22.6.09

“Coraline e la porta magica”

di Alessandra Savazzi

“Coraline e la porta magica”, adattamento del romanzo “Coraline” di Neil Gaiman, è un film d’animazione prodotto dalla Laika H.E., realizzato con la tecnica stop-motion, accompagnato dalle musiche del compositore Bruno Coulais, e diretto dal regista di Tim Burton “The Nightmare before Christmas”, Henry Selick.
Coraline è una bimbetta dai capelli blu, acuta e coraggiosa, tutta pelle, ossa e curiosità. Il suo nome giusto è quello sbagliato: Caroline un giorno corse così forte nella mente di Gaiman che le sue dita inciamparono sulla tastiera; come il tempo nei sogni, la velocità dei pensieri talvolta capovolge le cose. L’abitudine per “Caroline” fa sbuffare Coraline, dopo tutto, chi sa dire dov’è l’errore? Non è “giusta” anche l’eccezione per il solo fatto che esiste? “E’ vero anche il contrario”, direbbe l’ironia poco ironica di Groucho Marx. Il suo nome sbagliato è quello giusto!
Con papà e mamma si trasferisce nell’Oregon, in una grande e vecchia casa, situata in una valle caliginosa e prosperosa di alberi arruffati. I suoi genitori scrivono infaticabili al computer, per riviste di giardinaggio, pur detestando tale pratica; “scrivete di terra e odiate la terra” appunta loro Coraline, ciondolando nel suo impermeabile giallo, traboccante di entusiasmo per la pioggia che scende e il giardino che s’ammorbidisce in fango. In quella casa così ampia non c’è spazio per giocare insieme, né tempo per inventare merende gustose: Coraline si sente come una stanza trascurata, una vita in scena, ma senza riflettori.
Miss Spink e Miss Forcible, abbondanti in forme ed esuberanza, inattendibili ermeneute di fondi di thé, moleste quanto le loro appiccicose caramelle secolari, sono due attrici in pensione che collezionano cani imbalsamati, tutti in fila in una specie di santuario, a sfoggiare alette d’angelo molto grottesche e tutt’altro che serafiche. Non sono i soli vicini, c’è anche Mr. Bobinski, che dice di allenare topi ballerini a comporre spettacoli musicali, e un ragazzino dall’aspetto moscio e cascante ma dal carattere estremamente inventivo, seguito da un gatto nero e spigoloso, complice delle sue avventure.
Una notte un topino di Mr. Bobinski apre a Coraline la strada per un mondo altro, attraverso una porticina della sala, di giorno impenetrabile ed enigmatica, e tutto sommato murata e deludente. Dall’altra parte Coraline vive la perfezione dei desideri: un'Altra Madre e un Altro Padre, identici ai suoi veri genitori, se non fosse che al posto degli occhi hanno due grossi bottoni neri, la inondano di attenzioni e farciscono di delizie, promettendole eterna felicità.
Solo un prezzo è da scontare per non uscire dal paradiso e giocare per sempre nel paese dei balocchi: non è un divieto, nessun albero del Bene e del Male, solo due bottoni, da cucirsi addosso.
Presto Coraline vive il disinganno: l’Altra Madre fabbrica pupazzi con i quali poter spiare il mondo reale e prender nota dei suoi difetti, attraverso i loro occhi-bottone; allo stesso modo di una bambola costruisce un mondo su misura, dal vestito a pennello, imbottito con la pienezza della perfezione, tenuto insieme da legami forti. Presto, però, l’imbastitura non regge, il panno si sgualcisce, tutto si sgonfia, e rovescia come un calzino. Tutti sono coinvolti e incatenati ad un mondo finto, solo Coraline, affrontandolo, ha lo sguardo libero e vigilante di chi trova ciò che vuole e, in fondo, aveva solo smarrito.
Il difetto dov’é? Nel mondo perfetto. L’Altra Madre è incapace di amare. L’ “altro” è l’incapacità del “questo”, l’incapacità si trasforma in odio e l’odio in volontà di onnipotenza, ma la volontà di onnipotenza dell’odio è potenza della distruzione, anche di ciò che esso crea. Solo la reale autenticità dell’amore, quell’amore sovente manchevole, insufficiente, incostante, disattento, pigro o maldestro, inesperto o pasticcione, orgoglioso e testardo, debole e indeciso, sempre pronto a rifarsi ma anche a fallire, senza misura o senza entusiasmo, indolenzito dall’abitudine e troppo facile a lasciare anziché resistere, quell’amore troppo umano da essere “divino” o forse divino proprio perché “umano”, può essere il costo di una vita perfetta, in quanto compiuta nel nostro realizzare noi stessi in esso come volontà di potenza, che vuole ciò che può, e per questo costruisce anziché distruggere.
Siamo prudenti, allora, a quel che desideriamo, e, prima di chiedere, esaminiamo in noi stessi ciò di cui davvero abbiamo bisogno per essere felici, ché altrimenti anche la risposta più impeccabile e incontrovertibile può scoprirsi insoddisfacente, e vera anche al suo contrario.

5.6.09

“Ken Park” (2002)

di Marco Apolloni

Ken Park” è un adolescente assomigliante a Rosso Malpelo, il cui altro soprannome è “krap”, “merda”. Il film si apre con lui che arriva allo skate-park e si suicida sparandosi un colpo in testa. Verso la fine veniamo a sapere dai suoi amici, che dietro al suo gesto estremo si cela il “movente” di una gravidanza indesiderata della sua ragazza. La pellicola si chiude proprio con lo sguardo di Ken perso in siderali lontananze, che inebetito non sa rispondere alla sua ragazza che gli chiede: se è contento che sua madre lo avesse fatto nascere. Risposta difficile, questa, soprattutto alla luce di quanto si viene svolgendo durante la narrazione filmica. Infatti nell'assistere sgomenti alla routine degli altri quattro co-protagonisti: Tate, Shawn, Claude e Peaches; la risposta alla domanda se valesse o meno la pena di nascere è un po' la chiave per capire la “periferia emotiva” di questi ragazzi, annoiati e svuotati, i quali contrappongono alla loro smania incessante di vivere l'incapacità di adattarsi in una società reprimente.

I famigliari di questi ragazzi, a ben guardarli sembrano molto più scossi di loro. Spiegabili perciò ci paiono i comportamenti eccentrici, che per reazione-difesa questi adolescenti problematici esprimono. Tutti tranne due: 1) il suicidio di Ken; 2) l'atto inaudito compiuto dall'esasperato Tate, che in preda ad un raptus omicida accoltella mortalmente i suoi nonni. Per gli altri tre rimasti ne risulta un ritratto efficace di una generazione ben oltre il nichilismo e la perdita dei valori. Poiché, a dire il vero, essi un valore dimostrano di averlo – valore, questo, di chiara ispirazione libertina –, e cioè: vivere appieno la loro disinibita sessualità attraverso la scoperta del loro corpo-strumento. In materia sessuale: il loro unico freno morale vuole essere non avere alcun “freno morale”! Concezione, questa, che lambisce l'edonismo più sfrenato. Con il termine “edonismo” s'intende comunemente quel complesso di dottrine ruotanti attorno al principio di “piacere”. Laddove altre dottrine filosofiche, invece, individuano nel “bene” oppure nella “felicità” i loro principi basilari. Il “piacere” che intendono loro è principalmente “carnale” e solo indirettamente “spirituale”: poiché per essi star bene con il loro “corpo” equivale a star bene con il loro “spirito”.

Riassumendo, dei cinque protagonisti: due sono senz'altro “negativi”, in quanto l'uno distruttivo per se stesso (Ken) e l'altro per gli altri (Tate); gli altri tre risultano invece “positivi” (Shawn-Claude-Peaches); il “trio” che, non a caso, nella parte finale della pellicola si esibisce in un triangolo sessuale travalicante il confine della pornografia. In un dialogo denso di significati e riferimenti culturali per bocca di Claude viene esposta quella che è la loro filosofia esistenziale, riassumibile con un capovolgimento del celebre detto cartesiano tramutato per l'occasione in: “Coito ergo sum”! Il loro obiettivo dichiarato è l'attuazione di una società utopica formata da uomini e donne pienamente appagati/e. Secondo loro ciò può essere l'unico antidoto contro il veleno che sta uccidendo la nostra società occidentale: sessualmente troppo repressa. “Società utopica” è la loro, dove la sola merce di scambio consentita è il “piacere” nella sua totale accezione fisica-metafisica. Una società dove è il sesso a farla da padrona, fondata sull'assunto matematico secondo cui: + SESSO = - FRUSTRAZIONE!

In definitiva, il merito più grande di questa pellicola – diretta dal regista Larry Clark – è di non essere scontata. In tempi di magra come questi, direi, ci possiamo accontentare...