17.1.09

"Slumdog Millionaire" (2008)


di Marco Apolloni

Una grande firma di Repubblica (Federico Rampini) ha recentemente scritto un libro, L'impero di Cindia, dove parla del boom economico che sta investendo sia la Cina che l'India – da qui il curioso gioco di parole del titolo. Le due nascenti potenze orientali si candidano già, in un domani non troppo remoto, alla governance mondiale come sostitute dell'ormai tramontante potenza egemone statunitense.

Tenendo da parte la Cina, che con i giochi olimpici ha tenuto banco per tutta la passata estate, è il caso di prendere in rassegna una potenza silenziosa, ma che ha già azionato il pilota automatico tanto va di fretta, quale: l'India appunto. Il paese del Mahatma – Grande Anima in sanscrito – Gandhi, che nello scorso secolo grazie al suo carisma e al suo metodo non-violento è riuscito a conquistarsi una faticosa Indipendenza dalla madrepatria inglese.

Molti di voi forse già lo sapranno e per chi non lo sapesse mi pare questo un buon momento per saperlo: l'India, precisamente la Bollywood indiana produce un numero maggiore di film della Hollywood americana. Tra questi Slumdog Millionaire – il cui regista è però lo scozzese Danny Boyle, reso celebre dalla trasposizione cinematografica del romanzo di Irvine Welsh Trainspotting –, che racconta la storia di Jamal Malik, un diciottenne della baraccopoli di Mumbai, che per conquistare Latika, la donna della sua vita, decide di partecipare al gioco a premi il cui franchising è diffuso in tutto il mondo – da noi in Italia è conosciuto come Chi vuol esser milionario, con tanto d'identica musichetta in sottofondo. La trama è serrata e ricca di colpi di scena. Essa, inoltre, presenta un sapiente incastro: per ogni domanda del quiz il protagonista ripercorre mentalmente le tappe salienti che lo hanno condotto fino a quel momento.

Fra queste tappe vi è la sua infanzia difficile, durante la quale insieme all'inseparabile fratello Salim si guadagnava una manciata di rupie – la rupia è l'unità monetaria indiana – gestendo il business d'una latrina pubblica. C'è una scena particolare in cui Jamal viene rinchiuso da Salim, per dispetto, nella suddetta latrina e pur di procurarsi l'autografo del suo attore beniamino bollywoodiano – nel frattempo sceso dal suo elicottero privato – si cala negli escrementi e corre da lui così insudiciato. Altre due scene significative sono: la prima, quando la madre dei due bambini viene brutalmente accoppata da un gruppo di mussulmani in protesta – ricordo che l'India è l'ombelico delle religioni di tutto il mondo: la maggioranza indù, infatti, deve vedersela con numerose minoranze fra cui: quella mussulmana, cristiana e buddhista; la seconda, quando il protagonista ancora bambino e innocente assiste, sgomento, all'accecamento di un suo coetaneo per opera di un boss senza scrupoli, il quale raccoglie gli orfanelli della locale baraccopoli, per poi mandarli ad elemosinare per lui – la vittima viene mal ridotta nella convinzione che un bambino cieco, capace di cantare per strada con la sua suadente vocina la preghiera rituale al dio della buona sorte Ganesh, spilli più quattrini agli incuranti passanti di un qualsiasi bambino vedente, episodi del genere sono all'ordine del giorno nella frammentata e diseguale società indiana.

La cavalcata trionfale che porta Jamal a giocarsi la vincita finale non è però priva di ostacoli. Il velenoso conduttore televisivo messo in ombra dal ragazzo-prodigio – che ostenta sicurezza, rispondendo correttamente a tutte le sue domande – tenta in tutti i modi di ostacolarlo, prima consigliandolo erroneamente, poi addirittura facendolo interrogare dalla polizia locale – che non gli usa di certo le buone maniere. Tuttavia ogni tentativo dell'ispettore di polizia di piegare l'inflessibile volontà del ragazzo risulta vano. Egli infatti non può confessare ciò che non ha fatto, ovvero imbrogliare. Le risposte lui le sa perché, volente o nolente, le ha tutte vissute sulla sua pelle. La categoria della predestinazione si staglia prorompente nel finale. Non a caso il giovane è predestinato a vincere e a diventare perciò un milionario. Tutto questo perché: era scritto! Si segnala l'intonata colonna sonora di Allah Rakha Rahman, fra i più importanti compositori indiani. Immancabile è il balletto conclusivo, in perfetto stile bollywoodiano, dove personaggi e comparse danno vita ad una pittoresca coreografia tra i vagoni della Victoria Station di Mumbai. Che dire infine: se si sono realmente svegliati gli indiani, come sembra, il predominio di Hollywood ha ormai i giorni contati. L'ombra lunga di Bollywood è lì già che incombe...

4.1.09

"August Rush - La musica nel cuore" (2007)

di Marco Apolloni

L'esordiente regista irlandese Kirsten Sheridan, figlia d'arte – il padre Jim ha diretto, tanto per citare il suo miglior film, In the name of father (1993) –, con questa sua opera prima ci regala un riuscito film sentimental-musicale, ma non un musical vero e proprio. Il titolo originale della pellicola è August Rush, che italianizzato diventa La musica nel cuore. Essa si poggia tutta sulla superlativa interpretazione di cinque bravissimi attori, anzi sei. Freddie Highmore interpreta August Rush, il bambino prodigio della musica, che fugge nella Grande Mela per ritrovare i suoi genitori mai conosciuti. Keri Russell è Lyla Novacek, la madre nonché la bella violoncellista. Jonathan Rhys-Meyers indossa i panni di Chris Connelly, il padre nonché chitarrista-cantante d'indiscutibile valore. Terrence Howard si cimenta nel ruolo di Richard Jeffries, il coscienzioso assistente sociale, che permetterà la riunificazione di madre-padre-figlio. Infine, the last but not the least, Robin Williams, dopo La leggenda del re pescatore (1991), torna a ripopolare da vero istrione il sottobosco newyorkese cimentandosi nella parte di Wizard, l'antagonista che tenterà invano di guastare l'allegro quadretto familiare. Altra protagonista, seppur non in carne ed ossa, è la musica, nume tutelate di August. Musica intesa nella sua concezione più metafisica, come linguaggio trascendente che, quindi, trascende la materia stessa per ricondurci alla gloria dell'Altissimo e che è respiro cosmico. Come dice il piccolo August: “La musica è intorno a noi, non bisogna fare altro che ascoltarla…”.

Fra le chicche musicali, sparpagliate qua e là, va segnalata una versione acustica della suadente Moondance – ballads old style di Van Morrison, recentemente ripresa in versione swing da Micheal Bublé. Questa canzone funge da soundtrack dell'innamoramento tra Lyla e Chris, i quali sulle sue note si baciano e ardono di passione al lume di stelle, sopra i tetti di New York. Frutto della loro romantica notte d'amore è lo stesso August. A causa, però, del padre-padrone di Lyla, il bimbo appena nato viene messo in un orfanotrofio, dal quale lui solo a undici anni riuscirà a scappare, spiccando il volo sulle ali della sua musa ispiratrice. La sua abilità innata gli permette di sentire certe vibrazioni superiori e di trasformare ogni tipo di suono che lo circonda in musica dell'anima. Stupefacente, inoltre, è la sua subitanea capacità d'apprendimento e assimilazione. La prima volta che prende in mano una chitarra, senza conoscere un solo accordo, si cimenta in riff pazzeschi alla Eric Clapton. Idem con il pianoforte. Questo Mozart in erba si farà strada a suon di musica, in maniera del tutto casuale – la trama presenta tutti i connotati della fiaba, per ciò stesso risulta sospesa a metà tra finzione e realtà –, fino alla più prestigiosa Accademia musicale di New York. I suoi insegnanti sono talmente estasiati dal suo genuino talento da autodidatta, che gli propongono di suonare una sua rapsodia al consueto concerto di fine anno. Proprio in quest'occasione, dopo aver superato i rituali ostacoli propri di ciascun eroe in celluloide – che rispettano in pieno il già oliato meccanismo dell'intreccio narrativo –, August calamita a sé i suoi genitori.

Le sole note stonate del film sono: una scarsa caratterizzazione della fauna newyorkese e il finale non finito. Riguardo la prima stonatura ci si sarebbe dovuti soffermare maggiormente sulla marginalità degli orfani che abitano in un vecchio teatro abbandonato e son costretti a mendicare pochi spiccioli suonando qualche strumento al servizio di Wizard. In un flash momentaneo sembra d'assistere alla riproposizione post-moderna, ambientata nella metropoli che non dorme mai, della favola dickensiana Oliver Twist, seppur appena diversificata e riadattata ai giorni nostri. Circa la seconda stonatura la regista, per un eccessivo e ingiustificato timore di sembrare scontata, priva lo spettatore dello stucchevole, ma comunque gradito, abbraccio finale fra i tre protagonisti. In simili pellicole, del resto, è cosa buona e giusta mostrare piuttosto che lasciar immaginare il lieto fine. Checché ne dica certa critica prevenuta, la gente ha bisogno degli happy end. Ad essere sinceri, infatti, gli unici ad essere scontati – nel cinema come nella vita – sono i sadly end...