai vermi, mentre loro sono soliti bruciarli per farli giungere prima in paradiso.
Dopo il funerale del gran capo, un sinistro messaggero – Wulfgar, figlio di un grande re del nord, Rothgar – compare per chiedere l'aiuto del nobile Buliwyf, dato che la sua terra è minacciata da un pericolo innominabile che discende con la bruma. I normanni si rivolgono alla strega con funzioni di veggente – la stessa che aveva sacrificato la schiava di Wyglif. Questa ordina a Buliwyf di formare una compagnia di tredici uomini, di cui uno straniero, per soccorrere re Rothgar. La scelta del tredicesimo guerriero10 cade dunque su Ibn Fadlan, che, messo nelle condizioni di non poter rifiutare, salpa il giorno seguente verso le terre del nord. Durante il viaggio l'arabo stringe amicizia con l'allegro normanno Herger. Tra i due vi sono ricorrenti scambi di battute, rigorosamente in latino – in particolare è curioso vedere la netta contrapposizione tra la religione politeista di Herger e quella invece monoteista di Ibn Fadlan. Se il primo invoca di frequente i suoi numi tutelari, il secondo non può fare a meno d'invocare Allah: «il Compassionevole, il Misericordioso». Molto belle sono le pagine finali dove la contrapposizione religiosa tra i due si smussa e diventa secondaria o, ad ogni modo, di scarsa rilevanza. Tant'è che il pragmatico Herger dice al suo amico arabo in procinto d'imbarcarsi verso la sua terra: «Forse dalle vostre parti è sufficiente un solo Dio, ma qui no; qui ci sono molti dèi e ognuno ha la sua importanza e noi quindi li pregheremo tutti per il tuo bene.»11. Questa frase riconciliatoria dovrebbe servire da esempio per far sì che si renda possibile una pacifica convivenza fra le diverse religioni. Il rispetto dell'altro, inteso come il diverso da sé, è il più grande insegnamento che possiamo ricavarne...
Durante la traversata in mare, per raggiungere il regno di Rothgar, l'arabo rimane esterrefatto nel vedersi davanti quello che lui chiama «mostro marino», ma che in realtà è una balena, rivelando così un'insospettata vena superstiziosa12. Giunti alla corte di re Rothgar nella terra di Venden, la situazione che i nostri eroi si trovano a dover fronteggiare non è tra le migliori. Il re è vecchio e stanco, e il suo regno si sta lentamente sbriciolando ai suoi piedi. Una minaccia esterna, rappresentata dai «wendol», «wendlon» o «mangiatori di morte»13, continua a falcidiare vittime innocenti, non appena cala la bruma e «il drago di fuoco» scende giù dalla collina. Come se non bastasse una non meno insidiosa minaccia interna, costituita dall'infido figlio del re, il principe Wiglif – già uccisore di alcuni suoi fratelli, nonché scomodi contendenti al trono paterno –, si sta approfittando del caos generale per seminare discordia fra i conti.
Buliwyf e i suoi guerrieri credono che re Rothgar sia un vanitoso, che ha osato sfidare la collera degli dèi, posizionando la sala luccicante del trono in cima ad una scarpata – protetta sì dagli attacchi che provengono dal mare, ma totalmente indifesa da quelli provenienti da terra – e che per questo debba essere debitamente punito. Tuttavia la loro missione di soccorso è comprensibilmente spiegata dalla loro sete insaziabile di volersi lasciare dietro degna memoria. Come recita un celebre passo degli Hávamál14, detti anche Le sentenze del Sublime – che altri non può essere che Odino, sommo re degli dèi nordici, nonché nume tutelare dei guerrieri suoi prediletti: «Gli animali muoiono, i parenti muoiono, io stesso morrò. Ma c'è una cosa che so che non morrà mai: la fama che lasciamo dietro a noi quando moriamo»15.
Lo stesso Ibn Fadlan rimane letteralmente catturato dall'eroismo insito nei suoi compagni di lotta normanni, che riescono a trasmettere in lui – combattente dell'ultima ora – quel gusto sadico e quasi masochistico della pugna, nel bel mezzo della quale si commisura l'effettivo valore di un uomo. Nel coraggio dimostrato di fronte all'estremo pericolo, che troviamo molto presente sia tra gli arabi che tra gli scandinavi, vi è un pressoché indubitabile anello di congiunzione tra queste due diversissime culture. L'evoluzione del personaggio di Ibn Fadlan ci sembra alquanto emblematica: da un iniziale rigetto per lo stile di vita vichingo, lui passa ad una vera e propria adozione di molti aspetti di esso. L'arabo pian piano nutrirà una sempre maggiore venerazione per il grande condottiero Buliwyf. Questi peraltro, seppur diffidente all'inizio, con il passare del tempo arriverà a considerare l'arabo sullo stesso piano dei suoi compagni normanni. Addirittura in un commovente dialogo – dopo che un nano, «tengol», gli predice la vittoria sui wendol in cambio però del suo estremo sacrificio – Buliwyf si lascia talmente andare con Ibn Fadlan, pregandolo di uscire vivo dall'imminente battaglia finale, in quanto possiede il dono di saper disegnare i suoni e quindi un giorno avrebbe potuto raccontare le loro gesta eroiche. Singolare è il modo in cui l'arabo si comporta da autentico normanno tentando di rassicurare Buliwyf dicendogli: «Non credere a una profezia finché non ha dato frutti.»16. Con ciò, infatti, egli non fa che riprendere un famoso proverbio vichingo contenuto negli Hávamál, ovvero: «Non dir bene del giorno finché non è venuta sera; di una donna finché non è stata bruciata; di una spada finché non è stata provata; di una ragazza finché non si è sposata; del ghiaccio finché non è stato attraversato; della birra finché non è stata bevuta»17. Questa visione cinica e disincantata della vita da parte dei vichinghi, basatasi prevalentemente su una prudenza smisurata – ben comprensibile vista anche l'esistenza precaria e continuamente sul filo del rasoio da essi condotta –, trova un corrispondente in una storiella sufi – a testimonianza che queste due culture, araba e scandinava, pur essendo diverse non sono giocoforza incompatibili fra di loro.
C'è un discepolo che suppone di mettersi in viaggio e di doversi fermare a fare le abluzioni in un ruscello, sicché chiede al maestro in che direzione deve rivolgere lo sguardo mentre compie il rituale purificatorio e questi così gli risponde: «Nella direzione dei tuoi vestiti, perché non te li rubino.»18.
Il fatalismo guerriero di Buliwyf accompagna un po' tutti gli eroi delle saghe nordiche: la massima virtù di un guerriero è appunto lo sprezzo del pericolo, inclusa la morte. Un eroe va incontro con fierezza indomabile alla propria sorte, ben consapevole che prima o poi toccherà a tutti assaggiare il suo calice amaro. Per certi versi Buliwyf non può non ricordarci Achille Pelide, che tra una lunga vita senza gloria e una vita invece ricolma della medesima, non esitò minimamente a scegliere la seconda, cadendo con gloria nella rocca di Troia. Specialmente, però, lui ci ricorda Beowulf: nobile e valoroso principe dei Geati, l'uccisore del terrifico mostro Grendel e della sua altrettanto terrifica madre. Come a Buliwyf anche a Beowulf tocca la stessa sorte, cioè morire per concedere la vittoria ai suoi. Oltre a questa, tra i due eroi le analogie abbondano: Beowulf soccorre il re dei danesi Hrothgar, Buliwyf invece soccorre il re anch'egli dei danesi Rothgar; la vanità è la causa del flagello in cui è precipitato re Hrothgar, altrettanto dicasi per re Rothgar; Beowulf durante il primo assalto stacca una spalla del mostro Grendel e la appende in bella mostra nella sala del trono, lo stesso fa Buliwyf recidendo il braccio di uno dei wendol e appendendolo anch'egli per dimostrare la fragilità del nemico19 e via elencando. Appare evidente, dunque, come per l'eroe nordico il sacrificio per una nobile causa sia il viatico necessario per conseguire il prestigioso traguardo dell'immortalità, intendendo con essa: non tanto il non morire mai, ma quanto il venire ricordati sempre, poiché solo così l'impavido potrà vivere in eterno... Buliwyf alla fine riesce sì a decapitare la Madre dei wendol, ma questa lo ferisce mortalmente, graffiandolo con uno spillone avvelenato. Nonostante la vita abbia già cominciato ad abbandonare il suo corpo, Buliwyf vuole esserci a tutti i costi nell'ultima battaglia, per rinfrancare i cuori afflitti dei suoi compagni d'armi. La sua materializzazione sul campo di battaglia è accompagnata da un chiaro presagio di benevolenza divina, rappresentato dai due corvi posatisi sulle sue possenti spalle. Questi uccelli, secondo la religione dei vichinghi, simboleggiano una delle innumerevoli forme che può assumere Odino. Dunque, nel tal caso, questa apparizione assume un significato lampante per i guerrieri di Buliwyf: Odino avrebbe combattuto al loro fianco, perciò la vittoria è ormai vicina. Davvero significative sono le parole che Buliwyf, la sera prima della resa dei conti finale, rivolge all'arabo: «Un uomo morto non serve a nessuno.»20. In questa frase, che si presta facilmente a plurime interpretazioni, è racchiusa l'essenza dell'eroismo dei vichinghi, ovvero il principale contributo da essi apportato alla formazione della comune identità europea.

***

1Testo esoterico spacciato per opera dell'arabo folle Abdul Azhared, ma che in realtà non è nient'altro che una brillante invenzione dello scrittore horror americano H.P. Lovecraft definito: “ il solitario di Providence”.
2A quell'epoca i franchi venivano considerati i migliori fabbri del mondo.
3Crichton, M., Mangiatori di morte, Garzanti, Milano, 1994, vedi descrizione minuziosa di p. 33.
4Strano ma vero, una volta Baghdad veniva considerata “città della pace”, mentre al giorno d'oggi si è tramutata in autentica “città della guerra”...
5Di costui si dice che non era ben visto e finì con l'essere ucciso da uno dei suoi ufficiali di palazzo.
6Presumibilmente si trattava di una tribù proveniente dalle coste dell'attuale Svezia, che si era impossessata di alcuni territori – fondando diverse città: da Novgorod a Kiev – situati a nord est dell'attuale Russia, che peraltro deve appunto il suo glorioso nome a questi intraprendenti vichinghi.
7Mangiatori di morte, cit. p. 39.
8Il paradiso qui menzionato è la leggendaria Valhalla, magione di Odino, nonché dimora in cui sono destinati ad andare i guerrieri da morti, accompagnati dalle Valchirie. In estrema sintesi, il paradiso per i vichinghi consisteva in una battaglia incessante, interrotta soltanto al termine del giorno da succulenti banchetti. Le ferite riportate il giorno prima, il giorno seguente immediatamente si rimarginavano e così via fino al Ragnarök – l'equivalente per la religione cristiana del Giorno del Giudizio –, dove in una battaglia all'ultimo sangue i prodi guerrieri avrebbero combattuto al fianco delle divinità benigne contro mostri d'antica data e divinità maligne.
9Mangiatori di morte, cit. p. 40. Cfr. con: Brøndsted, J., I vichinghi, Einaudi, Torino, 2001; nel libro dello storico danese si fa spesso largo uso del resoconto di Ibn Fadlan per avvalorare certe opinioni diffuse sulla tribù svedese dei «Rus». Specialmente la descrizione del funerale del grande capo normanno è citata per intero dalla fonte originale, vedi pp. 300-301-302-303 del testo. Crichton qui non fa che parafrasare la descrizione veritiera di Ibn Fadlan, ridimensionandola per comprensibili esigenze narrative.
10Il titolo della pellicola tratta dal romanzo è, non a caso: Il tredicesimo guerriero (1999), diretto da John Mc Tiernan, con Antonio Banderas nei panni di Ibn Fadlan. Le uniche differenze tra il film e il libro consistono in: un breve accenno di storia amorosa tra il dignitario arabo e la coraggiosa figlia del re; un apprendimento troppo accelerato e poco realistico della lingua normanna da parte del protagonista; il consiglio finale per sconfiggere la Madre dei wendol nel film viene affidato ad una veggente solitaria, mentre nel libro a svolgere questa funzione profetica vi è un «tengol» o un nano, che predice sì la gloria in combattimento per Buliwyf però a prezzo della sua stessa vita.
11Mangiatori di morte, cit. pp. 158-159.
12Si tenga presente che all'epoca gli arabi erano, con tutta probabilità, la popolazione meno provinciale della terra ed appare, perciò, quanto meno curioso che un dignitario arabo del calibro di Ibn Fadlan fosse all'oscuro dell'esistenza di questi giganteschi cetacei.
13Come azzarda Crichton nell'Appendice al suo romanzo, si tratta di una tribù di antropofagi – composta da neanderthaliani rimasugli di un'epoca precedente – veneranti il culto della Grande Madre, fortemente legato ai riti della fertilità della terra. Si veda per questo la statuina della “Vergine di Willendorf”, ovvero il più antico reperto dell'era paleolitica, che raffigura il corpo di una donna senza testa e con seni prosperosi.
14Si tratta di una raccolta di aforismi, che c'informa dettagliatamente dell'etica professata dalle popolazioni nordiche. L'onore, l'amicizia, l'ospitalità, la generosità, la gloria, la prudenza, il coraggio... Questi sono solo alcuni dei capisaldi che qui vengono enunciati.
15I Vichinghi, cit. p. 250.
16Mangiatori di morte, cit. p. 138.
17Mangiatori di morte, cit. p. 138.
18Mangiatori di morte, cit. p. 138.
19I wendol venivano creduti esseri metà uomini e metà orsi. Questa credenza era ulteriormente rafforzata dalla scrupolosa usanza che essi avevano di portarsi via i compagni caduti in battaglia, in modo tale da cancellare le tracce delle loro vittime e alimentare l'alone d'indistruttibilità fra le fila atterrite dei loro nemici. Buliwyf e i suoi guerrieri appendendo il braccio di uno dei wendol nella sala del trono, dimostrarono pertanto che persino queste strane creature possono morire e, dunque, essere sconfitte.
20Mangiatori di morte, cit. 150.

14.6.07

Massime e aneddoti

di Marco Apolloni

Perché si aderisce al potere? Per tre motivi essenziali: il primo, per la speranza di un beneficio; il secondo, per paura di una sanzione; il terzo, per una sorta di legame affettivo. Il potere, inoltre, si articola in tre modi diversi: il primo, potere e influenza, dove quest'ultima viene utilizzata perché molto più efficace dell'imposizione; il secondo, potere e forza, dove il potere intrattiene un rapporto diretto con le menti, mentre la forza intrattiene un rapporto diretto coi corpi, perciò occorre distinguere tra potere politico e potere militare (in quest'ottica, ad esempio, le armi nucleari esercitano un potere politico sulle menti dei potenziali nemici, in quanto paventano l'utilizzo di un potere militare dallo sproporzionato potenziale distruttivo); il terzo, potere legittimo e potere illegittimo, distinzione questa che pone l'accento sull'importanza per qualsiasi potere di ammantarsi di una qualche parvenza di legittimità morale, che ne favorisca pertanto il consenso e dia così maggior ampiezza al suo raggio di azione.

Ibn Khaldoun fu un pensatore laico-mussulmano, vissuto a cavallo del due-trecento; percorse le principali capitali del mondo arabo-mussulmano e cercò d'influenzare i loro governanti – un po' come tentarono di fare, seppur invano, Platone e poi anche Machiavelli. Nel suo caso, pensatore laico stava a significare che per lui non era la volontà di Dio a plasmare la storia, bensì la volontà degli uomini. Venne citato da Reagan durante una conferenza stampa, che stupì tutta la platea, che lo conosceva come uomo di non edificanti letture...

Sia i repubblicani che i democratici ritengono che diffondendo, oppure consolidando gli ideali democratici nel mondo, assicurino così una maggiore stabilità all'assetto geopolitico mondiale. Tutt'al più essi possono non trovarsi d'accordo sui modi in cui questi ideali debbano essere propagandati.

Una pecca che può venire imputata al realismo è quella di non soffermarsi adeguatamente sulle componenti ideologiche di un particolare regime e di vederlo unicamente come un attore fra gli altri sul palcoscenico della potenza.

In moltissime guerre, tranne in rare eccezioni, è molto difficile comprendere chi sia l'aggressore e chi, invece, l'aggredito...

Secondo Platone: nelle Accademie si possono esprimere solo giudizi di fatto e non di valore.

Lo studioso francese Lucien Febvre sostiene che l'Europa comincia e finisce con il confine naturale del Mediterraneo. Emblematico è il caso di noi europei-italiani che intratteniamo solo un misero 1% del nostro commercio coi paesi africani dell'area sud-mediterranea.

Il dollaro vale per quel che decide di valere, dicasi: complicati meccanismi di soft power. Oltretutto, gli Stati Uniti hanno un forte debito estero. Rientrano dunque in quest'ottica gli acquisti di beni del tesoro americani da parte del Giappone e persino della Cina comunista. Questo fa sì che entrambe queste potenze asiatiche rappresentano i principali “partner alleati” mondiali. Perciò agli Stati Uniti non conviene nella maniera più assoluta spezzettare oppure indebolire il regime comunista cinese. Altrimenti verrebbero a mancare dei preziosi finanziamenti.

Il realista ortodosso basandosi unicamente sul grado di potenza di un singolo stato pretende di dirci come questo si comporterà all'interno dello scacchiere internazionale.

La politica non può e non dev'essere influenzata dall'etica, ma al contempo non può e non deve nemmeno prescindere da essa.

Il Terzo Mondo è una delle invenzioni dovute alla guerra fredda, dove con quest'espressione si raggruppavano quegli stati non allineabili nei due schieramenti predominanti guidati da: Stati Uniti e Unione Sovietica.

Secondo i neorealisti l'ascesa e il declino delle nazioni avviene esclusivamente tramite il potente strumento delle guerre. Questo però non è sempre vero, come nel caso del declino della Gran Bretagna e dell'Unione Sovietica.

La teoria della “pace democratica” di netta ispirazione kantiana tiene in gran conto la componente valoriale, laddove un realista considera questa componente importante fra le altre, tra cui si riconoscono anche: quella economica, giuridica, eccetera.

L'eterno è una categoria del tutto assente in politica!

Il presidenzialismo statunitense che cos'è se non una forma di monarchia elettiva? Il sistema presidenziale americano, tuttavia, lega mani e piedi al Presidente. Per questo si è soliti dire che il Primo ministro inglese ha molti più poteri del Presidente americano, poiché quest'ultimo è racchiuso – per non dire “ingabbiato” – all'interno di un sistema di Organi (Parlamento, Senato, Corte Suprema) deputati a controllarne gli eccessi di potere, scongiurando così il pericolo più estremo: la tirannia! Non a caso all'interno del sistema americano svolgono un ruolo assai determinante i giudici, diversamente da quel che avviene ad esempio nel sistema italiano, dove essi svolgono solo un ruolo di appendici alla macchina statale.

11.6.07

Situazione energetica. Il petrolio

di Marco Apolloni

È risaputo che più che unire l'energia divide... Il petrolio è una risorsa limitata e questo vuol dire che presto o tardi finirà. Perciò occorre escogitare al più presto dei rimedi affinché i giacimenti petroliferi non si esauriscano troppo presto e nel frattempo impegnarsi concretamente nel pensare a risorse energetiche alternative. La crisi in cui versa attualmente il mercato petrolifero è nota come fenomeno di PEAK OIL, ovvero: mentre non ci si era accorti della curva ascendente che ci ha portati ad uno sfruttamento scriteriato del petrolio, ora ci stiamo accorgendo eccome della sua improvvisa parabola discendente. Pensare che da un giacimento finora si è solo riusciti a ricavare sì e no un 1/3 dell'effettivo disponibile, questo dovrebbe farci mettere come minimo le mani fra i capelli. Per questo andrebbero sviluppate maggiormente le TR (tecniche di recupero). La situazione è abbastanza disperata se si pensa che, pur essendoci delle TR piuttosto evolute, tutto quello che si sta scoprendo oggi è davvero risibile se confrontato con quello che si è precedentemente scoperto! Come se già tutto ciò non bastasse: il dislivello tra domanda e offerta cresce di giorno in giorno. E gli scenari futuri non sono per niente rosei considerando che già adesso, figuriamoci fra qualche anno, hanno fatto la loro prepotente irruzione nel mercato petrolifero – causando pertanto un esponenziale aumento della domanda – paesi-continente come Cina e India – Cindia per riprendere una felice espressione riportata sulla rivista italiana di geopolitica Limes, che sta per “limite, confine geografico”. Pensate che nel mondo oggi si consumano mediamente circa 86 ml. di barili di benzina al giorno. Il Medioriente rimane – si dica quel che si dica – il più grande conglomerato di bacini petroliferi – dicesi bacino petrolifero il conglomerato di più giacimenti petroliferi – esistente al mondo, oltre ad essere il miglior sito da cui estrarre “risorse certe” – ossia accertabili, quantificabili.
L'Iraq – analizzato dal punto di vista delle risorse petrolifere – presenta dei considerevoli vantaggi: ha costi estrattivi bassissimi e la qualità del petrolio è buona! Quindi del tutto comprensibile appare lo sforzo bellico compiuto in Iraq dagli americani – se lo andiamo ad analizzare in termini di reali benefici economici. A quest'aspetto va inoltre sommato che gli americani prediligono il petrolio cosiddetto “Bassora light” – dal nome della provincia irachena di Bassora –, visto che sono i primi consumatori al mondo di benzina e diesel. Dunque la guerra irachena – almeno in linea teorica – per gli americani si presenta sia come una guerra petrolifera che – ce lo insegna la geopolitica – anche come una guerra strategica. I rinforzi appena mandati in Iraq dal governo americano rientrano perfettamente nelle prerogative di questa guerra, ossia di difendere ancor meglio e – perché no – di sfruttare a sufficienza le risorse naturali presenti in loco. Per l'attuale governo iracheno, a maggioranza sciita, si prefigurano così accordi di “production-sharing” decisamente penalizzanti, ove verrà dato mandato alle companies americane di pianificare le risorse e, per di più, esse avranno la possibilità di usufruire per un periodo almeno di trent'anni delle stesse, dando così le briciole al governo iracheno a cui verrà pagato un piccolo dazio perlopiù irrisorio.
Il futuro del petrolio sembra presto detto, e cioè non si allontanerà troppo dall'OPEC (ovvero l'organizzazione dei paesi produttori di greggio del Golfo Persico). La situazione dell'Italia è tanto più allarmante, poiché essa continua a non avere un piano energetico nazionale dal 1975. Situazione ben diversa per l'ENI, che perdura a rimanere la sesta compagnia mondiale del settore. Pur tuttavia le sue fortune non rappresentano le fortune del nostro paese, poiché essa non approvvigiona – se non in minima parte – l'Italia. In pratica l'ENI non fa che pompare energia per poi rivenderla a prezzi di mercato al primo acquirente resosi disponibile. Le sue mire strategiche obbediscono, cioè, all'implacabile legge del mercato – da cui non si scappa e per cui seduce poco l'esca patriottica. Esistono due tipi di mercato: “mercato spot” dove si paga in contanti e si specula sui prezzi, oppure “mercato a termine” dove invece si paga non in contanti e in maniera dilazionata. Le preoccupazioni del mercato dopo l'9/11 restano moltissime: ogni scusa è buona per aumentare il prezzo! Le considerazioni che si possono trarre da questa situazione estremamente delicata è la seguente: il mercato non può più considerarsi capitalistico, ma piuttosto volatile e pure – in un certo senso – psicolabile. Difatti parrebbero essere le psicosi – vale a dire le debolezze psicologiche della gente – a dirigere la fantomatica “mano invisibile” del mercato, sempre più imprevedibile...

8.6.07

Scuole di politica estera degli Stati Uniti

di Marco Apolloni

Negli Stati Uniti si possono individuare quattro principali correnti di pensiero, che ne hanno caratterizzato la politica estera sin dalla sua fondazione...
1) I wilsoniani sono gli odierni neoconservatori fautori dell'ideale di esportazione della democrazia, profondamente convinti dell'eccezionalismo americano e del ruolo messianico assegnatogli dalla Provvidenza. Essi sono tecnicamente dei rivoluzionari in quanto pensano che il mondo possa e debba essere cambiato, non tenendo conto però di una ben diversa realtà dei fatti contro la quale non tardano a cozzare le loro utopiche vedute;
2) Gli hamiltoniani sono dei realisti ma, per così dire, “all'americana”, ossia sono molto distanti dai realisti europei. Essi sono consapevoli del fatto che la politica degli Stati Uniti si è originata come reazione e in contrapposizione a quella europea, della quale non condivideva né le premesse né tanto meno il resto. Il loro interventismo, a differenza dei wilsoniani, è assai moderato. Prima di muovere le pedine dell'esercito ci pensano su due volte e guardano, per prima cosa, l'aspetto economico-finanziario, ovvero quanto gli conviene fare guerra ad un altro paese.
3) I jeffersoniani oggi sono delle specie di anarco-capitalisti, ultra-liberisti; se dipendesse da loro abrogherebbero lo stato per costituire delle società capitaliste sovranazionali. Loro vogliono sì esportare, ma non la democrazia – a differenza degli idealisti wilsoniani –, bensì i cosiddetti “beni di consumo”. Perciò essi sono convinti che il commercio rende gli uomini liberi e li unisce sotto un'unica bandiera: il dollaro!
4) I jacksoniani sono i veri patrioti. Nel corso della sua storia, la corrente jacksoniana ha sempre espresso Presidenti “sceriffi”, che a seconda dei casi hanno optato vuoi per l'isolazionismo e vuoi anche per l'interventismo. È molto difficile smuoverli dalle loro convinzioni una volta che si sono decisi o nell'uno oppure nell'altro modo. Si considerano irreprensibili e ragionano per assoluti, ovvero: “bene assoluto” Vs. “male assoluto”! Per questo sono i più inclini a muovere una crociata contro un altro paese, che tendono solitamente a demonizzare. I jacksoniani intervengono solo se vengono punzecchiati sul vivo e gli si toccano i valori americani, a differenza degli hamiltoniani che intervengono soltanto quando si toccano gli interessi economici dell'America. In definitiva, i jacksoniani sono populisti e tendono a difendere più gli interessi della piccola proprietà che quelli della grande proprietà. In una parola, di solito i jacksoniani si rispecchiano meglio nei principi del Partito Democratico! Tanto per intenderci, il Presidente democratico Bill Clinton è stato la più recente emanazione, nonché espressione, della corrente jeffersoniana.
Dal connubio di queste quattro diverse correnti (wilsoniani, hamiltoniani, jeffersoniani, jacksoniani), che si sono influenzate e intrecciate fra di loro, si può rintracciare un “minimo comune denominatore” della politica estera americana, dai suoi albori fino ad oggi! È di questo avviso lo studioso americano Russell Mead, autore de Il serpente e la colomba, che è davvero un'accurata storia della politica estera degli Stati Uniti d'America, altrimenti detta: la storia del bastone e della carota. Per Ikenberry, invece, autore del saggio Dopo la vittoria, l'impero americano, contrariamente agli altri imperi del passato, non fa paura. Il motivo è insito nella natura stessa del suo sistema politico.

5.6.07

Capelli a modo mio

di Silvia Del Beccaro

Teste rasate, dreadlock ribelli, creste colorate, acconciature cotonate… Da che mondo è mondo, i capelli hanno sempre costituito un elemento rappresentativo di un’epoca, di una corrente musicale o di un determinato ceto sociale. E quante mode sono scaturite, proprio a causa di questi fattori… In molti casi, le persone hanno cercato di seguire le cosiddette “tendenze” , seppur a proprio modo: correnti, modi di essere e di comportarsi, modi di apparire, utilizzati solamente per cercare di sembrare come gli altri. I motivi? Paura di sentirsi esclusi, timore di distinguersi, non rischiare di venire definiti diversi, mascherare come siamo realmente.
Un esempio classico è rappresentato dalla nobiltà francese del XVII secolo, durante il quale uomini e donne indossavano parrucche voluminose e falsi chignon. Lo scopo? In primo luogo, coprire la scomparsa parziale (o totale) dei capelli e di colpo apparire con una folta chioma.
E ancora balzano alla mente altre immagini: quelle degli anni ‘60/’70, quando tra le donne era diffusa l’usanza di cotonare i capelli. Abbinando la propria acconciatura ad un trucco marcato prevaleva il desiderio di somigliare a molte dive. In quegli stessi anni Sessanta, gli uomini d’altro canto portavano una lunga e folta chioma, quale simbolo di contestazione giovanile, nonché rivendicazione della libertà e dell'uguaglianza sessuale. Un altro caso, ancor più evidente, che viene subito alla mente, è la moda che accomuna gli amanti della musica punk. Punte gellate, creste esplosive e colori sgargianti… Tratti che assolutamente definiscono, ancora oggi, i “seguaci” di una determinata corrente musicale. Anche loro, seppur a proprio modo, seguono infatti una moda, quella del punk, preferendo l’artificiale al naturale. Tutto ciò con il solo obiettivo di assomigliarsi, di integrarsi socialmente, di sentirsi parte della propria “tribù”.
Viceversa, basta guardare i rasta, i quali, seguendo le orme di Bob Marley, utilizzano resine, colle, miele o creme solo per avere un’acconciatura che rappresenti la loro filosofia. I dread (o dreadlock) sono infatti simbolo di pace e fratellanza universale. Oltre a rovinare i capelli, però, questi metodi formano un groviglio inestricabile e talvolta provocano un odore davvero poco gradevole. Negli anni, però, tutto questo ha coperto la vera personalità della gente che incessantemente cercava di seguire la moda, senza capire di diventare solo “uno dei tanti”, un essere sconosciuto in mezzo all’enorme massa, anziché dimostrarsi semplicemente se stessi e distinguersi per la propria personalità e i propri atteggiamenti.
Ma oggi, a distanza di anni, decenni o addirittura secoli… si cerca ancora di (in)seguire le mode? Pare proprio che questo atteggiamento appartenga al passato, superato dalla voglia di personalizzare il proprio look. Sono molti, infatti, i parrucchieri e gli hair stylist (per italianizzare il termine, “stilisti del capello”) che preferiscono creare una pettinatura creata su misura per ciascun cliente; essa, infatti, viene adattata alla persona in base a svariati elementi: altezza, snellezza, forma del viso, corposità e colore del capello… Per non parlare dello stile di vita: assolutamente fondamentale. In un certo senso, si può dire che i parrucchieri si stiano lentamente trasformando in “psicologi del look”. Incontrano, osservano, studiano ed elaborano: solo che in questo caso l’obiettivo finale consiste nell’esaltare al meglio il look da sempre desiderato. Ovviamente, cercando sempre di attenersi ai gusti personali espressi da ciascuno. La necessità di personalizzare la propria acconciatura è data dal desiderio di sentirsi a proprio agio, in sintonia con il proprio corpo, ben inseriti nell’ambiente circostante. E’ risaputo che il nostro corpo fa da tramite tra noi e la società; è un ponte tra l’ “io” e l’interlocutore. Insieme all’atteggiamento che teniamo e alla nostra gestualità, i capelli hanno un ruolo fondamentale. Essi sono la parte più visibile e attraverso di essi è possibile associare o immaginare una serie di rimandi sociali. Generalizzando, una chioma incolta e scapigliata solitamente è sintomo di disagio, di abbandono, di svogliatezza. Al contrario, un’acconciatura ordinata, curata è simbolo di sicurezza ed eleganza. Rendere unica la nostra “chioma” significa, dunque, trasmettere il nostro modo di essere, esprimendo il nostro voler essere inimitabili. Basta con le mode, quindi. Via alla personalizzazione! Uscire dalla massa, cercare di distinguersi, essere unici anche nella pettinatura. Ecco lo slogan con il quale iniziare la nuova “era del capello”, un’era in cui finalmente ciascuno è libero di scegliere il proprio stile, assumendo sempre un look inimitabile ed accattivante.

"Benvenuti nell'era del genere umano!"

di Marco Apolloni

Che il capitalismo, con l'illimitatezza sfrenata dei suoi consumi, stia distruggendo il nostro Pianeta ce ne stiamo accorgendo tutti (capitalisti compresi). Come si sia potuti arrivare a tal punto senza far nulla per placare questa folle corsa verso lo sfacelo, beh, questa ci sembra proprio una domanda da un milione di dollari. Così a lungo abbiamo tirato la corda, sperperando risorse naturali che sapevamo essere limitate, inquinando a tutto spiano il nostro malconcio pianeta, che dal canto suo già stava dando segnali di parziale cedimento: con uragani, tsunami, alluvioni, eccetera. Ma noi niente, ogni volta abbiamo fatto finta di non capire, ce ne siamo fregati – dicendo tanto ci penseranno quelli che verranno dopo di noi, intanto pensiamo a spassarcela alla faccia di quegli uccellacci del malaugurio che pronosticano l'Apocalisse. Certo sdraiarsi a prendere il sole dal proprio balcone a gennaio inoltrato, con una temperatura media ferma là fuori – in un po' tutta la Penisola – sui ventitré gradi, dev'essere sembrata un'innocua bizzarria climatica. Sono cose che capitano, no? Come no, capitano con l'approssimarsi di ogni nuova era geologica. Ergo: se non vogliamo fare la fine dei dinosauri e scomparire dalla faccia della Terra, urge un immediato rimedio. Già, perché solo di “rimedio” si può trattare, dato che una “cura” vera e propria al momento non esiste.
Da sempre la nostra ragione strumentale, con illuministica prescienza, ci ha indotto a confidare nel Progresso. Divinità pagana, questa, che dovrebbe assicurarci un radioso futuro caratterizzato da migliorie a non finire. La Santissima Scienza, altro nuovo nume tutelare dell'umanità, ci condurrà per mano ai confini della galassia e, perché no, dell'intero universo. Se una volta poteva andare bene il detto: “Morto un papa se ne fa un altro...”. D'ora in poi varrà il nuovo detto: “Morto un pianeta se ne cambia un altro...”. Peccato, soltanto, che talvolta scienza e fantascienza hanno il vizio d'intrecciarsi a vicenda, confondendosi a tal punto da non capire più dove finisce l'una e comincia l'altra. La ragionevolezza sembra ormai aver abbandonato il disabitato cervello umano, ammesso che vi abbia mai dimorato. E per “ragionevolezza” s'intende quel barlume di saggezza una volta appartenuto agli umani, composto da un miscuglio alchemico tra ragione e sentimento, capace di frenare i più dannosi impulsi auto-distruttivi e le smanie d'onnipotenza del genere umano. L'una, la ragione, dovrebbe sì aiutarci a gettar luce sui misteri ancora irrisolti della natura, però andrebbe sempre tenuta per mano dalla saggia guida del sentimento, che vede tanto più chiaramente proprio perché del tutto cieco. Spesso, infatti, solo chiudendo gli occhi si riesce a vedere ciò che non si vedeva o, comunque sia, non si voleva vedere prima.
Cambiare lo scopo di un'azione sottende trasformarla, snaturarla, farla diventare qualcos'altro. Dunque pretendere di cambiare l'essenza del capitalismo – che è il profitto illimitato – è pressoché impensabile senza l'annichilimento totale dello stesso. L'essenza di qualcosa è tale per cui questa cosa non può essere cambiata, se non al prezzo di cessare di essere quel che era all'origine. Per questo parlare di un capitalismo etico è un esercizio perlomeno bizzarro. Dato che i due termini “capitalismo” ed “etica” cadono in così netta contraddizione. Se c'è l'uno, il capitalismo, non può esserci l'altra, l'etica, e viceversa. L'economista Joseph Schumpeter ha affermato che il capitalismo, in realtà, non può essere criticato su basi scientifiche, semmai soltanto sociologiche. L'errore di Marx fu proprio quello di operare invano una critica scientifica, cioè razionale, del capitalismo – anche se va naturalmente precisato che, per Marx, la scientificità era un concetto assai vasto. È convinzione risaputa e largamente praticata dai capitalisti che il consesso riunito degli uomini, ovvero la società, non è un'opera di beneficenza. Quindi, come vedrete bene, l'unica speranza di salvezza per il nostro Pianeta non potrebbe che risiedere nella sconfitta finale del capitalismo. Paradossalmente, in un contesto dove i nemici del capitalismo sono molti, il capitalismo è il peggior nemico di se stesso – da “nemico”, ovvero quella forza estranea che pretende di subordinare i tuoi scopi ai suoi. Dunque, per il bene del nostro Pianeta, non ci rimane che sperare che il capitalismo faccia harakiri da solo, alla maniera degli antichi guerrieri samurai...
Liberare, infine, il Pianeta della presenza scomoda del capitalismo, non vuol dire necessariamente porre fine ai suoi indicibili travagli. C'è ancora un ultimo mostro da sconfiggere, pari al Leviatano di hobbesiana memoria, che è la tecnica; che può sì essere, con Prometeo, la più grande aiutante del genere umano; ma che, allo stesso tempo, può rivelarsi una vera e propria serpe in grembo, che ci si rivolta contro per annientarci. La famosa rivolta delle macchine contro gli umani, così mirabilmente descritta dalla letteratura fantascientifica – basti citare un'opera emblematica quale: Io, Robot di Isaac Asimov. Per impedire che ciò avvenga non ci resta che un'unica alternativa: recuperare quel seme di ragionevolezza andato perduto e ritornare ad una dimensione più autentica delle cose, capendo che solo l'essere umano conta e nient'altro. Il filosofo Emanuele Severino, a proposito della tecnica, una volta ha affermato: “Dio è la prima tecnica e la tecnica è l'ultimo Dio...”. Chissà che questo grande filosofo non si sia preso un abbaglio, trascurando l'inesauribile potenziale umano. Per questo forse sarebbe meglio capovolgere il suo motto in: “Dio è il primo uomo e l'uomo è l'ultimo Dio...”. Parafrasando “Iena” Plissken, protagonista del film Fuga da Los Angeles: “Benvenuti in una nuova era, benvenuti nell'era del genere umano!”.

1.6.07

Definizioni e questioni di metodo

di Marco Apolloni

La teoria è un insieme di proposizioni linguistiche logicamente connesse e coerenti, che forniscono una spiegazione di tipo causale in merito a qualche fenomeno circoscritto nello spazio e nel tempo.

Le spiegazioni funzionali sono perlopiù insoddisfacenti poiché si reggono unicamente in funzione di qualcos'altro, dunque costituiscono un apparato fin troppo fragile, che genera soltanto una pseudo-spiegazione.

Dicesi falsificazionismo (popperiano): una teoria che viene corroborata solo finché non sopraggiunge una nuova teoria che falsifica la precedente.

Dicesi verificazionismo invece: una teoria che può essere vera o falsa, a seconda.

Il modello è un'immagine iper-semplificata di qualche realtà empirica che si vuole semplicemente testare. Esso non spiega nulla né tanto meno descrive. Un modello non è realistico per definizione, bensì è una costruzione assai labile, che può solo servire da punto di partenza e nient'altro.

Dicesi "approccio a tastoni" quello che preferisce prelevare pochi modelli per poi connetterli e vedere se sussistono o meno delle relazioni significative fra di essi. I modelli, in definitiva, sono funzionali a carpire dei fattori rilevanti che ci servono per comprendere un determinato fenomeno.

Il "controllo empirico" verifica che ciascuna ipotesi sia composta da concetti chiaramente definiti e perciò esaurienti.

Una tipologia è una classificazione che non si avvale di un solo modello.

Le scienze fisico-matematiche vengono considerate affidabili poiché consentono di venire sperimentate da chiunque e in qualunque momento. Nelle scienze umane non è possibile parametrizzare tutto, troppe sono le variabili di cui tenere conto e la stessa materia d'indagine è piuttosto scivolosa. Perciò vista l'impossibilità di applicare il criterio di sperimentazione, ecco qua che le scienze umane si servono di un altro criterio: la comparazione. Ad esempio: si è accertato che i paesi con il più alto reddito pro capite sono quelli che presentano una maggiore stabilità democratica – in quanto la democrazia si prefigura come il regime più pacifico in assoluto e la pace da che mondo è mondo assicura la stabilità di un paese. Questo accertamento è scaturito da un'opportuna comparazione tra reddito pro capite e la diffusione della democrazia nel mondo, che ha messo in luce pertanto una diretta correlazione tra queste due variabili. Un altro esempio può essere: è accertato come l'istruzione e allo stesso modo l'organizzazione dei gruppi politici – intesa come presenza nel territorio, capace di generare partecipazione – siano i due fattori più decisivi per mobilitare l'elettorato! Nelle scienze umane, inoltre, i dati quantitativi sono sì importanti, ma del tutto inefficaci, se non vengono accompagnati da dati qualitativi altrettanto importanti.