23.12.06

Finanziaria 2007: giovani e anziani lavoreranno insieme

di Silvia Del Beccaro

Scatterà nel 2007 un nuovo progetto nazionale dedicato agli anziani. Si tratta del servizio civile per i pensionati, “perché gli anziani sono una risorsa e non una zavorra per la società” – come ha dichiarato Paolo Ferrero. Il ministro delle Politiche sociali, infatti, ha recentemente presentato un piano di lavoro, il cui obiettivo sarà quello di collegare tra loro le associazioni di volontariato formate da pensionati e renderle un tutt’uno: un gruppo omogeneo di milioni di persone, pronte a collaborare e ad organizzarsi insieme. “Come già avviene per il servizio civile dei ragazzi – ha spiegato il ministro – stiamo preparando progetti mirati. Proporremo nei prossimi mesi a duemila giovani napoletani di lavorare come volontari nei loro quartieri. Potremmo avanzare proposte simili anche ai pensionati”. La figura del nonno civico ormai è nota in tutta Italia: quell’anziano signore che sosta fuori dalle scuole e che aiuta i piccoli ad attraversare la strada e ad evitare i pericoli al di fuori dell’istituto scolastico, è diventata una figura di riferimento per tutte le famiglie, che vedono nei “nonni vigili” una fonte di sicurezza per i loro bambini. Oggi, consolidate simili figure, però, sarebbe giusto operare anche in altri ambiti. “Per il 2007 – rivela ai giornali il ministro del Lavoro, Cesare Damiano – abbiamo intenzione di affiancare i lavoratori prossimi alla pensione a dei giovani assunti part-time. In questo modo il lavoratore più anziano verrebbe retribuito in parte dall’azienda e in parte dallo Stato, col riconoscimento di insegnante di un corso di formazione professionale.
Tutto questo fa parte del progetto “patto tra generazioni” inserito nella Finanziaria, al quale abbiamo inizialmente stanziato 3 milioni di euro. Se l’esperimento funzionerà, siamo disposti ad aumentare la cifra per gli anni successivi”. Questa ed altre iniziative legate ai pensionati partiranno con degli esperimenti in aree circoscritte, per poi essere estesi a tutto il territorio italiano. Si pensa di promulgare perfino una legge nazionale. Intanto, però, si parla di un sito internet, che rientra fra i punti del piano, e che sarebbe messo a disposizione delle associazioni. “Non vogliamo sostituirci a ciò che già esiste e funziona – spiega Ferrero – e l’idea del sito ha proprio lo scopo di far conoscere a tutti le opportunità che esistono per creare una rete nazionale di associazioni e progetti”.

19.12.06

Verità e menzogna nell'odierno mondo televisivo

di Marco Apolloni
Quando si dice: “il potere del telecomando”! In effetti, il telecomando oltre ad essere uno strumento di potere all'interno dei nuclei familiari – solitamente il capo-famiglia è colui che detiene questa sorta di scettro ante litteram – è anche un notevole strumento di libertà. Basta infatti premere un misero pulsante per porre fine ai soliti scempi televisivi e al giorno d'oggi questo non è poco. Ma cosa fare se a dover premere quel pulsante sono dei minori o comunque degli individui per qualche motivo fragili? Da che mondo è mondo, di solito il proibizionismo, o comunque sia il proibire un determinato comportamento, ha sempre provocato una reazione opposta. Dunque secondo quest'ottica non appare granché efficace proibire certi programmi televisivi, ritenuti dagli esperti: diseducativi. Piuttosto miglior cosa sarebbe indirizzare su un giusto binario o in ogni caso fornire alcune chiavi di lettura, in modo tale da facilitare la visione di quei programmi considerati problematici. Appurato che il metodo proibizionista non funziona poiché è molto poco aderente alla realtà – quasi schizoide –, bisognerebbe provare a coltivare nei fanciulli una sorta di educazione negativa, ovvero quel metodo pedagogico che escogita di educare un fanciullo mediante l'esperienza diretta dei propri errori. In questo ha pienamente senso il celebre detto popolare secondo cui: sbagliando s'impara!
Teorico di quest'innovativo sistema educativo fu il ginevrino Jean-Jacques Rousseau, anche se all'atto pratico come padre non fu un altrettanto fulgido modello – non dimentichiamo infatti che lui abbandonò all'Enfants de France i suoi cinque figli, ma si sa: i buoni predicatori spesso sono i primi a razzolare male... Comunque quel che a noi importa non è tanto il Rousseau-padre, quanto il Rousseau-pedagogo. Nell'esplicare la sua concezione dell'educazione negativa, Rousseau nell'Emilio si serve di questo efficace esempio: racconta che il fanciullo protagonista di questo “romanzo di formazione”, rompe il vetro della finestra della sua camera, scagliandovi contro un masso; per questo l'educatore lo condanna a scontare sulla propria pelle tale monelleria, facendogli trascorrere tutta la notte in preda ai gelidi spifferi provenienti dalla finestra rotta. Svegliandosi la mattina – ammesso questi sia riuscito a chiudere occhio – avrà imparato qualcosa dall'esperienza negativa dell'errore commesso.
Tutto ciò per dire che: bisogna abituare il fanciullo all'odierna “giungla televisiva” – fitta di programmi davvero poco edificanti. Occorre che questi venga preparato dalle due autorità che dovrebbero tutelarne l'educazione. Ci riferiamo ai due sacri e inviolabili pilastri: in primis la famiglia e, in seconda battuta, la scuola. Entrambe queste autorità dovrebbero prendere per mano i fanciulli e vedere insieme a loro certi prodotti della cosiddetta “tv-spazzatura”, fornendo ad essi gli strumenti necessari di comprensione, senza imporre né tanto meno forzare alcuna presa di coscienza. Basta solo limitare i condizionamenti negativi visti come fattori esterni interferenti, per far sì che un giovane fanciullo cresca diventando un adulto maturo e pienamente coscienzioso. Nel dir ciò come dimenticare le terrificanti scene del capolavoro kubrickiano Arancia meccanica – tratto dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess –, in cui al giovane protagonista Alex viene fatto il lavaggio del cervello da scienziati svitati, i quali decidono di curare il suo “teppismo cronico” con un originale metodo, ovvero facendogli vedere fino alla nausea una sequela di immagini sanguinolente e orripilanti, di barbari stupri, efferati omicidi e quant'altro possa venire partorito da una mente violenta. Proprio la violenza di queste immagini curerà la mente bacata del “povero” Alex, che addirittura si tramuterà da “lupo cattivo” in “agnellino indifeso”. Dicasi: il paradosso delle immagini, cioè esse possono curare e provocare l'effetto contrario.
Per riportare questo discorso ai giorni nostri, sarebbe una grande conquista pedagogica riuscire a portare i teen-ager di oggi a dire: “Accidenti quanto sono stupidi e menzogneri i reality show!”. Già perché la menzogna permea visceralmente grandi fette del mondo televisivo. E per di più programmi, appunto, come i reality vengono addirittura mandati in onda in prima serata, secondando pertanto la logica perversa degli ascolti. Mentre magari programmi di ben diversa levatura morale e culturalmente più sostanziosi vengono relegati in seconda o peggio ancora in terza serata. Comunque siamo arrivati a un punto tale che dir male dei reality è un po' diventato come sparare alla Croce Rossa! Essi sono nient'altro che la manifestazione più grottesca del kitsch – letteralmente: il cattivo gusto che, però, piace – imperante in televisione e seppur non andrebbero vietati – com'è stato detto occorre abituare infatti il pubblico, anche dei minori, a poter digerire qualsiasi immagine, per poterne così essere vaccinati a vita –, se non altro andrebbero ricollocati in una fascia oraria meno agevolante la visione di un pubblico pre-puberale. Di solito al cambio di governi succedono spesso delle specie di “rivoluzioni dei palinsesti televisivi”, ora con il centro-sinistra al governo aspettiamo e vediamo se ciò avverrà. Al momento attuale, questo provvidenziale cambio di rotta si fa ancora attendere e i soliti noti “insetti” continuano a infestare il vespaio televisivo del nostro Paese...

14.12.06

La febbre del... televisore!

di Silvia Del Beccaro
Che la tv influenzi nettamente i pensieri dei suoi spettatori, questo è risaputo. Ma che diventi addirittura spunto per atti osceni e violenze non è da sottovalutare.
Negli ultimi mesi vari centri di ricerca hanno ricevuto segnalazioni per scene di stupri, droga, alcool, omicidi, orge tra uomini travestiti da pupazzi animali, pratiche sadomaso e sette sataniche. Scene non raccontate, ma mostrate nella loro interezza in prima serata su Italia Uno – rete riconosciuta da sempre come la rete “dei ragazzi” – durante la serie del telefilm “C.S.I.” (Crime Scene Investigation).
Le denunce sono giunte dal Movimento Difesa del Cittadino al Comitato di applicazione del Codice di autoregolamentazione Tv e minori, insediato presso il Ministero delle Comunicazioni. “Nelle ore serali, quando le famiglie sono ancora a cena – ha detto Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino – si deve assistere a scene come quelle sopra descritte. E pensare che prima dell’inizio del telefilm, appare soltanto una scritta di cinque secondi in cui si informa che il programma è riservato a un pubblico di soli adulti”.
Il caso di “C.S.I.” è solo un esempio di come la programmazione mediatica si sia trasformata nell’arco degli anni ma, soprattutto, di come la ricezione di questi messaggi sia mutata. L’allarme è stato lanciato da Adoc, Adusbef e Codacons che hanno dichiarato: “Basta con i reality e i programmi clonati. Occorre distribuire il canone che attualmente viene pagato dai cittadini alla Rai, in favore di quelle reti, anche private, che trasmettono programmi sociali e di servizio, in proporzione ai tempi di tv utile trasmessa”.
Il primato negativo è stato assegnato a Italia 1, nella programmazione per bambini e ragazzi; a Rai Uno invece il plauso dei genitori. Le maggiori proteste hanno riguardato non singoli film, ma la programmazione stabile in particolar modo di reality (La pupa e il secchione), cartoni animati (I Simpson) e telefilm (C.S.I. Miami). Non si è salvato nemmeno “Studio aperto”, per aver mostrato immagini senza veli. La programmazione migliore per i minori, invece, è risultata quella di Rai Uno che questa volta ha superato in gradimento Rai Tre grazie alla mini serie “Papa Luciani. Il sorriso di Dio” e al nuovo taglio di conduzione di “Affari tuoi”.
Finora abbiamo parlato di programmi tv, ma non è solo la televisione ad influenzare negativamente il comportamento di uno spettatore. Anche i libri, le canzoni o le riviste sono suoi complici.
Trevanian, ad esempio, nel suo romanzo “Il ritorno delle gru” ha dovuto auto-censurarsi per non essere considerato aizzatore di fantasie perverse nei lettori. Lo ammette lui stesso nelle note didascaliche, quando scrive: “In un libro precedente l’autore descriveva una pericolosa ascensione in montagna. Durante la trasformazione di tale romanzo in un insipido film, un giovane e brillante scalatore rimase ucciso. In un libro successivo l’autore illustrò un metodo per rubare dei quadri in qualsiasi ben protetto museo. Poco dopo la pubblicazione della versione italiana di questo libro, tre dipinti furono rubati a Milano con lo stesso identico metodo descritto, e due di essi rimasero irrimediabilmente mutilati”.
Lo spirito di emulazione è una brutta piaga sociale, che va affrontata con molta cautela. Questo desiderio di copiare, di imitare ciò che si vede in tv è sintomo di alcune lacune, in particolar modo psicologiche: avere una personalità debole, adorare qualcosa di inesistente o di troppo trasgressivo, sentirsi più forti agendo come degli irresponsabili, interpretare la vita come un gioco. Queste lacune, nella maggior parte dei casi, sono causate da una scarsa comunicazione all’interno della famiglia, come molti studiosi sostengono; ma soprattutto, occorre ammetterlo, sono causa dei messaggi che i mass media odierni lanciano alle loro “vittime”, giovani e non.
Sconfiggere l’emulazione non è facile. Dimostrare che si tratta di un mero comportamento infantile, è impresa assai ardua. Ma tutto è possibile. Trevanian, ad esempio, ha ammesso di dover censurare se stesso, per evitare che qualcuno prenda ispirazione dalle sue parole, fatte di pura immaginazione. Come lui, ciascuno dovrebbe attingere al proprio senso di responsabilità e tentare dunque di limitare i frequenti input di violenza provenienti dai mass media. Il fatto di proporre simili scene, continuamente, non fa altro che esaltare la fantasia dello spettatore, e lo invita ad annientare la routine quotidiana emulando quelli che lui considera “atti eroici”.
L’incapacità di distinguere tra realtà e finzione, poi, non fa altro che peggiorare tali situazioni. Finché i reality show non cesseranno di mostrare immagini fatte di demenza allo stato puro, senza dichiarare apertamente al pubblico che si tratta in ogni caso di mera finzione e che esistono sempre – e comunque – dei limiti da rispettare, lo spettatore si crederà padrone di fare quello che più lo aggrada. Ma in quel caso non si atterrà a dei limiti; le sue parole d’ordine saranno: nessuna regola, nessun codice di comportamento, nessuna barriera.
Perché purtroppo finché la verità sarà la prima vittima di questo mondo mediatico, che l’ha completamente annullata, lo spettatore non riuscirà a distinguere fra: falsità e verità, giusto e sbagliato, responsabilità e sconsideratezza. Questo discorso vale in generale per tutti, ma in particolare per la neotelevisione, che è stata creata appositamente per proporre anti-cultura e bugie. Contro ciò si sono mosse le associazioni Adoc, Adusbef e Codacons, che hanno annunciato l’intenzione di indire prossimamente uno sciopero generale degli utenti contro la “tv deficiente”, da attuare spegnendo per un’ora i televisori di tutta Italia.
Siamo sinceri, però. La programmazione televisiva è solo un appiglio al quale ci attacchiamo – e che attacchiamo – per giustificare una grave lacuna da parte nostra: la mancanza di una corretta “formazione mediatica”. Al giorno d’oggi bisognerebbe prima di tutto insegnare ad interpretare correttamente i messaggi (a volte subliminali) che la tv e gli altri “trasmettitori” ci inviano continuamente, giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro. E forse, dopo questo primo passo, tutto sembrerà più facile.

5.12.06

Scorci di vita (aforismi, aneddoti e altro ancora)

di Marco Apolloni

Non è facile incontrare dei tipi poetici, tipi beat, tipi selvaggiamente rock & roll come Anaconda. Pur appartenendo ad un’altra generazione, lui non era poi così diverso dagli altri tipi della mia generazione. Del resto tutte le generazioni inseguono le stesse speranze, le stesse illusioni e le stesse vanità. Tutte le volte che ho avuto la fortuna di incontrare persone come lui, con le quali sentivo di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda, allora sì che mi sono sentito un po’ meno solo. In fondo credo abbiamo tutti un unico dovere: quello di farci compagnia a vicenda, avvertendo così un po' meno la dura asprezza di questo mondo, altrimenti fin troppo arido da sopportare. Tanti muscoli uniti a tanti buoni sentimenti facevano di Anaconda un buon diavolo. Per non parlare di quella sua aria tragica e malinconica, tutta squisitamente argentina, che ti trasmetteva al contempo la passione infinita e la struggente bellezza della sua terra ammaliante...
Nei gruppi rock che hanno composto la colonna sonora della mia vita, posti di tutto rispetto li occupano due gruppi che mi ha fatto conoscere lui: The Cult e The White Snake. E di questo gliene sarò sempre grato. Una vita senza musica mancherebbe di quel pizzico di nostalgia indispensabile per ricordarsi i momenti più belli del proprio passato. Poiché chi non riesce a lasciarsi trasportare sulle ali del ricordo - ascoltando della buona musica - è come se non avesse mai vissuto. Infatti, cos'è la vita di un uomo se non uno sterminato disco che va riempito giorno per giorno?
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Sono molto occupato per potermi dire libero.

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La conoscenza è salvezza!

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È il mistero che ci spinge a conoscere e il mistero di tutti i misteri è che non c'è nessun mistero.

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Come si fa a non credere in Dio, dico io, contemplando le sette bellezze di un cielo estivo: c'è da perdersi in tutto quell'azzurro sconfinato.

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Un vero amico loda in segreto e rimprovera in privato.

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Una volta in treno ho incontrato un vecchio. Era pieno di rughe e il fatto che in ognuna delle sue rughe vi fosse impressa la storia della sua vita mi elettrizzò tutto. Lì per lì il mio primo pensiero fu: chissà che razza di vita avrà mai vissuto un uomo di tale tempra. Chissà… So soltanto che mi sembrò proprio quel tipo d’uomo che ne aveva viste tante nel corso della sua turbolenta esistenza. Dietro ad ogni centimetro della sua pelle raggrinzita vi si leggeva qualche risvolto della sua vita. Datemi retta, la prossima volta che vi capiterà d'incrociare il vostro sguardo con quello di un vecchio: provate a leggervi dentro tutta la storia dell'umanità.

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Si muore una volta sola, per fortuna.

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Generalmente, più si è padroni e meno si è signori.

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Non lasciatevi ingannare dal mio cognome: Apolloni... Poiché il mio spirito è tutt'altro che apollineo. In me prevale il dionisiaco.

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Preferisco rivestire l’anima di libri che il corpo d'indumenti.

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Si possono dire molte più cose con un solo bacio che con mille parole.

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La bellezza non ha bisogno di giustificazioni. Qualunque bellezza si giustifica da sé!

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Preferisco il sublime al bello. Che cos’è il sublime, vi domanderete? Beh, il sublime è lo scintillio baluginante delle cose, la perla preziosa che si cela dietro ognuna di esse, quel che ci fa apprezzare l’essenza

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L'artista è colui che riesce a racchiudere il mondo in una scintilla.

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Nietzsche, checché se ne dica, è stato il primo nazista della storia, ancor prima che venisse alla luce il nazismo stesso. Chi vuole andare oltre alla morale stabilita conduce l'uomo verso il baratro della violenza, che è all'ordine del giorno fra le bestie feroci. Siccome noi siamo uomini e non creature ferine, dopo una rilettura più attenta delle opere nietzschiane – andando oltre ad una prima spontanea adesione ad un pensiero, indubbiamente fra i più "esplosivi" mai concepiti – non possiamo non renderci conto che abbiamo bisogno della morale così come della politica, nonostante le limitazioni e gli arbitri da esse perpetrati. Questo per tenere unita la nostra già di per sé frammentata civiltà. Come diceva Kant: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me! Così sia...

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Per spezzare la catena della violenza il solo modo efficace è compiere un’azione sovrumana, reagendo perciò non violentemente alla violenza subita. Dicasi: “resistenza attiva”.

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Non decidiamo noi cosa essere, lo siamo e basta.

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“Tu vuoi mettere insieme il cazzo e il padre nostro, ecco quel che vuoi fare figliolo mio. Tu capisci, non è mica facile...”. Questa è stata la risposta che ha dato un parroco di provincia ad un mio amico, dopo che quest'ultimo gli aveva azzardato un parallelo tra il Partito comunista e la Chiesa cattolica.

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Siamo tutti ribelli nella misura in cui siamo tutti capaci di indignarci.

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I filosofi sono necessari alla stirpe umana, poiché altrimenti tutto sarebbe già svelato e nessuno quindi si prenderebbe più la briga di svelarlo.

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Il miglior metodo è non averne alcuno. Ciò significa fregarsene altamente delle convenzioni, stipulate solo per contenere entro certi limiti quel che è altresì incontenibile: lo spirito… Bisogna distinguere infatti uno scienziato da un creativo – geni, questi, entrambi indispensabili al genere umano –, poiché: se il primo necessita di “un metodo”, il secondo invece necessita di distruggere “il metodo”! L’uno si dà delle regole precise da rispettare, l’altro si dà delle regole altrettanto precise da infrangere.
L’anticonformismo – ossia quell’insofferenza congenita di chi non riesce a farsi vincolare dalle convenzioni – è il tratto distintivo di ciascun creativo. Il creativo, in realtà, deve e vuole andare al di là dei bastioni di Orione e creare mondi verosimili laddove questo mondo non è più sufficiente, in quanto troppo grigio oppure troppo ristretto. Emblematica, a tal proposito, è una scena del film L’attimo fuggente, in cui il professor Keating invita i suoi allievi a stracciare alcune pagine del loro libro di letteratura, scritte da un critico che ha l'assurda pretesa di spiegare l’universo composito della poesia con una serie di diagrammi matematici. Questo a voler dire che: tutto ciò che è poesia, infatti, esula la fredda e asettica ragione...

1.12.06

Commento alla "Lettera agli Ebrei"

di Marco Apolloni
La Lettera agli ebrei – ascrivibile alla tradizione paolina – è uno dei capolavori della letteratura neotestamentaria. Qui viene fatto un magnifico sunto del pensiero cristiano – in generale – e del pensiero paolino – in particolare. I tre punti cruciali che si possono facilmente individuare sono: 1) si ottiene la salvezza per mezzo della fede – e con il concorso della grazia, non già mediante le “opere morte”; 2) Cristo è il fautore di una Nuova Alleanza ben più salda della precedente, perché ancorata su promesse migliori – quali la vita e la beatitudine eterna; 3) i cristiani si considerano stranieri a questo mondo – per questo esistono delle similitudini tra il paolinismo e lo gnosticismo cristiano, vuoi per il disprezzo del corpo e vuoi anche per la svalutazione di questo mondo.
Cristo è innanzitutto (c 3): apostolo e sommo sacerdote, dunque nunzio e custode della fede professata fin dagli antichi padri e profeti d'Israele. Con la sola eccezione però che, a differenza di Mosè stimato a rango di fedele servitore, lui è invece il figlio della casata di Dio. Nel dir ciò, l'autore della lettera ricorre al seguente esempio: il costruttore della casa è superiore al padrone della stessa, in quanto è stato colui che l'ha progettata. Superiore a tutti è Dio (il quale è naturalmente: il Sommo Architetto!). Inoltre, qui viene detto come la casa è costituita da tutti coloro che perseverano nella fede. Di questi ne è stato fulgido esempio Abramo (c 11), il quale credendo ciecamente alla promessa divina si tuffò nell'ignoto, raccogliendone poi il frutto con Abramo, concepito insieme alla moglie Sara e appunto detto: “figlio della promessa”.
Si diceva della salvezza che viene attuata dalla fede – quindi si può dire come questa scenda “dall'alto”, per intercessione della grazia. L'autore della lettera si esprime in questi termini: “[...] È dunque riservato ancora un riposo sabatico per il popolo di Dio. Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch'egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. [...]” (Eb 4, 9-10). Il riposo sabatico che qui viene sotteso altro non è che il riposo di Dio il settimo giorno della sua creazione mondana – episodio questo riportato nella Genesi. Allo stesso modo coloro i quali avranno fede verrano esonerati dalle opere – queste ultime infatti da sole non bastano, la salvezza appunto non può venire procurata “dal basso” senza il requisito indispensabile: la fede stessa. Al Dio onniveggente nulla può sfuggire, egli è Occhio Vivente che tutto scruta e a cui, perciò, è inutile rendere conto, poiché sa scandagliare a fondo i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4, 12- 13).
Agli inizi del c 5 viene introdotta la netta distinzione tra i sacerdoti precedenti e Cristo – sommo sacerdote. Essi erano stati plasmati nell'ignoranza e nell'errore, in quanto rivestiti di debolezza (Eb 5, 2). Qui l'autore usa lo stesso linguaggio gnostico-cristiano, precisamente valentiniano. Infatti nella distinzione valentiniana vi erano tre classi umane: ilici (o somatici, da soma = corpo) i quali costituivano appunto il gradino inferiore della discendenza umana; psichici (classe intermedia, da psiche = anima); pneumatici (da pneuma = spirito). Questa distinzione viene poi ripresa e ampliata nel c 6, dove si legge verso la fine che Gesù viene dalla stirpe di Melchìsedek e quindi sarà anch'egli sommo sacerdote per sempre. Melchìsedek sarà un nome che ricorrerà spesso da qui in avanti, come parallelo per testimoniare il grado di sacerdozio superiore – perché eterno – di Gesù, che sancirà una Nuova Alleanza, infrangendo pertanto la precedente, purtroppo fallace. Inoltre l'autore precisa come persino Abramo pagò la decima a Melchìsedek – designato come “re di giustizia” nonché “re di Salem (che vuol dire: di pace)”. Infatti si era soliti pagare la decima ai ministri del culto per il loro ufficio cultuale. Il gesto di Abramo, dunque, sta a significare il riconoscimento della superiorità di Melchìsedek, il quale viene detto: “[...] Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno. [...]” (Eb 7,3). A tal proposito, l'autore intende ancorare alle antiche scritture, una volta di più, la venuta messianica del Figlio di Dio, come segno della nuova promessa escatologica, ossia: Gesù è venuto sì a lavare i peccati degli uomini, a patto che essi però abbiano fede in lui per essere salvati. Perciò Gesù fa legge a sé – alla maniera di Melchìsedek –, essendo lui il viatico alla nuova legge. Essa sancisce la Nuova Alleanza, che ci delinea la figura di un Dio non più vendicativo – come ci viene raffigurato nelle scritture veterotestamentarie –, bensì misericordioso: disposto a perdonare e a lavare la macchia indelebile del “peccato originale” che, fino al momento dell'estremo sacrificio compiuto da Gesù, pesò come un macigno nell'economia della salvezza umana. Per usare un linguaggio girardiano: Gesù, facendosi crocifiggere e morendo così per redimere gli uomini dai loro peccati, placa una volta per tutte l'immonda spirale della violenza dovuta al sacrificio rituale. Il suo sacrificio infatti, unico e definitivo, interrompe la ritualità dei sacrifici dell'Antica Alleanza, dove i sacerdoti – loro stessi imperfetti e per di più peccatori – cercavano invano di lavare i propri e altrui peccati sacrificando tori e capretti, poiché: “[...] Secondo la legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono. [...]” (Eb 9, 22). In virtù di ciò, la misericordia divina ha maturato il sacrificio catartico, cioè purificatorio, di Gesù. Questi segnò una decisiva linea di demarcazione, ovvero: prima di lui solo disperazione; dopo di lui, invece, solo la speranza di una vita ultraterrena – di gran lunga migliore di quella terrena.
Nel c 11 l'autore usa un'ulteriore immagine gnostica quando afferma: “[...] Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che non si vede. [...]” (Eb 11, 3). Quest'allusione infatti ritiene implicito che vi siano “altri mondi”. Con ciò afferma l'inferiorità di questa creazione mondana che è regno di Satana – il famigerato “angelo caduto” – oppure, secondo le oscure pagine del Vangelo di Giuda (di recente ritrovamento e ascrivibile alla tradizione gnostico-sethiana), frutto della creazione di un dio sanguinario-vendicativo e di un dio stolto, rispettivamente: Yaldaboath (riferimento, questo, non casuale al Dio ebraico: Yaweh) e Saklas. Sempre nel c 11 viene enunciato come i cristiani aspirino ad una patria celeste e perciò essi sono “stranieri e pellegrini sopra la terra” (Eb 11, 13). Seguendo questa linea di pensiero si arriva fino alla formulazione teorica della De civitate dei: opera questa, di un “paolinista radicale”, del calibro di Sant'Agostino, artefice del celebre motto “ama e fa ciò che vuoi”, che ci dà un'interpretazione a dir poco estremizzata del sacro comandamento “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Poi ancora in un altro prezioso passaggio del c 11 si afferma: “[...] Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa. [...]” (Eb 11, 24-26). Questa enunciazione presupporrebbe che l'autore fosse convinto della preesistenza divina di Cristo fin dalla fondazione del mondo – espressione questa che, peraltro, ricorre spesso in questa Lettera agli ebrei – e quindi anche fin dalla Luce della Genesi. In chiusura del c 11 vengono elencate tutte le tribolazioni e i maltrattamenti a cui dovettero soggiacere i paladini della fede dei quali “il mondo non era degno!” (Eb 11, 38). Nei vertiginosi cc finali 11-12 della Lettera l'autore sembra dare il meglio di sé e la retorica qui promanata è molto potente. L'aforisma che meglio racchiude la quintessenza di queste bellissime pagine – così ricche di pathos – è forse il seguente: “[...] Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! [...]” (Eb 13, 8). E così sia!

30.11.06

Paolo Rossi "straparla" di censura

di Silvia Del Beccaro
Milanese d’adozione, Paolo Rossi spazia da trent’anni dai club ai grandi palcoscenici, dal teatro tradizionale al cabaret, dalla televisione al tendone da circo: è caratterizzato dal suo personale modo di “fare spettacolo” che, pur immergendosi appieno nelle tematiche dell’oggi, non prescinde mai dall’insegnamento dei classici antichi e moderni, da Shakespeare a Molière a Bertolt Brecht, alla amatissima Commedia dell'arte.
Recentemente, Paolo Rossi è tornato all’attacco con un nuovo spettacolo, che recupera i migliori brani – scritti con Gino e Michele, David Riondino e Giampiero Solari – di Chiamatemi Kowalski ma che allo stesso tempo propone nuovi testi – frutto della collaborazione con Carolina De La Calle Casanova, Emanuele Dell’Aquila, Carlo Giuseppe Gabardini e Riccardo Pifferi. Il tutto arricchito con fatti di vita vera, in un percorso quasi autobiografico dell’attore. Dunque, a distanza di 18 anni dal successo dello spettacolo Chiamatemi Kowalski, che lo fece conoscere al grande pubblico del teatro italiano, Paolo Rossi presenta, al Teatro Binario 7 di Monza, Chiamatemi Kowalski. Il ritorno.

«Ho voluto riproporre il personaggio di Kowalski nel tentativo di ricostruire questo spettacolo, di cui sono andate perdute le tracce, i video e la memoria – spiega l’attore –. Di fatto, ho recuperato il mio vecchio protagonista, costruendo intorno a lui una storia completamente nuova, anche se non nego che sono presenti anche alcuni brandelli del primo spettacolo, ma che compaiono solo al termine della serata».

Chi è il "Signor Kowalski" e quando è nato questo personaggio?

Altri non è che il mio alter-ego, per cui mi risulta difficile stabilire con esattezza il momento in cui è nato. Diciamo che quando c’è lui non ci sono io, e viceversa. Dovresti riuscire a chiamarmi quando c’è lui e parlargli direttamente.

A quale genere teatrale appartengono le Sue pièce?

Sicuramente a quello comico.

Si considera più un attore o un satirico?

Satirico assolutamente no, anche perché ritengo che la satira sia solo una delle tante tecniche teatrali che si possono utilizzare. Piuttosto mi definirei un racconta-storie.

In un’intervista che Fabio Fazio Le ha rivolto durante la trasmissione “Che tempo che fa”, Lei ha ironizzato sulla definizione “teatro dell’assurdo”, esponendo un breve aneddoto. Può gentilmente ricordarcelo?

Ho semplicemente detto che il termine “assurdo” deriva dall’esclamazione che gli spettatori esprimono al termine di uno spettacolo come “Waiting for Godot”. In pratica, durante la pièce tutti i personaggi sul palco aspettano questo Godot insieme agli spettatori, i quali, a spettacolo concluso, ancora non capiscono chi esso sia ed esclamano: "Ma tutto ciò è assurdo!". Da qui deriva l'espressione “teatro dell’assurdo”.

Scherzi a parte, come definirebbe questo genere teatrale?

Naturalmente ciò che ho detto da Fazio altro non è che uno scherzo, una parodia. Io apprezzo il genere, anche perché l’ho praticato recitando proprio in “Waiting for Godot” di Samuel Beckett. Tuttavia lo ritengo un genere un po’ datato. Nel teatro bisogna sempre tener conto del rapporto tra società attuale e testo, e credo che il teatro dell’assurdo non riesca a soddisfare le esigenze dalla realtà odierna. Potrei però ricredermi...

È mai stato censurato nel corso della Sua carriera lavorativa?

Sono stato censurato periodicamente.

Quali forme di censura esistono secondo Lei?

Ce ne sono di diversi tipi. La più grave, però, è quella che si è concretizzata con i tagli al fondo unico dello spettacolo, che hanno penalizzato tutti gli attori ma in particolare le compagnie minori. Io ho risentito di questa decisione in maniera indiretta, ma fortunatamente ho una grande fetta di pubblico che mi segue assiduamente e sulla quale posso fare affidamento. I più giovani invece ne hanno risentito tantissimo: addirittura, credo che tutto ciò penalizzerà le prossime due o tre generazioni di teatranti.

Personaggi come Guzzanti, Luttazzi o Santoro sono stati prima censurati e poi scacciati dalla televisione… Pensa che la gente senta la loro mancanza e crede che qualcosa cambierà con il nuovo Governo?

Francamente non lo so. In realtà, a causa dell'enorme distacco della classe politica da ciò che avviene nel nostro Paese, stiamo vivendo una situazione paradossale in cui, a seguito di decisioni come la par condicio, noi cittadini siamo costretti a proteggere i politici e non viceversa. Dunque, essendo questa una situazione paradossale non esistono certezze. Di conseguenza vengono a mancare diritti e libertà (come quella d’espressione), irrimediabilmente pregiudicate.

28.11.06

"Crash, contatto fisico"

di Silvia Del Beccaro

Recensire Crash, vincitore di ben tre statuette in occasione dell’ultima notte degli Oscar, non è stato certo un compito semplice. Premiato come miglior film dell’anno, dotato di una sceneggiatura originale e di un montaggio eccezionale, Crash si è meritato in tutto e per tutto la statuetta d’oro. Difficile sintetizzare in poche parole la trama del film. Forse compito ancor più arduo, però, è riuscire a mettere “nero su bianco”, senza dare per scontato e senza banalizzare, il messaggio che il regista-sceneggiatore Paul Haggis ha voluto trasmettere nei suoi 113 minuti di pellicola. È palese che il filo conduttore di questo film è il razzismo: alcuni riferimenti espliciti, alcuni atteggiamenti e fraseggi discriminatori, rendono più semplice la comprensione di questo messaggio. Ma sotto questo aspetto, se ne nasconde uno ancor più profondo.
Crash non è certo un film scontato. Tutto fin dal principio è calcolato nei minimi dettagli. Nulla è lasciato al caso. E così, in un intricarsi di vicende personali, si snoda la morale (secondo una mia libera interpretazione del capolavoro di Haggis), ovvero: le apparenze ingannano. Può sembrare un luogo comune, una frase semplicistica, banale, qualunquista. Ma non è così.
In una società come quella americana, inesorabilmente multietnica, prevalgono ancora troppi pregiudizi nei confronti dell’Altro. In merito a questo argomento, ho letto un interessante libro scritto da un docente universitario nonché critico cinematografico, Gianni Canova. Nel suo lavoro "L'alieno e il pipistrello", Canova affronta il tema dell'alterità attraverso due note figure del cinema contemporaneo: Batman e Alien, protagonisti di due fortunate serie degli anni Novanta. Batman e Alien sono indicati come due figure paradossali dell'esperienza visiva contemporanea, due punti di scambio impossibile fra interno ed esterno: Batman è lo straniero interno, che abita a Gotham City, l'ibrido dalla doppia identità che, se da un lato rassicura l'atmosfera cittadina, dall'altro la turba forse anche più di quanto non facciano i delinquenti. Alien è un estraneo più familiare di quanto possa sembrare, che intrattiene un rapporto equivoco con la giovane astronauta Ripley, sua nemica e sua interlocutrice, è una "minaccia inoffensiva" che solo come tale entra nel cinema commerciale.
Totalmente diversa l'alterità interpretata da Paul Haggis, che mostra il timore nei confronti dell'altro, visto come una minaccia per via del colore della pelle (che differisce dal nostro) e della sua lingua (che ci fa sentire appartenenti ad un altro mondo, apparentemente "migliore", "corretto" e "puro"). È proprio questo timore nei confronti del nostro vicino (nero, rosso, giallo che sia) che ci fa pensare all’altro come al nemico, al cattivo o addirittura al male.
A fronte di tutto ciò, però, nella sua più totale imprevedibilità, Crash dimostra proprio come le apparenze possano ingannare. Chi a prima vista sembrava essere “il buono” si trasforma in un criminale; chi esteriormente poteva presentarsi come “il cattivo” della situazione, invece, si rivela essere un puro-di-cuore. In ogni istante, Crash cattura, rapisce la nostra attenzione, lasciandoci perennemente in uno stato di suspense.
Inizialmente la trama appare intricata, essendo composta da un susseguirsi di vicende personali, che si svolgono contemporaneamente in diversi quartieri della città degli Angeli, ovvero Los Angeles. Una casalinga e il marito procuratore, un iraniano proprietario di un “24hours shop”, due detective di polizia, un regista e sua moglie, un fabbro latinoamericano, due ladri di automobili, una recluta della polizia. una coppia coreana… Tutti personaggi interpretati da un cast d’eccezione: Matt Dillon, Sandra Bullock, Ryan Phillippe, Don Cheadle, Brendan Fraser per citarne alcuni…

22.11.06

I vangeli dell'infanzia

di Marco Apolloni
Il Vangelo di Matteo e il Vangelo di Luca sono gli unici che trattano dell'infanzia del Salvatore. Queste due narrazioni, pur nell'unitarietà del loro intento – cioè: divulgare l'operato terreno di quell'essere ultraterreno quale fu il Cristo, tracciando così la portata escatologica del suo messaggio –, presentano alcune divergenze, in special modo: stilistiche. L'opera di Matteo sembrerebbe essere scritta più sotto il segno dell'antecedente tradizione giudaica – numerosi sono i rimandi testuali all'AT – e per certi versi è anche quella più rigorosa. L'opera altresì di Luca – la cui ispirazione paolina non può che apparire evidente sin dal suo Prologo – si presenta in maniera molto più originale; nel senso che pur essendo come l'altro ricco di dettagli storici – delineanti, appunto, un contesto storico ben preciso – la sua forma narrativa è il dittico, com'era nella tradizione ellenistica – occorre, infatti, ricordare che la lingua con cui è stato redatto questo vangelo è il greco, a differenza dell'altro scritto invece in aramaico.
Diversamente dal pubblicano Matteo – il cui vangelo è rivolto soprattutto ai giudei convertiti al cristianesimo e inizia subito preannunciando l'ascendenza davidica, quindi regale, di Gesù – Luca, medico di Antiochia, comincia la sua narrazione con la promessa, da parte del Signore, del concepimento di Giovanni detto il Battista. Analogo fu l'episodio del concepimento di Isacco – chiamato: “figlio della promessa” –, nato per volontà dell'Onnipotente da Abramo e da sua moglie Sara. Nel caso specifico del Battista, i protagonisti sono il sacerdote Zaccaria e la moglie Elisabetta, parente di Maria – poi madre di Gesù – la quale esclama riconoscente: «Ecco cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini» (Lc 1, 25). Tale castigo divino, la sterilità per l'appunto, viene tolto dal Signore ad Elisabetta proprio per dare alla luce il Battista, ovvero colui che preparerà l'avvento messianico di Cristo fra i fedeli, avvertendoli di agire rettamente secondo i nobili principi di giustizia e carità (c 3): poiché le porte del “regno dei cieli” non vengono precluse a nessuno, purché ciascuno adempia al volere divino e si renda rispettoso della Legge. Qui emerge di nuovo la stretta consonanza con il messaggio egalitario e universalistico della dottrina dell'apostolo Paolo, di cui Luca è un devoto discepolo.
Parallelamente alla nascita di Giovanni, Luca porta avanti la narrazione di quella del Messia. Appena nato, questi viene deposto “in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo” (2,7) – il bue e l'asinello verranno surrettiziamente introdotti da una pia leggenda. Tutto ciò per dare maggiore risalto alle misere condizioni in cui è stato dato alla luce il Re degli uomini! Luca si lascia più volte trasportare durante la narrazione dal “lieto annunzio” (1, 19) oppure dalla “buona novella” (3, 18) racchiusa dalla provvidenziale venuta del Messia. Egli restituisce con appassionate parole la straordinaria figura del suo Maestro venuto ad impartire, all'intera compagine umana, insegnamenti d'indubitabile fratellanza universale!
Gesù nasce a Betlemme, in questo piccolo capoluogo della Giudea, adempiendo così a quanto è stato detto dal profeta Michea (Mi 5,1). Tant'è vero che la citazione del profeta viene riportata da Matteo (2, 6). Costui nel suo vangelo si sofferma maggiormente sull'episodio dei magi accorsi a glorificare il nascituro, guidati nel loro periglioso viaggio dall'oriente – luogo da dove provenivano – dalla scia luminosa di una fantomatica stella. Essi, informati in sogno, non solo non riferirono a re Erode dell'avvenuta nascita del Redentore, ma oltretutto ritornarono in segreto nel loro paese natio (2, 12). Una particolare notazione da fare è che, come nell'AT, anche nel NT il volere divino viene spesso e volentieri comunicato mediante l'esperienza estatica dei sogni. Nel Vangelo di Matteo, ad esempio, Giuseppe viene avvertito in sogno che dal grembo di Maria sta per nascere un bambino prodigio – in base a questa rivelazione lui non ripudierà la sua compagna (1, 24). Il racconto di Matteo poi prosegue con il truce episodio della strage degli innocenti, avvenuta in Egitto e ordinata da re Erode, infuriatosi per l'inganno in cui venne tratto dai magi. Tale episodio si richiama implicitamente a quanto avvenne dopo la nascita di Mosè, quando il faraone – come Erode – ordinò di sterminare i bambini neonati. Esso assume una precisa funzione simbolica in Matteo, che vuole creare un metro di paragone – per i giudei convertiti al cristianesimo – tra: gli avvenimenti della vita di Mosè e quelli della vita di Cristo. Quest'ultimo, infatti, compirà la legge mosaica con la sua venuta, preannunciata dai profeti. Giuseppe viene avvertito ancora una volta in sogno e perciò si sposta con la famiglia a Nàzaret, adempiendo pure stavolta a quanto era stato già profetizzato sul conto del nascituro: «Sarà chiamato Nazareno». In definitiva, la venuta di Gesù sta ad indicare per Matteo l'adempimento delle scritture e a dimostrazione di ciò lui cita alla lettera il profeta Isaia (7, 14): “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa: Dio con noi” (Mt 1, 23).
Merita una particolare menzione l'episodio narrato da Luca (2, 46-50), in cui il fanciullo Gesù si trova a disquisire coi dottori nel tempio, rimasti meravigliati dall'acutezza delle sue domande e delle sue risposte. Ad un certo punto sua madre, dopo averlo a lungo ricercato insieme al compagno Giuseppe, se lo ritrova davanti in quel luogo: il tempio appunto – piuttosto impensabile se si pensa all'allora dodicenne Gesù. Quindi Maria domanda al figlio: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Questi con una penetrazione d'animo disarmante le risponde, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Le sue enigmatiche parole rimasero perlopiù incomprese, anche se oggi, ripensate col senno di poi, non possono che apparire per quel che sono, vale a dire: fin troppo premonitrici...
Infine, analizzando accuratamente la genealogia di Gesù, riportata sia da Matteo che da Luca, appare chiaro ed evidente che: per l'uno il Messia è il “figlio d'Israele” – discendente della stirpe di re Davide –, per l'altro invece è il “figlio dell'Uomo” – discendente diretto di Abramo, il primo uomo posto da Dio sulla terra. Ad ogni modo però entrambi, elencando la discendenza del Salvatore, hanno avuto un intento comune, ovvero quello di fondare la venuta messianica di Cristo come cifra assoluta delle profezie degli antichi profeti!

12.11.06

L'autenticità della seconda lettera ai Tessalonicesi

di Marco Apolloni
Facendo una debita comparazione stilistica e contenutistica tra la prima e la seconda lettera ai Tessalonicesi, sembrerebbe che l'autore sia lo stesso, nonostante il mare di dubbi sollevato in proposito. Le tematiche qui affrontate, infatti, sono troppo simili. Nella prima lettera l'apostolo Paolo formula l'ipotesi di un'imminente Parusia o Seconda Venuta del Cristo, il quale verrà a giudicare i vivi e i morti. Da ciò scaturirà il Giorno del Giudizio che apparirà come un fulmine a ciel sereno per tutti quelli che non credono, o per usare le sue stesse parole come un “ladro di notte”. Per questo lui invita i fedeli di Tessalonica ad essere vigilanti nel sonno e pronti a quel giorno risolutivo, che frutterà loro la salvezza tanto agognata per chi ha fede in Cristo. Mentre nella seconda lettera l'apostolo si preoccupa per l'atteggiamento di alcuni fedeli che, aspettandosi da un momento all'altro l'immediato ricongiungimento con il Padre celeste, si danno ad un'oziosità irrequieta – altrimenti detta pusillanimità – attendendo il fatidico Giorno del Giudizio. Giorno questo che verrà senz'altro, fa capire Paolo nella seconda lettera, ma che dovrà essere atteso nell'operosità quotidiana, poiché appunto l'ozio viene considerato nemico dello spirito, dell'anima e del corpo. Tre componenti queste che divengono un tutt'uno inscindibile, secondo l'ottica paolina ma più in generale secondo l'ottica cristiana stessa. Nella seconda e più discussa lettera viene anche illustrata, pur non facendone alcuna menzione esplicita, la figura dell'Anticristo come segnale inconfondibile del sopraggiungente secondo avvento messianico del Cristo, che annienterà il nunzio di Satana – o Satana stesso, non si capisce con precisione – e condannerà eternamente tutti coloro che si sono lasciati ingannare dalla menzogna satanica. Tutto questo per incitare alla perseveranza i fedeli “scelti come primizia per la salvezza”, poiché difatti “non di tutti è la fede” ma solo di coloro che crederanno nel Cristo vivente.
L'unico indizio che può in qualche modo farci dubitare dell'autenticità della seconda lettera può essere l'eccessiva premura con cui Paolo fa sapere che è stata scritta di suo pugno. D'altronde, però, a pensarci bene l'apostolo scrive questa lettera per distogliere i credenti della comunità di Tessalonica dal depistaggio attuato da taluni, che darebbero appunto per imminente la resa dei conti finale. Motivo che giustifica l'agitazione di molti fedeli, che s'interrogano su che senso abbia allora perseverare in un incessante operosità quotidiana se la Fine dei tempi è ormai prossima. In tal caso potrebbe sembrare più che plausibile la premura con cui l'apostolo attesta la paternità della lettera, per paura di risultare alla stessa stregua di molti altri falsificatori, i quali coi loro fasulli scritti sviarono diversi credenti. Ad ogni modo, pur facendo delle fantasiose ipotesi, risulta evidente l'impronta paolina del testo, comunque ascrivibile alla tradizione dell'apostolo, se non altro per le tematiche ivi affrontate. Occorre non dimenticarsi, inoltre, del fertile humus culturale da cui Paolo proveniva, ossia dalla tradizione messianica ebraica. Paolo fu innanzitutto un gran mistico, prova ne fu la sua misteriosa folgorazione sulla via di Damasco. Sicché da persecutore dei cristiani questi divenne l'evangelizzatore prescelto. A lui, prima che a ogni altro, dobbiamo l'opera di evangelizzazione che comportò la diffusione a macchia d'olio del cristianesimo, grazie ai suoi innumerevoli viaggi fino al cuore dell'Impero – cioè Roma. Qui lui innescò la miccia che poi avrebbe fatto auto-implodere l'Impero stesso, già minato al suo interno da vizi inverecondi e dalla mollezza dei suoi costumi – per dirlo con Rousseau. Lo spiccato universalismo della religione cristiana fu proprio ciò che sconvolse maggiormente i romani, abituati com'erano alle singole religioni di ciascun popolo conquistato. Mentre la scelta dei cristiani – non facilmente allineabili tra le fila di un popolo delimitato –, che predicavano ovunque i principi della loro religione, risultò essere tanto più una minaccia concreta per l'Impero romano. Oltretutto la Storia c'insegna che se ci sono persone da temere di più quelle sono senza dubbio: coloro che non hanno niente da perdere. E tali furono i cristiani, che non considerandosi creature mondane – cioè non di questo mondo – già se ne chiamarono al di fuori. Secondo costoro questa vita terrena era solo il viatico per conquistarsi la maggior gloria di una vita ultra-terrena. Dunque si capisce bene come per costoro il vivere e il non-vivere su questa terra apparisse come una questione del tutto superflua e sicuramente non decisiva. Ecco perché molti di loro preferirono farsi sbranare dai leoni nelle arene romane, piuttosto che rinnegare apertamente il loro Dio iper-cosmico. Nel Vangelo di Filippo – scritto gnostico pervenutoci nel corpus ritrovato casualmente a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945 – vi è un magnifico brano che attesta la potenza deflagrante costituita dai cristiani, e cioè:

[...] Se dici: «Sono ebreo», nessuno si commuove; se dici: «Sono romano», nessuno trema; se dici: «Sono greco, barbaro, schiavo, libero», nessuno si agita. Se dici: «Sono cristiano», trema il mondo. Riceva io questo segno che gli arconti non possono sopportare, allorché odono il suo nome [...]

9.11.06

Paolo: un ebreo illuminato

di Marco Apolloni

Negli Atti degli apostoli (capitolo 10) si racconta la conversione del centurione Cornelio, “uomo pio e timorato di Dio” (10,2), a cui per volontà del Padreterno – e contrariamente ai rigidi precetti della legge mosaica – viene concesso il privilegio del battesimo, seppure egli sia un pagano e non un circonciso. L'episodio ha una funzione simbolica ben precisa, ossia delinea già le mire universaliste della religione cristiana che vuole prefigurarsi come culto, rivolto a tutti coloro i quali ripongono le loro speranze salvifiche in Cristo! Come si suol dire, in simili casi, Paolo tiene il piede in due staffe, e cioè: pur nascendo ebreo, egli fu anche cittadino romano – fatto dovuto, secondo le fonti storiche a nostra disposizione, al ruolo importante svolto dalla sua famiglia come appaltatrice di tende per l'esercito romano. Se si pensa, quindi, che il ruolo di evangelizzare i pagani venne affidato ad un pagano stesso, ecco che il disegno divino non può che apparirci di una logica inoppugnabile, ossia: chi meglio Paolo poteva convertire i pagani, lui intellettuale di prim'ordine oltre che fine conoscitore della cultura ellenica – non solo scriveva in greco, ma pensava pure con la stessa sottigliezza di un greco. Dunque, appare evidente come il solo uomo-ponte che poteva edificare un terreno fertile d'incontro tra due civiltà, quella ebraica e quella greco-romana – da sempre in perenne scontro fra di loro –, poteva essere solo lui. Paolo, per le succitate ragioni, cominciò così quell'opera minatoria che avrebbe poi portato secoli dopo a ribaltare le fondamenta dell'Impero romano, facendo pertanto del cristianesimo: inizialmente una religione bandita, successivamente una religione dominante.
L'episodio del centurione ci porta così alla controversia di Antiochia (capitolo 15) in cui Paolo si fa portavoce del diritto alla salvezza dei pagani che credono in Cristo. L'argomento all'ordine del giorno – poi mirabilmente ripreso in alcuni passaggi della Lettera ai romani – è quello della giustificazione della salvezza per mezzo della fede nel Salvatore, contrapposta invece alla giustificazione per mezzo delle opere. Qui si produce una netta spaccatura rispetto alle strette osservanze della legge mosaica, che viene appunto minimizzata da Paolo finanche subordinata alla venuta del Cristo, banditore della stessa legge oramai superata. In sostanza, Cristo si fa legge a sé! Il fatto che i pagani non fossero circoncisi nella carne – anche se nulla vieta che lo fossero nel cuore – appare del tutto insussistente per l'apostolo. Si può dire che Paolo, in questo senso, sia nemico di ogni culto puramente esteriore e che il suo spirito ardente confidi esclusivamente sulla fede verace dei cuori. Se quella cristiana, non a caso, è ritenuta una delle religioni più liberali nonché meno vincolanti, gran parte del merito lo dobbiamo all'operazione di sganciamento dell'apostolo nei confronti della precedente tradizione ebraica. In definitiva, Paolo pone l'accento sugli aspetti concernenti la fede in Cristo nell'assolvimento del piano soteriologico, ridimensionando nettamente la legge. Un po' come se lui incitasse i fedeli a ribellarsi ad una legge decaduta, dopo l'avvento messianico del Cristo. Emerge così tumultuosa tutta la portata innovativa e – per ciò stesso – rivoluzionaria del messaggio paolino. Il kerygma, la predicazione di Paolo è tutta ammantata da una Luce nuova e rigenerante: Cristo!
Nei capitoli 9, 10, 11 della Lettera ai Romani Paolo mette in guardia il popolo “eletto” ebraico nel credersi erroneamente fin troppo intoccabile dalla giustizia divina, che altresì non fa sconti a nessuno. I piani dell'Onnipotente, infatti, sono imperscrutabili per tutti, perciò occorre riporre in essi una fiducia totale. Come vi è stato dato, può anche darsi che vi sarà tolto; questo, in soldoni, è il preciso monito che egli fa al suo popolo, che rischia di smarrire la via. L'apostolo ritiene una grave ottusità: quella di non riconoscere la grazia concessa da Dio ai pagani, che possono – come ogni altro – beneficiare della salvezza in Cristo. Conta un'unica cosa: credere. Tutto il resto è vacuità!
Nella Lettera ai Galati vi si trovano gli stessi temi. Qui Paolo dice: “Mediante la legge, io sono morto alla legge” (Gal 2, 19). Più avanti ci viene delineata la figura di Cristo come colui che disgrega la legge e apporta nuovi valori. Infatti “se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano”. Lui non è venuto in mezzo a noi per ristabilire la legge, semmai per porvi fine e rimettere tutto in discussione, capovolgendo una morale proibizionista. Le catene dell'obbligo e della costrizione non hanno mai apportato alcun giovamento all'agire umano. Con il divieto non si ottiene nulla, se non l'effetto contrario: la trasgressione. Ammesso si possa parlare di legge per Cristo, questa è senz'altro la Legge dello Spirito! Mosè non ha fatto altro che preparare il terreno all'avvento di Cristo, il cui compito non è stato tanto quello di legiferare quanto indicare la retta via da seguire. Nel Vangelo di Maria – testo gnostico rinvenuto a Nag Hammadi, in Egitto, nel '46 – si riporta il seguente insegnamento del Maestro:

[...] Andate, dunque, e predicate il Vangelo del Regno. Non ho emanato alcun precetto all’infuori di quello che vi ho stabilito. Né vi ho dato alcuna legge come un legislatore, affinché non avvenga che siate da essa costretti. [...]

Il solo precetto irrinunciabile è “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Tutto il resto vien da sé! L'interpretazione estrema di questo precetto ci viene data da Sant'Agostino – paolino fino alla radice nonché altro “folgorato”, per così dire – il quale ha adottato come regola di condotta morale questa potente massima: “Ama e fa ciò che vuoi!”.
Sempre nella summenzionata lettera paolina alla comunità di Galazia, l'apostolo riporta che l'eredità non è ottenuta mediante la legge, bensì grazie alla promessa originaria che tutto trascende. Fino all'avvento di Cristo, la legge mosaica ha svolto il ruolo come “pedagogo” del popolo; poi però essa ha cessato automaticamente il suo regolare corso. Per Paolo occorre recidere il cordone ombelicale con la legge, poiché per salvarsi è sufficiente avere fede in Cristo. Grazie a ciò il cristianesimo si pone come alternativa religiosa all'ebraismo, circoscritto ad un solo popolo, poiché nella visione universalistica cristiana – per usare le parole di Paolo: “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).
Nei suoi scritti l'apostolo si rifà spesso a diversi episodi dell'Antico Testamento per rendere più convincenti e rafforzare i propri esempi. Come quando per discernere la funzione della legge e quella invece della fede, riporta l'esempio di Abramo il quale, proprio quando non ci sperava più, ottenne due figli: uno dalla schiava Agar, Ismaele, frutto della carne e della legge, che simboleggia la Gerusalemme terrena, cioè soggetta agli “elementi del mondo”; l'altro dalla moglie Sara, Isacco, frutto della promessa e della fede nella Parusia o Seconda Venuta del Cristo, simboleggiante invece la Gerusalemme celeste, dell'escatologia finale. In definitiva, si può dire che: chi vive nello Spirito, cammini anche secondo lo Spirito (Gal 5, 19), cosicché non inciampi nei desideri e nelle passioni biecamente carnali.
Paolo fu davvero un ebreo illuminato, sui generis, e passò come una folata di vento tra la sua gente, creando consensi ma anche dissensi – come spesso capita ai pensatori radicali come lui –, pur senza nulla togliere al ruolo cruciale da lui svolto per l'affermazione dell'intera cristianità. La sua figura infatti, all'interno della galassia cristiana, fu seconda solo a quella del suo Maestro-fondatore: Gesù Cristo!

7.11.06

Lo sfruttamento nei centri commerciali

di Silvia Del Beccaro
Correva l’anno 2001. Era il mese di settembre e Morgana (per motivi di privacy la chiameremo con questo nome) entrava a far parte del team di un grosso centro commerciale brugherese. “Sono contenta di aver dato una buona impressione – dichiara in una testimonianza, pubblicata sul sito www.vivereacomo.com – e che il fatto di avere trentasette anni non abbia precluso il mio rientro nel mondo lavorativo. Mi assumono… Evviva!”. Morgana stentava a crederci. La sua felicità era immensa, ma non sapeva che da quel momento in poi la sua vita avrebbe preso una brutta piega. Sarebbe stata costretta a lavorare ore e ore in cassa in piedi, senza nemmeno uno sgabello su cui sedersi; avrebbe dovuto affrontare “casse di punizioni”, più precisamente la “cassa 35” dove il lavoratore è costretto a guardare ininterrottamente il muro; sarebbe stata obbligata a presenziare in orari straordinari indotti. “Sono stata assunta con un contratto part-time in apprendistato e dopo un mese sono stata licenziata. Il loro motivo? Non ero adatta a quel tipo di lavoro”. Assunta in panetteria, Morgana svolgeva mansioni di diverso genere: dalle pulizie alle casse. Ha lavorato per un mese facendo un totale di 196 ore, con turni giornalieri anche di dieci ore. “Senza contare la loro fissazione di timbrare il cartellino quattordici minuti prima di iniziare e quattordici minuti dopo aver finito” aggiunge. Morgana è stata licenziata direttamente dai responsabili del centro commerciale, per cui non ha subito gravi forme di terrorismo psicologico. Viceversa, coloro che hanno manifestato l’intenzione di dimettersi, hanno subito alcune ritorsioni. “Ricordo un ragazzo che da responsabile venne declassato e si trovò a lavorare nel reparto ortofrutticolo e poi in cassa. Lo sballottavano da una parte all’altra, dopo averlo umiliato e trattato come un idiota. Ho visto anche delle colleghe che pulivano in ginocchio le basi delle casse, nonostante l’ipermercato fosse aperto. Poi quando si formavano le code dei carrelli, pieni di spesa, venivano richiamate in cassa così come si trovavano, con camici rossi sporchi e mani nere. Sudate e imbarazzate, riprendevano così il loro lavoro”. Ma non c’è da stupirsi. Le condizioni di sfruttamento nei centri commerciali sono ben note ai sindacati, i quali ancora oggi, nel 2006, faticano ad operare in posti simili. “Quello delle catene alimentari è un settore disgraziato – spiega Domenico Guerriero, segretario Ficams Cgil Brianza – perché vige un clima di terrore perenne. Le persone hanno paura, vivono aggrappate al loro lavoro e temono che rivolgendosi a noi possano subire delle ripercussioni da parte dei loro capi”. Basti pensare che la recente conquista epica dei sindacati, nei confronti di alcuni centri commerciali, è consistita nell’ottenere uno sgabello per le cassiere, su cui sedersi durante i turni lavorativi. “Figuriamoci se dovessimo incontrarci per una contrattazione di secondo livello – afferma ironicamente Guerriero –. Il fatto è che sono pochi quelli che si iscrivono ai sindacati. Si tratta per lo più di mosche bianche che oltretutto, per paura di farsi scoprire, non si presentano neppure alle assemblee da loro richieste”. Anche Morgana, nel suo piccolo, ha tentato di ribellarsi a questa situazione, facendo addirittura causa al centro commerciale. Le due parti si sono incontrate in tribunale, dove ovviamente i responsabili del centro hanno negato tutto. “I cartellini timbrati erano spariti per magia, andati persi” confessa Morgana. “Sono avvilita per il modo in cui riescono a prendersi gioco della giustizia. E nessuno può farci nulla”. Stando alle sue parole, i suoi ex capi le avrebbero proposto mille euro per mettere tutto a tacere, ma lei ha rifiutato. La sua speranza ora è quella di riuscire a trovare dei testimoni per denunciare la situazione; ma a detta sua è una missione impossibile, perché nessun dipendente andrebbe apertamente contro il proprio datore di lavoro.

31.10.06

Il “cortocircuito” della democrazia

di Marco Apolloni
Vi siete mai domandati come sono distribuite le democrazie nel nostro globo terracqueo? Io ultimamente sì e da studioso di “scienze umane” ho formulato anche una mia personale teoria al riguardo. La democrazia di certi paesi dipende solo ed esclusivamente dalle diverse condizioni climatiche che in essi si possono trovare. A seconda delle latitudini o longitudini un popolo è più o meno predisposto ad un certo tipo di governo. Solitamente nei paesi dove il clima è più esasperante – o fa troppo caldo o fa troppo freddo – il regime di governo meglio consolidato è quello dittatoriale. Difatti in questi paesi la popolazione indigena è assai più preoccupata a resistere a certe “intemperie climatiche” piuttosto che ai loro “intemperanti governanti”. Perciò ecco qua che in questi posti si sviluppa una circoscritta oligarchia, in cui sono solo in pochi a godere di un certo grado di benessere. Mentre il popolo – concetto tanto astratto, quanto difficile da delimitare – viene ripetutamente strumentalizzato e vessato nel peggiore dei modi. La caratteristica principale di ogni sana democrazia è che può “essere partecipata” dall’intera popolazione di un determinato paese. Solitamente essa, per maggior efficacia, è di tipo rappresentativo. Lo strumento democratico per antonomasia – di vitale importanza per il buon funzionamento di qualsiasi sistema politico – è il voto mediante il quale si esprimono le proprie preferenze e si scelgono i propri rappresentanti. Ovviamente l’esercizio di tale strumento resta in ogni caso condizionato da alcuni fattori esterni, ovvero si è costretti a scegliere tra una griglia ristretta di candidati, i quali necessariamente non saranno delle “prime scelte”, però quanto meno saranno scelti in base ad un ampio campione rappresentativo della popolazione.
Prendiamo alcuni esempi più luminosi in cui gli ingranaggi democratici sembrano funzionare alla perfezione, ovvero i paesi nordici e fra questi quello tenuto da tutti in più gran conto: la Svezia. Qui, stranamente, tutti sono abituati a pagare più tasse per avere dei servizi migliori. Il welfare, o “stato sociale”, funziona a meraviglia! Da noi, ad esempio, diversamente le tasse sono viste da tutti come un autentico “spauracchio”. Tant’è che, ogni qual volta andiamo a votare, gli indecisi di turno scelgono quasi sempre il candidato premier che gli promette “meno tasse per tutti”. Poco importa se ciascuno nel proprio piccolo le ri-paghi dieci volte tanto in mille altri modi, tanto il popolino è ben lieto che lo Stato gli abbia abbassato le tasse, anche se magari ha tagliato fondi a: ospedali, asili nido, scuole, università (e chi più ne ha più ne metta). Ciò è dovuto, principalmente, all’ignoranza predominante della gran parte della nostra popolazione. Al contrario di noi, dove i libri vengono visti come “entità astratte” visto il clima ideale, la Svezia detiene invece il primato di “popolo che legge di più al mondo”. Anche dietro a questo dato, le ragioni andrebbero ricercate nel clima nordico, dove le giornate sono più brevi e dunque le ore di tenebra sono maggiori di quelle di luce. Perciò esse ispirano maggiormente lunghe letture in casa, magari riscaldati davanti al proprio crepitante caminetto.
Un altro dato, questa volta ben più allarmante, è che in Finlandia si riscontrano più suicidi che in ogni altro angolo della terra. E questo perché il clima locale incute una certa innegabile depressione. In paesi come il Brasile o Cuba, invece, la gente del posto ha in sé il “gene dell’allegria” e non potrebbe essere altrimenti con un clima come il loro, dove il Sole non dico che splende tutto l’anno ma poco ci manca. Infine nell’Africa cosiddetta “nera”, la popolazione si scanna perennemente in sanguinose guerre fratricide. Lo credo bene… Il loro territorio arido è povero e manca della più inestimabile delle risorse, cioè: l’acqua. E allora mi chiedo, come si può impedire il proliferare di dittature “militari” in un simile contesto, dove non c’è democrazia perché, prima di tutto, non c’è conoscenza: la sola capace di rendere le persone davvero libere. A questo proposito, credo che le nostre evolute democrazie occidentali debbano occuparsi con maggiore serietà e presa di coscienza della drammatica situazione in cui versano i paesi del Terzo Mondo. Dunque io ritengo che essere “terzomondisti” sia per noi una scelta obbligata, anche perché loro fanno figli, mentre noi abbiamo da tempo smesso di farli. Quello che ne conseguirà, con il passare degli anni, sarà che loro diventeranno sempre più numerosi mentre noi, invece, saremo sempre meno. Pertanto presto o tardi c’invaderanno – dato il loro esponenziale aumento. Ecco qui, che persino i più ostinati fra noi si dovranno rendere conto della dura e incontrovertibile “realtà delle cifre”, che temo – prima o poi – finirà per schiacciare la nostra arroganza tutta occidentale! Il Terzo Mondo ci riguarda tutti da vicino, anche perché andando avanti forse esso emigrerà da noi…

27.10.06

"How to dismantle an atomic bomb" degli U2

di Paolo Musano

Non è facile scrivere di ciò che si ama, perché, come ben sanno i buddhisti, si rischia di distruggerla, oppure la paura che cambino i nostri rapporti con essa ci può paralizzare. Ma io ci proverò lo stesso. Gli U2 sono la colonna sonora della mia vita. Sono cresciuto con loro e, come ogni fan della mia generazione, molte parti della mia biografia sono associate alle loro canzoni. Ho passato una fase adolescenziale in cui Bono era il mio mito. Mi vestivo come lui, compravo gli stessi occhiali e sognavo di diventare una rockstar. Adesso lo ammiro come artista e come uomo. È incredibile quello che è riuscito a fare (e sta facendo) per l’Africa, con le campagne umanitarie di cui si è fatto promotore. I critici maligni dicono che da quando è così impegnato politicamente, passa sempre meno tempo con il gruppo e la musica degli U2 ne risente. Io non sono di questo avviso, ma devo ammettere che, dopo “All that you can’t leave behind” (un album che alcuni considerano melenso, ma che per me è pieno di melodie straordinarie), sono rimasto un po’ deluso. Forse è sbagliato aspettarsi, dopo venticinque anni di gloriosa carriera, un album come “Achtung baby” (il tempo passa per tutti e lo showbusiness è una morsa spietata), ma sebbene ci siano pezzi notevoli, non sono queste canzoni che mandi a memoria e che ti restano impresse.

“How to dismantle an atomic bomb” (Come smontare una bomba atomica) è un bel titolo che è stato suggerito loro da un pittore. È una provocazione, ma vuole essere anche una domanda. La risposta che ha dato Bono in un’intervista è: «With Love.» (Con l’Amore). La miracle drug che è una merce sempre più rara di questi tempi e che tutti cercano chissà dove, quando, come nella storiella zen, basterebbe guardarsi dentro, essere un po’ più consapevoli.
I testi di Bono sono, naturalmente, influenzati dalla politica (come “Crumbs from your table” [Briciole dal tuo tavolo], una metafora che si riferisce all’America: basterebbero le sue briciole per cambiare drasticamente la situazione nel continente africano; probabilmente le ‘briciole’ non sono semplicemente i soldi, ma anche il know-how, la tecnologia e la consapevolezza), ma sono anche molto intimi (come “Sometimes you can’t make it on your own” [A volte non ce la fai da solo], una ballata molto dolce dedicata a Bob Hewson (il padre di Bono) [a cui è dedicato, tra l’altro, l’intero album]).
Le canzoni che rimangono, dopo un ascolto più meditato, sono “City of the blinding lights” (un pezzo che sembra riassumere l’intera carriera degli U2. È una canzone che fa pensare a New York, ma anche a una ragazza misteriosa e bellissima, intravista nella strada di una metropoli. Il ritornello trascinante dice: «Oh, you look so beautiful, / tonight, / in the city of blinding lights» [Oh, sei così bella, stasera, nella città dalle luci accecanti]) e “Sometimes you can’t make it on your own”.
Nelle altre tracce ci sono, volontarie o involontarie, citazioni dei vecchi successi della band. Questo, forse, ne condiziona l’ascolto e fa sembrare alcune canzoni, a tratti, poco spontanee ed eccessivamente filtrate dal lavoro in studio, sebbene Bono raggiunga punte espressive molto alte, come in “A man and a woman”.
C’è da dire che gli U2 sono una di quelle rockband che rende al massimo nei live, e che ci ha abituati a sempre nuovi arrangiamenti nei suoi concerti. E’ questo uno dei punti di forza del gruppo. Perciò un giudizio obiettivo dell’album non può prescindere dall’ascolto della versione live dei singoli pezzi. Effettivamente, “Yahweh” e “Original of the species” (due tracce che mi erano piaciute poco) nello splendido “Vertigo 2005 / U2 live from Chicago” fanno la loro figura, tant’è che le ho rivalutate.

Considerato quello che c’è in giro oggi, “How to dismantle an atomic bomb” è un album con un livello artistico mediamente alto. Finora, e non credo di parlare da fan, gli U2 non hanno pubblicato album brutti, hanno cercato sempre di mettersi in discussione. Ricordo che quando uscì “Pop” molta gente si scandalizzò, dicendo che le canzoni erano indecenti, salvo, a distanza di anni, ricredersi e affermare tutto l’opposto. Stesso discorso per “Achtung baby” (il loro capolavoro, da molti fan considerato un vero e proprio tradimento). Per me, Bono e i suoi amici sono dei grandi artisti, ma sono anche degli uomini molto intelligenti. In ragione di questo, a meno che non abbiano venduto l’anima al diavolo da un pezzo (ricordate Mr. McPhisto, vero?), ci possiamo aspettare ancora grandi cose da loro. Non sono ancora dei vecchietti e delle caricature di loro stessi come i Rolling Stones, per fortuna. Certo, la voce di Bono non è più quella di una volta (in un’intervista a Rolling Stone ha dichiarato che tutto è cambiato dopo un intervento alla gola; di sicuro però non gli avranno fatto bene neanche tutto l’alcol e il fumo consumati negli anni ’90), ma sebbene non possa più gridare come ai tempi di “War” e “Unforgettable Fire”, è comunque molto più espressiva di prima. Bono è un soul-singer per le emozioni che riesce a trasmettere. Nessuno riesce a commuovermi come lui, anche adesso, quando intona ballate gospel come “Stuck in a moment you can’t get out of it”. A proposito, a quando un disco solista, Bono? Perché non seguire l’esempio di Thom Yorke dei Radiohead, e dopo organizzare una manciata di date in teatri selezionati? (Provocazione? ;)) Fino a un certo punto…)

23.10.06

Emergenze dimenticate: Roberto Bolle ci parla del Sudan

di Silvia Del Beccaro
Da decenni il Sudan vive una situazione di continui conflitti. In Darfur, una regione grande quasi due volte l'Italia e formata dai tre Stati (il Darfur Settentrionale, Occidentale e Meridionale), si sta consumando una grave crisi umanitaria che costituisce solo l'ultima variante di una guerra civile che si protrae quasi senza sosta dall'Indipendenza, ottenuta dall'amministrazione coloniale anglo-egiziana nel 1956.
L'origine del conflitto risale alle profonde disuguaglianze lasciate in eredità dall'amministrazione coloniale, con una concentrazione di risorse economiche e poteri decisionali nel nord arabo a scapito del sud abitato da popolazioni africane. Oggi, mentre il decennale conflitto tra nord e sud sembra giunto a conclusione dopo la firma nel 2005 di un accordo di pace tra il Governo sudanese e il Sudan People's Liberation Army (il principale gruppo ribelle del Sud Sudan), il timore di una spartizione esclusiva del potere tra queste due forze sembra acutizzare le violenze nel Darfur.
Le origini del conflitto nella provincia occidentale del Darfur vanno infatti ricercate nel riassetto di poteri scaturito dal processo di pace tra nord e sud da cui il Darfur è rimasto sostanzialmente escluso, in un contesto in cui si inseriscono le tradizionali tensioni interetniche tra popolazioni africane stanziali e popolazioni di cammellieri nomadi d'origine araba, in un ambito di risorse idriche e agricole profondamente scarse. Il lungo conflitto tra nord e sud del paese e quello in Darfur hanno causato un massiccio sfollamento di civili, la distruzione delle infrastrutture di base e l'erosione dei meccanismi di sussistenza della popolazione, oltre a una grave e diffusa violazione dei diritti umani.
Gli sfollati sono più di 4 milioni, altre decine di migliaia stanno facendo ritorno verso le proprie terre d'origine nel sud del paese; tutti necessitano assistenza umanitaria immediata.
Allo stato attuale, se l'accordo di pace tra nord e sud offre un'opportunità storica per imprimere una svolta alla gravissima condizione di donne e bambini nel Sudan meridionale, in Darfur la fragile tregua siglata all'inizio del 2005 ha subìto numerosi colpi, con guerra e mancanza di condizioni minime di sicurezza che restano all'origine di una crisi umanitaria che coinvolge direttamente un milione e 400 mila bambini, mentre un altro milione e mezzo vivono isolati in comunità rurali completamente tagliate fuori dagli interventi umanitari, e soffrono di malnutrizione, malattie e violenze.
Nonostante l'accordo di pace, in Sudan la salute e il benessere di donne e bambini non sono, nell'ultimo anno, migliorati.
Un'indagine campione sui servizi d'assistenza ostetrica d'emergenza effettuata nel sud Sudan indica che il tasso di mortalità materna potrebbe essere perfino cresciuto rispetto al 2003. Nel nord del Sudan, inoltre, la pratica diffusa delle mutilazioni genitali femminili contribuisce ad accrescere i rischi sanitari affrontati dalle donne.
Malaria, diarrea e infezioni respiratorie acute continuano a provocare la morte, ogni anno, d'oltre 100.000 bambini sotto i 5 anni d'età.
Agli inizi del 2005 è stata accertata una situazione alimentare grave in numerose aree del paese e si stima che circa 17 milioni di persone non abbiano ancora accesso all'acqua potabile e più di 20 milioni a servizi igienici per lo smaltimento di rifiuti organici.
Roberto Bolle testimonial dell'Unicef
Etoile del Teatro alla Scala di Milano, Roberto Bolle ha danzato sui palchi più prestigiosi del mondo e per le più importanti personalità internazionali. Il suo lavoro gli ha dato la possibilità di viaggiare e di entrare in contatto con realtà molto problematiche. Questo ha inciso sulla sua sensibilità spingendolo ad abbracciare la causa dell’Unicef.
Nel 1999 è stato nominato Goodwill Ambassador dell’Unicef Italia “per sensibilizzare e coinvolgere l'opinione pubblica, ed in particolar modo il mondo giovanile, sui problemi dell'infanzia, testimoniando e promuovendo la solidarietà e il sostegno alle iniziative dell’organizzazione”.
Nel 2001 Bolle ha promosso l'iniziativa “Yes for children”, referendum promosso su scala mondiale che ha permesso di raccogliere quasi un milione e mezzo di firme in favore dei diritti dell'infanzia. È stato testimonial delle campagne “Adotta una bigotta” e “Pigotte liriche”, organizzate in occasione delle feste natalizie dall’Unicef Italia per dare in adozione le pigotte, bambole di pezza realizzate da migliaia di volontari che aderiscono a questo progetto. Con un'offerta minima di 20 euro, corrispondente al costo medio di un ciclo vaccinazione in un paese a basso reddito, si assicurava l'immunizzazione completa ad un bambino.
In occasione dei 30 anni del Comitato Italiano per l’Unicef, Bolle ha partecipato all'evento speciale di raccolta fondi “Venezia Cinema for UNICEF”, organizzato nell'ambito della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la terribile strage di Beslan, in cui morirono 156 bambini, la somma raccolta è stata destinata alla comunità colpita dal drammatico evento.
Il 1 marzo del 2006 Bolle ha preso parte all'anteprima italiana di “All the invisible children”, film collettivo diretto da otto grandi registi (Medhi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Katia Lund, Jordan Scott e Ridley Scott, Stefano Veneruso e John Woo) dedicato ai bambini privati dei loro diritti. Parte dei proventi del film sono andati a sostegno dei progetti dell’Unicef.
Infine, durante le Olimpiadi di Torino 2006, è stato testimonial della campagna “Un SMS solidale per il Sudan” assieme ad altri due ambasciatori Unicef (Deborah Compagnoni e Paolo Maldini). La campagna ha permesso di raccogliere 500.000 euro, cospicua somma necessaria a vaccinare più di 25.000 bambini.
«Quello in Sudan è stato il mio primo viaggio insieme all’Unicef – ha raccontato Roberto Bolle –. Durante questa esperienza ho potuto scoprire meglio la situazione in cui si trova il Paese, ovvero: una condizione di grandi emergenze e di grandi necessità. Trovarmi a contatto diretto con le sofferenze, soprattutto dei bambini, è stato emotivamente pesante e difficile. Tuttavia è stato incoraggiante vedere come proprio quegli stessi ragazzi, nonostante la condizione di estrema povertà, riescano sempre a salutarti con il sorriso stampato sulle labbra, quando ti incontrano per strada. Inoltre sono rimasto estremamente colpito dal grande lavoro che stanno portando avanti l’Unicef e le altre organizzazioni non governative che lavorano sul campo e che, quotidianamente, sono a contatto diretto con quella realtà».

11.10.06

"Matrix", la trilogia dei fratelli Wachowski

di Paolo Musano

Sulla trilogia dei fratelli Andy e Larry Wachowski si sono riversati fiumi di inchiostro (tra i tanti saggi usciti in questi anni sono da segnalare quelli di Slavoj Zizek, autore del premiato “Benvenuti nel deserto del reale”) e a ragione, dato che stiamo parlando (e qui ci riferiamo soprattutto al primo capitolo) del miglior film di fantascienza degli ultimi decenni, secondo soltanto a “Blade Runner” di Ridley Scott. Ma naturalmente non si tratta solo di questo. Le scene di azione fanno impallidire i due “Terminator” di James Cameron e le coreografie di arti marziali fanno sembrare i film di Van Damme delle ragazzate poco convincenti. Il successo di pubblico e di critica è stato enorme, anche se, come vedremo, ci sono state delle ombre. Le ragioni non sono soltanto di ordine tecnico. La grande presa che ha avuto il film può essere spiegata col fatto che è uscito in momento storico molto delicato. E, se non delle risposte, ho fornito una chiave di lettura diversa alle inquietudini, ai dubbi e all’alienazione dell’uomo contemporaneo.

Prima di addentrarci nelle speculazioni filosofiche, però, forse è il caso di chiedersi: “Ma chi sono Andy e Larry Wachowski?”. A dir la verità di loro si sa ben poco. Il loro primo film ,“Bound”, era una torbida e cupa storia d’amore lesbo. Una pellicola mediocre che è stata un flop al botteghino e che ha fatto parlare di sé solo per le più esplicite scene di sesso lesbo mai viste negli ultimi anni al di fuori dell’ambiente porno. I fratelli Wachowski da subito si sono chiamati fuori dai rituali e dal jetset di Hollywood, dimostrando un grande coraggio e una grande coerenza artistica. Nei loro film hanno voluto fare le cose a modo loro, fregandosene delle regole e della tradizione. Se hanno un debito è con la cultura “underground”, quella degli artisti visuali, la body art e soprattutto i manga. “Matrix” infatti è ispirato a un fumetto (così come il nuovo film che uscirà tra breve: “V come Vendetta”, ambientato in un futuro dove si respirano le stesse atmosfere di “1984” di Orwell e “Fahrenheit 451” di Bradbury, dove ogni forma di arte è bandita e i pochi rimasugli di cultura sono tenuti in vita da società segrete gestite da terroristi anarchici). Fin qui niente di strano. Ma se Andy, il più tracagnotto, non è molto diverso dal tipico americano del ventunesimo secolo, suo fratello Larry è una figura più sfuggente. Di lui i giornali scandalistici si sono occupati a lungo recentemente. Si dice che stia per cambiare sesso, per diventare donna. Ha rotto il suo matrimonio per instaurare una relazione con Ilsa Strix, una bionda statuaria, star del porno fetish sadomaso, fino a poco tempo fa legata a Buck Angel, un transessuale conosciuto nell’ambiente come “il tizio con la figa”. Alcuni critici sostengono che questa relazione abbia pesato non poco anche nella vita artistica di Larry (come non pensare ai costumi in latex dei personaggi principali di “Matrix”, incredibilmente somiglianti a quelli che indossano gli attori dei film porno sadomaso?). Nel caso del secondo e del terzo capitolo della trilogia di “Matrix”, indubbiamente pare che sia cambiato qualcosa. Si nota uno stacco rispetto al primo film che in alcuni punti è effettivamente un calo. Non a caso i critici hanno sottolineato la mancata tenuta della sceneggiatura, l’abuso di effetti speciali e un insufficiente lavoro sui personaggi (che in alcuni punti diventano delle vere e proprie caricature) in “Matrix Reloaded” e “Matrix Revolutions”, gli ultimi due film della trilogia. Le ragioni sono imputate proprio alla disattenzione di Larry Wachowski, troppo impegnato nella sua perversa relazione con Ilsa Strix per preoccuparsi di far funzionare alla perfezione il meccanismo della regia dei suoi film. Ma, al di là della fondatezza di queste affermazioni, restano i contenuti profondi del film, quelle componenti che hanno toccato l’intimo dell’uomo del XXI secolo e hanno reso “Matrix” un vero e proprio fenomeno di “culto” (un po’ come era successo con “Star Wars” di George Lucas).

La storia: In un futuro non troppo lontano le macchine hanno il controllo (uno scenario non molto diverso da quello del “Terminator” di James Cameron). La maggior parte degli uomini non lo sa, ma è sotto il giogo di queste macchine. Gli esseri umani sono tenuti in vita per un semplice motivo: a causa della distruzione del pianeta, dell’esaurimento delle risorse, dell’oscuramento del sole (successivo a un probabile olocausto nucleare), sono l’unica fonte di energia rimasta. Le macchine per funzionare ne hanno un continuo bisogno, perciò gli esseri umani sono creati con l’ingegneria genetica e coltivati in immensi campi-laboratorio. Gli uomini ignorano questa terribile verità perché le loro menti vivono in “Matrix”, un programma incredibilmente complesso creato appositamente per renderli schiavi e mantenerli schiavi. Tuttavia c’è una piccola comunità di uomini che è riuscita a scollegarsi da “Matrix”, che conosce la verità e che vive relativamente libera in una città sotterranea chiamata Zion. Tra questi i protagonisti: Morpheus, Trinity e Neo. Morpheus è il più carismatico comandante del gruppo dei ribelli. È a capo di una nave (ma non è la sola, ce ne sono diverse) che periodicamente, grazie a una tecnologia mutuata dalle macchine, diventa una stazione mobile di trasmissione. L’equipaggio della nave, guidato da un operatore, entra ed esce da “Matrix”. Lo scopo è liberare più persone possibile. Ma “Matrix” naturalmente si difende. Ha dei guardiani, chiamati Agenti e guidati dallo spietato Agente Smith, che hanno il compito di individuare gli ‘uomini liberati’ in “Matrix” ed eliminarli, ucciderli. Neo è anche lui un ‘liberato’, ma ha qualcosa di diverso dagli altri. In qualche modo è speciale. Morpheus infatti lo ha cercato, trovato e liberato per un motivo preciso. La profezia di un Oracolo ha predetto che un giorno arriverà un Eletto che distruggerà “Matrix” e riporterà l’uomo al centro del mondo e gli restituirà la libertà originaria (Lo stesso Oracolo dirà a Trinity che si innamorerà dell’Eletto). Ebbene Morpheus pensa che l’Eletto sia Neo. Tutta la trilogia ruota attorno alla figura chiave di Neo: Chi è veramente? E’ o non è l’Eletto?

Le implicazioni filosofiche di questo film sono innumerevoli. E le domande che mette in moto e i dubbi che risolleva sono altrettanto numerosi e si riducono ai grandi quesiti filosofici di sempre: chi sono, dove vado, perché esisto? Innanzitutto sbattiamo davanti all’evidenza che il rapporto mente-cervello, nonostante tutte le speculazioni che si sono succedute da Cartesio in poi, è ancora inesplicabile. È indubbio che la nostra definizione di realtà è limitata dalla struttura del nostro cervello e dei nostri organi di senso, quindi necessariamente arbitraria e soggettiva. Come dice Morpheus a un Neo spaesato all’inizio del primo “Matrix”, ‘quella che noi chiamiamo Realtà non è altro che l’elaborazione corticale degli impulsi elettrici che il nostro cervello riceve dai recettori degli organi di senso’. E questo fatto di per sé è già sconvolgente, perché elimina la fondatezza e la concretezza del nostro essere nel mondo e insinua il dubbio che il nostro cervello potrebbe essere benissimo ingannato e manipolato, come infatti succede quando è collegato a “Matrix”. Il primo riferimento che può saltare fuori è ‘il mito della caverna’ della “Repubblica” di Platone: gli uomini che vivono nella caverna guardano le ombre del ‘mondo vero’ proiettate sul fondo e scambiano quelle ombre per la ‘realtà’, senza accorgersi del trucco, della finzione, dell’artifizio.
C’è poi la tematica della Fede. Quanto è importante credere in qualcosa? Sono le cose in cui crediamo che danno un senso alla nostra vita? Sono la forza della motivazione e il livello di autostima che ci permettono di fare grandi cose, di avvicinarci in qualche modo a Dio?
Nel film Morpheus crede all’Oracolo e quindi crede in Neo. Quando quest’ultimo si convince anche di lui di essere l’Eletto, effettivamente le cose cambiano. Che cosa è successo dentro di lui? A me viene da pensare al Buddhismo: il Satori, l’Illuminazione, porta con sè delle Consapevolezze che possono avere una portata enorme nella vita di un uomo. Che cosa diventa Neo quando ‘comincia a credere’ di essere l’Eletto? Un ‘Risvegliato’, un ‘Buddha’, che poi diventa un ‘Cristo in Terra’, per quello che riuscirà a fare e per il modo in cui uscirà di scena (i ribelli come Morpheus, invece, sono dei ‘bodhisattva’, ‘delle persone che sanno’, che vogliono liberare coloro che non sanno e per questo sono schiavi).
Nel secondo capitolo della trilogia, “Matrix Reloaded”, il personaggio di Neo si definisce meglio in questo senso. Si capisce che lui, forse, ha trovato la chiave per la definitiva liberazione dell’uomo (Ma dov’è questa chiave? Significativo, a questo proposito, il personaggio del “Fabbricante di Chiavi”). Un uomo con la Consapevolezza di Neo ha la possibilità di scegliere. Tutti gli altri uomini non ce l’hanno perché sono dipendenti dal meccanismo di ‘causa-effetto’, come spiega sarcasticamente “Il Merovingio” a Morpheus, Neo e Trinity. Non si può sfuggire il proprio ‘karma’, a meno che… E’ questo il nodo fondamentale della questione.
Nell’ultimo capitolo della trilogia, “Matrix Revolutions” (il meno riuscito dei tre film, a causa dell’uso sproporzionato degli effetti speciali, che fanno scivolare in secondo piano la sceneggiatura e rendono i personaggi dei clichè), Neo, ormai, è un vero e proprio Messia e ci vuole poco a immaginare la fine che farà. La sua morte è una crocifissione simbolica che raggiunge il suo scopo, ma lascia insoddisfatti per il suo esito scontato. Si resta un po’ delusi per l’evoluzione del personaggio che finisce col diventare un sorta di capro espiatorio. Anche se il finale, con l’Oracolo che guarda quello strano tramonto policromo, resta aperto. Si tratta di una nuova nascita del genere umano o è solo l’eterna replica di un copione già scritto? Ognuno darà per conto suo la risposta che meglio crede.

Un ultimo punto su cui vale la pena soffermarsi è l’etimologia dei nomi dei personaggi principali. Di sicuro non sono stati scelti a caso. Morpheus tradotto è ‘Morfeo’, il dio greco dei sogni, uno dei tanti figli del Sonno e della Notte. Trinity tradotto è ‘trinità’, forse non quella cristiana ma quella che si riferisce alle ‘ipostasi’. Nelle “Enneadi” di Plotino le ipostasi sono le tre sostanze principali del mondo intellegibile: l’Uno; l’Intelletto, che procede dall’Uno; e l’Anima, che procede dall’Intelletto. Neo, infine è un prefisso che si riferisce anche alla ‘ricomparsa, ripresa in forma nuova di correnti di pensiero, tendenze’. Viene da pensare a una nuova ‘Età dell’Oro’, a un nuovo ‘Rinascimento’. In italiano c’è poi l’altro significato di ‘malformazione del tessuto’, quindi di ‘anomalia’ (come è chiamato Neo, e dall’Agente Smith e dall’Architetto in “Matrix Reloaded”). Per quanto riguarda il titolo del film, “Matrix” tradotto è ‘Matrice’, che viene dal latino matrice(m), derivato di mater matris, ‘madre’, e significa: ‘utero’; ‘origine’ e ‘radice’.

In conclusione, la morale di “Matrix”, se esiste, potrebbe essere questa: sei libero di non accettare il Sistema, di ribellarti ad esso e di cambiarlo se vuoi. Ma per riuscire a farlo devi prima entrare nel Sistema e diventare anche tu una parte del Sistema. Neo, l'Eletto, è un uomo che ha raggiunto una consapevolezza superiore, e che quindi ha trovato il modo per fregare il Sistema stesso. Gli Illuminati, i Geni, per forza di cose sono delle anomalie pericolose per lo status quo perchè agendo (e per me tra pensiero e azione c'è ben poca differenza) possono rivoluzionare persino quelli che la gente ritiene Dogmi, i Fondamenti, dai quali inevitabilmente deriva qualsiasi concezione della realtà. La trilogia di “Matrix” non è altro che l'epica rappresentazione dei pro e contro di un cammino spirituale. Ci fa vedere, in forma mitica (su uno sfondo fantascientifico), l'eterna lotta tra l'Intelletto (la tecnologia, le macchine: propaggini estreme della Ragione) e lo Spirito (la Fede, il sentimento, la Consapevolezza). E ci fa intuire che non avrà mai fine, se non attraverso una simbiosi (gli uomini dipendono dalle macchine e le macchine dipendono dagli uomini). Il bello è che si arriva a un paradosso: non è possibile essere liberi senza essere schiavi. Può darsi che questo paradosso sia veramente la risposta alla complessità del mondo o delle relazioni umane.

7.10.06

Doping, un fenomeno in crescita

di Silvia Del Beccaro
Su 100 azioni antidoping, condotte in tutti gli ambiti fra la fine del 2004 e il 2005, ben il 70% delle irregolarità portate alla luce ha riguardato proprio le palestre. Sempre più persone infatti tendono ad assumere sostanze nocive per vedersi più gonfi, più muscolosi, più simili a dei body-builder. Il culto del fisico sta toccando gli eccessi, portando gli atleti ad iniettarsi innumerevoli quantità di ormoni, catastrofici per il proprio corpo.
Steroidi… Anabolizzanti… Già al solo pronunciarli, questi termini implicano in sé qualcosa di losco e pericoloso. Noti come sostanze con azione simile a quella dell’ormone maschile “testosterone”, l’uso di steroidi induce modificazioni fisiche, come ad esempio un aumento della massa muscolare e della forza, uno sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari (sviluppo dei genitali, timbro della voce, barba, distribuzione del grasso e dei muscoli), effetti su vari organi e tessuti (produzione dei globuli rossi, bilancio azotato ecc.).
L'uso terapeutico di steroidi anabolizzanti è sempre stato piuttosto raro e limitato: negli anni 60, ad esempio, prima che fosse disponibile l'ormone della crescita in forma ricombinante, l'ossandrolone è stato utilizzato per il trattamento della bassa statura nella sindrome di Turner. Oggi invece vengono esclusivamente utilizzati per la cura dell'angioedema ereditario, dell'ipogonadismo, dell'anemia aplastica, del cancro della mammella e di alcune forme di malattie croniche degenerative.
Purtroppo, contemporaneamente, negli ultimi decenni si è espanso sempre più il consumo di tali sostanze a scopo non terapeutico, in particolare per potenziare le proprie prestazioni fisiche. Non a caso l’assunzione di ormoni steroidei induce un aumento della massa muscolare e questo, a sua volta, consente di affrontare allenamenti più pesanti e di conseguenza miglioramenti più marcati derivanti dall'allenamento stesso nelle prove di scatto e potenza. Inaugurato dai pesisti sovietici negli anni ‘50, l’uso degli steroidi anabolizzanti si è diffuso anche ai pesisti di tutto il mondo e in seguito agli altri sport: ciclismo, nuoto, calcio, ecc… Addirittura oggi sta coinvolgendo anche i giovanissimi adolescenti che, presi dalla foga di imitare i leggendari Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, si calano sostanze delle quali ignorano tutto: dall’utilizzo corretto e illegale agli effetti collaterali.
Le pratiche di doping più diffuse sono il doping ematico e le manipolazioni chimiche e fisiche dei campioni di urina. Nel primo caso, all’atleta vengono somministrate sostanze di sintesi correlate all’EPO per via endovenosa, che migliorano il trasporto di ossigeno nel sangue. Un’altra pratica è quella dell’autotrasfusione: l’atleta cioè, si sottopone a un prelievo di sangue, che, dopo essere stato adeguatamente conservato e non appena i globuli rossi sono tornati a livello normale, gli viene trasfuso nuovamente, ottenendo così un incremento del numero dei globuli rossi.
I rischi connessi al doping ematico includono reazioni allergiche, possibile trasmissione di malattie infettive, sovraccarico del sistema circolatorio e shock metabolico. Ma non è tutto. Le conseguenze degli anabolizzanti possono essere devastanti:

Effetti su organi riproduttivi e sfera sessuale

Oltre al già riferito rischio di infertilità, che può permanere a lungo anche dopo la sospensione del trattamento, gli androgeni possono promuovere la crescita del carcinoma (tumore) della prostata e della mammella. Inoltre, a causa della conversione periferica del testosterone in ormoni femminili, può verificarsi un paradossale effetto femminilizzante con aumento di volume della ghiandola mammaria (ginecomastia) e riduzione della potenza sessuale.

Effetti sul fegato

Il fegato è uno degli organi più sensibili all’azione degli anabolizzanti. Il grado di compromissione epatica può essere quanto mai vario, oscillando da una lieve alterazione della funzionalità, alla comparsa di cisti ematiche o di tumori.

Effetti sull’apparato cardio-vascolare

È possibile osservare un aumento della pressione arteriosa, probabilmente in rapporto alla ritenzione idro-salina e al tipo di attività fisica prevalentemente anaerobica praticata.

Effetti metabolici
L’uso prolungato di anabolizzanti è un fattore rischio per la comparsa di diabete mellito, soprattutto in soggetti con familiarità per tale malattia, come dimostrato da alterazioni nella tolleranza al glucosio. Inoltre, è spesso riscontrabile un aumento dei trigliceridi e del colesterolo ematici, fattori di rischio di vasculopatie.