26.10.08

"CineFilosofando" in tour ad Ascoli Piceno

Il centro storico di Ascoli Piceno ha ospitato lo scorso sabato 25 ottobre una nuova tappa di “CineFilosofando in tour”, serie di incontri atti a spiegare le correlazioni esistenti fra discipline umanistiche (filosofia, letteratura e storia su tutte) e il meraviglioso universo cinematografico.
A fare da location per questo evento culturale è stata la Libreria Rinascita, distante pochi passi da piazza del Popolo. Il compito di moderare l'intervento dell'autore Marco Apolloni, scrittore e fondatore del blog NoIperborei, è spettato a Silvia Del Beccaro, capo-redattrice della rivista bimestrale “Impegno Sociale” (per la quale Apolloni svolge il ruolo di capo-sezione Cultura).
«Marco è un redattore in gamba e un autore decisamente promettente – ha dichiarato Silvia Del Beccaro –. Seppur sia ancora giovane d'età, è già riuscito ad affermarsi pian piano nel mondo dell'editoria con due saggi alle spalle e un romanzo in uscita. “CineFilosofando” in particolare ha suscitato particolare interesse, in tutta Italia, grazie anche alle competenze che l'autore vanta in ambito umanistico. Due lauree in Filosofia e un ruolo come capo-sezione Cultura presso la nostra rivista ne sono la riprova». La presentazione del libro si è svolta come una chiacchierata informale,
durante la quale si è venuto ad instaurare anche un rapporto dialogico col pubblico presente. I film non sono stati trattati seguendo l'ordine del libro, bensì i due relatori hanno ripercorso il filo comune che lega una pellicola all'altra, in particolar modo la costruzione dell'identità europea. «Attraverso le ere medievali, de “Il tredicesimo guerriero” e di “Tristano e Isotta”, passando per la seconda guerra mondiale, di cui si parla ne “La caduta” - ha aggiunto l'autore Marco Apolloni -, siamo giunti alla costruzione di una nostra identità occidentale. Non a caso il mio auspicio è che si creino prima o poi degli Stati Uniti d'Europa, in cui i Paesi non vengano più visti solamente come Nazioni dai passati divisi, bensì come un corpus unico legato da un futuro comune».

22.10.08

Martedì, 22 Ottobre - W i maestri! La scuola siamo noi

di Silvia Del Beccaro

Se getto uno sguardo al passato, i ricordi dei primi giorni di scuola sono ancora limpidi, nella mia mente. Ricordi di genitori che ti lasciano in mezzo ad altri bambini, perlopiù sconosciuti, ma che di lì a una settimana diventano i tuoi migliori amici. Ricordi di nuovi ambienti, nuovi modi di organizzare la tua vita in erba, le tue giornate di bambina. Ricordi di una maestra, una suora nel mio caso, che ti insegna tutte le materie - ginnastica e inglese escluse - e che ti cresce. 
La Ministra Gelmini ha espresso il desiderio di ristabilire il maestro unico. In fondo non credo sia del tutto sbagliato. Io sono cresciuta con questo metodo di insegnamento e non è stato poi così deleterio. La gravità vera però sta nel fatto che ogni governo debba per forza ripristinare le proprie abitudini ad ogni successione. Non importa se nel frattempo il mondo è andato avanti, se la scuola si è evoluta e se sono state necessarie delle manovre per cercare di adeguarsi ai tempi moderni. Tutti vogliono sempre e comunque recuperare le proprie proposte. E questo a discapito dei cittadini - in questo caso degli allievi, che pagano la loro cultura - e dei professori - che ci mangiano. 
Ripristinare oggi il maestro unico, ora che la scuola si è adeguata alle recenti riforme, sarebbe come dire ripristinare i vecchi 4/5 anni universitari dopo che la Moratti ha optato fortemente per i famosi 3+2.  Insomma... fare un passo indietro ad ogni governo è davvero logico e necessario? Per non parlare delle sezioni separate, di cui si è tanto discusso recentemente. Ghettizzare gli allievi significherebbe riesumare i tempi delle discriminazioni razziali e del ku klux klan. I tempi in cui i “nigger” (ndr. letteralmente “negri”) sui pullman dovevano sedere lontano dai “whites” (ndr. i cosiddetti “bianchi”). I famosi anni Trenta di Malcolm X, quando fu proprio un insegnante a stroncare il suo sogno adolescenziale dicendogli che diventare avvocato non era un obiettivo realistico per un negro. 
Conservare il passato, rimanere attaccati a ciò che è stato fatto dal proprio partito in precedenza, senza riconoscere i mutamenti adottati successivamente dalle varie linee di governo, significa non saper accettare il futuro. E negare l’avvento del futuro significa aver paura di fare del bene alla propria società. Occorre piuttosto guardare avanti, cercare di proporre delle novità per far sì che la propria Nazione possa progredire e camminare, a poco a poco, sulle proprie gambe. La scuola in primis deve essere, per l’appunto, un luogo di rinnovamento. Certo non potremo essere tutti dei professori Keating (ndr. L’attimo Fuggente), innovativi e geniali, ma se non altro possiamo cercare di risaltare quello che già abbiamo: ritornare al maestro unico e chiudere alcune specializzazioni universitarie significa togliere posti di lavoro, chiudere le SSIS senza disporre di un progetto alle spalle significa negare a giovani volenterosi la possibilità di esercitare una professione per la quale hanno studiato a lungo, separare i bambini stranieri da quelli italiani significa ricreare i ghetti - a partire dagli istituti, prima fonte di convivenza. E’ possibile allora tutto questo? Ma a che prezzo? Riflettiamo, gente, riflettiamo.

17.10.08

Venerdì, 17 Ottobre - Sociologia della piazza

di Marco Apolloni

Itinerari speciali

Trento ha un centro davvero delizioso, tipo: centrino da tavola. Non so se mi spiego. Però non chiedete mai informazioni ai trentini – si chiaman così gli abitanti di Trento, no? – se non volete perdervi in città. Ci sono parecchi vicoli angusti e antichi in questa suggestiva località alpina. Ma al mattino, quando ti svegli, non è niente male vederti le montagne attorno. È una strana sensazione, nuova per me, stimolante direi. Come ogni città montanara consimile, anche Trento dopo una certa ora chiude i battenti. Le uniche colonie notturne studentesche si rintanano in locali malfamati, stile: peggiori bettole di Caracas, oppure in locali oltremodo chic. Questi ultimi per la componente più in, della serie: tanto paga babbo. Decisamente non il mio target, più out che in. Il tanto paga babbo con me non attacca, a meno che non voglia finire bastonato da quelle manone d’orso del “mi babbo”. Poi di giorno la città si ripopola. La popolazione è piuttosto meticcia. Donne col velo spuntano da ogni angolo come i funghi finferli del sottobosco locale. (La comunità marocchina è talmente radicata che in certi momenti ti pare di stare a Marrakech, nel bel mezzo della Casbah.) Ciclisti in tutina si danno appuntamento presso la stazione degli autobus, a pochi passi da quella dei treni. Rasta provenienti da Bolzano sbucano dalla stazione ferroviaria. Centri sociali ci devono essere. Io non li ho visti, ma da qualche parte ci saranno senz’altro. Tracce che me l’hanno fatto pensare, a parte i suddetti rastoni, sono: scritte NO A BASI MILITARI sulle strisce bianche d’attraversamento pedonale; manifesti clandestini incitanti al FATE L’AMORE NON LA GUERRA disseminati un po’ in tutta la città, oltre ai rinomati PEACE & LOVE. Tra la fauna locale ho intravisto anche qualche potenziale bombarolo altoatesino – pur essendo in trentino – con minacciosa barba teutonica e chioma ingrigita fino alle ginocchia, del tipo: HANS CASTORP – chi non lo conosce si legga La montagna incantata di Thomas Mann. Per non parlare dei turisti, specialmente francesi, con quella loro pronuncia très jolie. Molte buzziche, a dire il vero. Perché quelle carine sono al 90% creole. Le francesi bone, di carnagione lattiginosa come la VIA LATTEA, sono rare quanto Brigitte Bardot e Catherine Deneuve. Ma che dire d’altro: TRIDENTUM è una città a portata d’uomo, "la Città del Concilio" come recita lo slogan agghiacciante dei dèpliants turistici. Una visitina se la merita, direi.

Cari saluti trentini,

Vostro umilissimo e reverendissimo

Inviato Sociale

(riverisco e bacio le mani!)

Consigliati speciali (molto easy e pure cheap)

Pizzeria da Andrea. Per chi vuol mangiarsi una buona pizza napoletana, sia al taglio che al piatto, fatta da un pizzaiolo partenopeo dòc, con tanto di: profumate foglioline di basilico, mozzarella di bufala campana e pummarola rustica San Marzano.

Döner Kebab. Per chi vuol farsi un paninozzo infarcito di questa specialità arabo-mussulmana, il marchio è di una multinazionale del settore – potete trovarlo ovunque, persino sotto casa vostra –, vero e proprio Mac Donald’s per gli amanti del genere MUCCA PAZZA; la bontà del posto l’ho intuita dall’odorino mica male che mi ha penetrato le narici e sarei quasi entrato a farmene uno anch’io, tanto mi solleticava le papille gustative, se solo non avessi visto tutto quel lardo colante, ogni volta che lo guardo m’attorciglia le budella dal disgusto.

Caffè Tridente. Per due motivi: 1) per il belvedere sulla sontuosa Fontana centrale; 2) per i bei davanzali attornianti, si va da una terza abbondante in su – per chi volesse cogliere l’assist

Ostello Giovane Europa. Con tanto di bagno in camera, annesso e connesso, roba da non crederci. Lenzuola pulite, poco importa se stracciate. Colazione inclusa, anche se colazione è una parola grossa in questo caso. Tutto compreso: 25 euro per una camera singola, che non è malvagio come prezzo. L’unica pecca è la tavola calda chiusa la domenica, giusto il giorno in cui sono andato io.

10.10.08

Venerdì 10 Ottobre – Anche i banchieri piangono (e, quel che è peggio, fanno piangere anche noi poveretti!)

di Marco Apolloni

Non so come voi abbiate vissuto quest’ultimo periodo di psico-drammi economici, ma a me è venuto il panico. Anche a causa delle recenti dichiarazioni del nostro – “mi consenta” – Cavaliere nazionale, in cui rassicura – come suo solito – tutti gli italiani, dicendo di non preoccuparsi. Al che io, se prima non mi preoccupavo, dopo la sua dichiarazione ho cominciato a preoccuparmi seriamente. Tutta ‘sta economia sparata in prima pagina mi ha travolto, devastato, frustrato. Anche perché giuro di non capirci un “acca” quando mi si mettono davanti termini come: asset, commercial papers, euribor, hedge found, rating, subprime, stagflazione, indice di patrimonializzazione, deflazione, banca d’affari e via discorrendo. Tutte parolacce, per i non addetti ai lavori come me. Ma visto che si parla sempre di quello, cioè di soldi/denaro/quattrini/cash/liquidità, pure chi come il sottoscritto non ci capisce molto è costretto, dalle contingenze del momento, a sforzarsi di capire. E io, in poche parole, mi sono sforzato – il mio impegno è da apprezzare. Bene o male un’idea me la sono fatta. Della serie: anche i banchieri piangono (e, quel che è peggio, fanno piangere anche noi poveretti!).
Il problema del denaro sta tutto nella sua astrattezza. Un mondo senza denaro è stato il più illustre auspicio di molti filosofi. Ne scelgo due a caso, due estremi, cioè uno di “destra” e un altro di “sinistra”: Oswald Spengler e Karl Marx. Entrambi vagheggiarono ardentemente un mondo senza denaro ed una società a tal punto evoluta da non averne più bisogno. Ah, se solo i sogni dei grandi filosofi potessero avverarsi, se solo questi non fossero talmente utopici… Persino i moderni “santoni” della new age – il cui sincretismo culturale convoglia un po’ tutte le più brillanti intuizioni filosofiche – auspicano il tramonto di un’economia basata sull’artifizio del denaro e la re-introduzione di un’economia più terrestre, basatasi sull’antico baratto insomma: tu dai una mollica di pane a me e io do una crosta di pane a te, per farla breve.
Ad oggi le mie competenze d’economia si limitano ad un esamino da tre crediti dato l’anno scorso, il cui argomento principale – voglio essere sincero – è stato il Faust di Goethe, che con l’economia c’entra quasi come la barriera corallina sulla catena dell’Himalaya… Però, sentendo alcune trasmissioni e leggendo allarmanti titoloni in prima pagina, ho giocoforza dovuto drizzare le mie antenne ricettive. Sempre più opinionisti – il cui numero è in continua impennata – stanno parlando di noi piccoli risparmiatori e dei nostri risparmi affidati ad autentici “masnadieri” del business, i quali s’arricchiscono sull’ignoranza di noialtri. Conosco un paio di tipi del genere, ve li raccomando… Ad alcune persone, a me care, costoro hanno consigliato all’epoca di acquistare titoli governativi argentini poiché avrebbero ottenuto un guadagno quasi garantito – insisto su quel “quasi”, ho imparato a diffidare di chi fa sperpero di simile approssimazione. Poi, come andò a finire, lo sappiamo tutti. Queste persone a causa dei loro cattivi consiglieri, oggi faticano ad arrivare alla fine del mese e si arrabattano tra una bolletta e l’altra da pagare, ma continuano imperterriti ad avere fiducia nel domani.
Fiducia, ecco un termine molto caro agli opinionisti summenzionati, che continuano a rivolgere solenni proclami circa l’indispensabile fiducia dei risparmiatori. Sin da quand’ero piccolo, mi è stato insegnato che la fiducia è una conquista quotidiana, che va meritata: non con le chiacchiere, ma coi fatti. “Fatti, non pugnette!” recita lo slogan di quel comico di Zelig. Ecco qua che io, misero e insignificante risparmiatore, come posso aver fiducia dei miei aguzzini, ossia di chi tenta in tutti i modi – ed in questo almeno c’entra il Faust di Goethe con l’economia – di vendere la mia anima al diavolo del guadagno? La domanda, riconoscerete, quanto meno è lecita. Le poche volte che sono entrato in banca, spintonato da mio padre – che ha la stoffa di un Fugger inside –, ho sempre fatto discorsi chiari coi miei interlocutori: “Intendiamoci, io non voglio guadagnare una lira con voialtri. Mi basta che alla fine dell’anno mi garantiate i miei quattro soldi. Ok?”. Questo perché il mio presupposto è che: sin dal nascita delle prime rudimentali banche – databile intorno al 2000-3000 a.C., ad opera dei Sumeri e Babilonesi – lo scopo delle medesime è sempre stato quello di spillar quattrini ai loro clienti, ovvero concedere prestiti per poi alzare il tiro e ricavarne dei succosi interessi. Ciò detto, secondo me, non ha molto senso: voler speculare con chi fa della speculazione un’arte. Altro che il 5% d’interessi, io sui miei risparmi preferisco lo 0%, ma che almeno mi venga garantito.
Garanzia, ecco un’altra parola che ricorre spesso in questo periodo. Tale parola, va detto, cessa di aver valore se le banche falliscono. Difatti se la tua banca fallisce, amen! Nel senso che: dai un bacio ai tuoi soldi… Persino il nostro habitué Ministro dell’economia ha ammesso che, ora come ora, rispetto alle banche sono più sicure le Poste italiane, il cui capitale sociale per il 70% è in mano al Governo e solo un ridotto 30% veicolato in depositi e prestiti misti. Risultato: un numero crescente di risparmiatori sta commutando i propri conti bancari in conti postali. Come se non bastasse, un altro dato rilevante concerne il trend al ribasso nell’acquisto di auto e moto. E si capisce: ottenere un mutuo agevolato di questi tempi è impresa assai ardua… Vista l’economia schizofrenica dell’ultimo periodo, la perenne instabilità dei mercati, il fantasma del fallimento calato come un falce sopra le banche, c’è solo un rimedio – badate bene, non cura – che ci rimane: quello di smetterla di fregarcene dell’economia, perché il solo modo per non finire in pasto ai “pescecani” del settore è sbalordirli con il nostro bagaglio di conoscenze acquisite. E a chi ci dovesse chiedere, ad esempio, cosa sia un asset, noi d’ora in poi dovremmo rispondere a colpo sicuro: “Termine inglese concernente i beni materiali e immateriali di un’impresa”. Della serie: “Tiè, beccate questa…”. La conoscenza è la sola cura all’ignoranza!


3.10.08

Venerdì 3 Ottobre - Cronache dei baronati universitari

di Marco Apolloni

(Contro le critiche preventive o pregiudiziali... questo post è scritto con la mente e con il cuore. L'astio, vi garantisco, non c'entra nulla. Sono soltanto sincero, dico la mia con molta serenità e pacatezza. Se questo può dar fastidio a qualcuno, bene, è proprio quello che volevo. La verità, spesso, è fastidiosa!)

Dicesi baronati universitari il sistema clientelare vigente all’interno delle università italiane. Chi sono i baroni – nel senso dispregiativo del termine – delle suddette università? Delle sotto-specie di professori, poiché tutto fanno fuorché fare il loro mestiere con correttezza e trasparenza. Vorrei raccontarvi una storia che mi ha visto protagonista in negativo, nel senso che per me è finita male.
Mi trovavo la scorsa settimana su al nord per un concorso di dottorato. Francamente non volevo andarci, per un mucchio di ragioni. Non voglio sembrarvi il solito “vittimista”, che prima mette le mani avanti solo per non fare dopo brutta figura. È proprio che io – non mi chiedete come o perché – sapevo già chi sarebbe passato in questo dottorato. Sarà che sono un sensitivo, inconsapevole di esserlo. Sarà che possiedo una sfera di cristallo da qualche parte nella mia testa, che mi ha permesso di decifrare gli oscuri eventi futuri. Chissà… o forse, più semplicemente, sarà che sono un incrollabile empirista, che fa tesoro della propria esperienza per interpretare i comportamenti poco chiari di chi gli sta intorno. Non lo so, non chiedetemelo. Una cosa, però, la so quasi per certo. Il concorso a cui ho preso parte è stata una rocambolesca messa in scena. Certo, non ne ho le prove, ma quanti colpevoli sono a piede libero perché non si trovano stracci di prove da imputargli contro? Tanti, troppi anche.
Stranamente in commissione vi erano tre professori, ognuno proveniente da un’università diversa. Altrettanto stranamente sono passati due candidati per ognuno di questi professori incriminati. Sarà stato un caso, una coincidenza oppure una combine in piena regola. Chi lo sa. Sta di fatto, però, che due di questi candidati – di cui non discuto le capacità intellettuali – li conoscevo bene e sapevo che erano “sponsorizzati” da alcuni membri influenti delle gerarchie di facoltà. Prima di dare fuoco alle polveri, come si suol dire, ossia prima d’iniziare la prova scritta, parlando con un paio di colleghi, mi sono scappati detti i due nominativi sicuri – quelli insicuri eravamo io e altri due – che secondo le mie previsioni ce l’avrebbero fatta ad accedere al dottorato. Magia delle magie, il mio pronostico si rivelò azzeccato. Lì per lì ho pensato: “Sarà il caso che mi dia all’Enalotto, visto che azzecco i nomi chissà che non vi riesca pure con i numeri…”.
L’esame scritto è filato via liscio. È stata sorteggiata una delle tre buste – sembrava di stare in qualche trasmissione televisiva, del tipo: scegli la busta giusta. È uscito un tema – che naturalmente, come sfiga vuole, c’entrava ben poco con quello che ci aspettavamo tutti, o quasi tutti – insisto su quel quasi. Ci sono state date due buste, una grande e una piccina, un foglietto, un paio di fogli a righe, una penna anti-sofisticazione uguale per tutti. Sulla busta piccola ci hanno detto d’infilarci il foglietto con tanto di nome, cognome e data di nascita, e di sigillarla, inserendola poi nella busta grande insieme ai fogli scritti, a sua volta debitamente suggellata. Tutto ciò per trasparire l’aura di massima imparzialità dei commissari giudicanti. Peccato che per ogni regola esista sempre l’eccezione che serve ad aggirarla. Basta un nonnulla, infatti, per far saltare tutto il sistema, come ad esempio: avvertire un professore della commissione con quale incipit si è voluto iniziare il proprio scritto; o magari, fare un minuscolo scarabocchio identificativo a bordo pagina; per non parlare della calligrafia talmente diversa e così particolare per ognuno, che può benissimo essere riconosciuta da chiunque. Se proprio si volessero fare le cose per bene, si dovrebbe far scrivere tutti al computer, così almeno si renderebbe più ardua la vita a certi imbroglioni patentati…
A questo punto chiunque potrà pensare di me: “È arrivato il solito deluso, che per problemi di acidità e ripicca incomincia a sparlare di tutto e tutti, sputando sulla minestra che voleva mangiare pure lui.”. Il che, lo confesso, potrebbe essere più che verosimile se solo chi vi parlasse fosse davvero interessato a venire ammesso in qualche dottorato. Tuttavia, personalmente, non ci tengo a fare il precario a vita e ad essere in balia di loschi figuri, che a seconda di come gli gira decidono delle tue sorti. Iniziare e concludere un dottorato, in realtà, se non ti dai parecchio da fare a tirare leccate a destra e a manca, quasi certamente non ti servirà a prendere in consegna qualche cattedra universitaria, una volta nominato ricercatore. Resta il fatto, però, che a me non importa una sega di questa stramaledetta ammissione. Ciononostante – e ciò non è una contraddizione – ho voluto sperimentare di persona – della serie: sbatterci proprio il muso frontalmente – alcune risapute dicerie. Il mio tentativo di spuntarla in un dottorato di ricerca è voluto essere un esperimento sociologico, che qui lo dico e non lo nego è stato solo il primo di una lunga serie, visto che sono più che mai persuaso a ritentare in futuro – fino ad esaurimento nervoso.
Come ogni buon sociologo che si rispetti, pur non essendolo io stesso – tutto ciò che finisce in “ologo”, compreso “soci-ologo”, non m’interessa affatto –, ho individuato un ambito d’indagine e quindi ora non faccio altro che sgobbare sodo sul campo. Come fanno i sociologi di professione, inoltre, anch’io ho cercato di aiutarmi non solo con le parole, ma anche con i numeri, precisamente con alcune statistiche. Fra le tante, ne basti una – a titolo esemplificativo: ho calcolato che vi sono per me, candidato privo di raccomandazioni ai piani alti del Palazzo, più probabilità di vendere un milione di copie del mio romanzo, prossimamente in uscita, che venire selezionato in un concorso di dottorato. Come spiegazione pseudo-razionale – ad una statistica che di razionale ha ben poco – ho trovato che nonostante il calcolo numerico mi dia una possibilità su venti di accedere al dottorato, mentre per la vendita di un milione di esemplari del mio romanzo il rapporto è sfavorevolmente uno a un milione, il mio calcolo morale mi dice esattamente il contrario. Tale conteggio trae lo spunto da un episodio significativo – uno di molti –, che mi è stato raccontato e che più mi ha colpito, in assoluto, per la sua sorprendente assurdità. Vi avverto: siete liberi di non crederci, neppure io ci credo tuttora o almeno non voglio crederci…
Il protagonista è un importante professore ordinario di un’università italiana. Costui seleziona i suoi candidati in base a quanto sfacchinino per lui e per la moglie. Nel senso che se tu vuoi essere scelto come suo “dottorando” devi reggere dei ritmi infernali – tipo quelli della segretaria tuttofare protagonista del film Il diavolo veste prada, tanto per capirci. Devi… lavargli la macchina il sabato o la domenica. Portare due volte a settimana la moglie a far la spesa o commissioni varie – tipo in banca, in posta, in giro per negozi a far compere, eccetera. Rispondere alle e-mail dei suoi “laureandi”, nonché leggere le tesi di laurea dei medesimi e riferirne poi il contenuto nientemeno che al boss in persona. Allacciargli la cravatta, con il doppio nodo come piace a lui. Servirgli il caffè d’orzo, regolarmente in tazza grande, nel suo studiolo privato. Fargli la barba tutte le sacrosante mattine. Gestire i suoi appuntamenti clandestini con le sue amanti-studentesse, poco modello ma molto modelle – che per un trenta e lode nel loro curriculum studiorum sono ben disposte a sottomettersi nella posizione canonica del “missionario”. Infine, proprio in-fine, il requisito indispensabile per diventare un suo “cane di razza” è redigere le bibliografie dei suoi libri. Qui il candidato-schiavo dovrà citare dettagliatamente ogni singola pubblicazione del suo mentore, senza dimenticarsi neppure un solo articolo apparso in qualche rivista specialistica – e siccome stiamo parlando di un professorone ordinario “cariatide” vantante una carriera accademica trentennale –, vi assicuro che c’è un bel po’ di roba da ricordarsi…
Non possedendo i suddetti requisiti mi sono subito persuaso che forse quella del “dottorando” fosse una professione non adatta a me. Allergico ad ogni forma di sottomissione come sono, penso proprio che al posto del candidato sopra descritto avrei… Rotto i finestrini della sua macchina invece che pulirglieli. Azzoppato la moglie così non si sarebbe mossa da casa. Insultato via mail i suoi “laureandi”, cestinando i file contenenti le loro tesi del cazzo – ho detto cazzo?! Scusate, chiedo venia. Stretto volutamente forte il nodo della sua dannata cravatta. Sputato sul suo caffè d’orzo, correggendolo alla mia maniera. Usato il machete per fargli la barba, ferendolo ripetutamente. Filmato i suoi incontri “a luci rosse” con le studentesse-squillo, mettendo poi i video su YouTube. E, dulcis in fundo, avrei inserito per protesta nelle sue bibliografie indicazioni errate, quali: Siffredi, R., Io e lui, Edizioni Cazzi Dritti, Pornolandia, 2023. Oppure mi sarei sbizzarrito ad elencare tutti i numeri di Topolino, Tex, Dylan Dog, Corto Maltese e così via. (Del resto, io aborro le bibliografie. Credo siano un inutile perdita di tempo. Se vuoi citare il libro di qualcuno lo metti in nota, punto. Conosco certi filosofi, che sembrano dare più importanza ai loro riferimenti bibliografici, che ai contenuti delle loro opere. Uno di questi è stato buono a dire ad un suo “laureando” capace di scrivergli cento pagine di bibliografia, che comunque non andava bene ed era ancora troppo superficiale. Figuriamoci cos’avrebbe detto a me, che di norma nei miei scritti non supero le tre pagine di bibliografia. Non sono molto lontano dal vero se dico che mi avrebbe fucilato seduta stante, o peggio ancora bocciato! Sarà… ma io prediligo, quando scrivo, dare più importanza a quanto vado dicendo, che a quanti libri riesco a citare esibendo tutta la mia smodata paraculaggine…). Vale per i "dottorandi" il motto dantesco: "Abbandonate ogni speranza voi che entrate..."!