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15.9.09

Che – L'argentino e Che – Guerriglia (2008)


di Marco Apolloni

Che – L'argentino e Che – Guerriglia sono in realtà un unico film spezzato in due per esigenze più commerciali che altro (presumo). Si tratta di una pellicola complessa, non per tutti, che ha il piglio lento e citazionista di un documentario. Rende bene l'idea di mostrare il precipitare degli eventi rivoluzionari con in sottofondo la voce fuori campo dei Diari e degli Scritti del Che. Manca però un nucleo narrativo centrale e forte. A tratti, inoltre, difetta di lacunosità. Nel senso che dà per presupposte troppe cose e non bastano alcuni flashback messi qua e là per riempire dei significativi buchi biografici. Va bene il pout-pourri di azione condito da realistiche immagini dei combattimenti – nella prima parte a Cuba e nella seconda, invece, in Bolivia –, però il salto temporale che va dalla presa di Santa Clara all'estrema avventura nella giungla boliviana appare francamente troppo forzato. Secondo me sarebbe stato più logico e anche più apprezzato dalla platea sviluppare la storia del suo secondo matrimonio con l'agguerrita rivoluzionaria Aleida March. Il Che di Steven Soderbergh non ha tempo per smancerie e passa da un'azione all'altra quasi quanto il Che storico. Tuttavia nell'economia della trama del film un pizzico di vita bucolica non avrebbe guastato. Ne sapeva qualcosa il buon Tolstoj, liberamente citato durante la prima parte della pellicola (sotto riporto la citazione in questione), che nell'architettare il suo più universale capolavoro Guerra e pace ha saputo miscelare alla crudezza delle gesta pugnaci, la dolcezza delle scene idilliache di vita familiare. Molto più romantico in questo senso è il giovanilistico e donchisciottesco Diari della motocicletta (2004) di Walter Salles. In poche parole alle quattro ore e passa dell'epopea guevariana diretta da Soderbergh manca quel “di più” che ci si aspetta dai grandi film, pur rimanendo sempre degnamente un po' sopra la media – grazie anche alla maiuscola interpretazione di Benicio Del Toro, favorito soprattutto da una somiglianza fisica davvero impressionante. Più che l'utopia rivoluzionaria vera e propria – citata a sprazzi, in maniera disomogenea e quasi a casaccio – del guerrigliero Guevara, Soderbergh ci ha mostrato – volutamente o meno chiedetelo a lui – l'avventura umana di uomo sicuramente non comune, capace di grandi scelte e come tale degno di rispetto persino da chi non ne condivide le idee politiche. Sono uscito dalla sala con la non ben definita impressione di aver ammirato un dipinto ben fatto nell'insieme, ma privo di uno “sfondo” incisivo. É proprio questo “sfondo” mancante che non permette al film, secondo me, di spiccare il volo. Anche se, a sua evidente discolpa, va detto che di fronte ad un soggetto talmente carismatico nella realtà è quasi fisiologico che la sua trasposizione nella fiction sia nettamente svantaggiata. In quest'impresa che oserei definire “titanica” di mettere in piedi un Che in celluloide, il “duo” Soderbergh e Del Toro perlomeno non ne esce con le ossa rotte. E visto il soggetto, non è poco...


“Nel campo della guerra, la forza delle truppe è [...] il prodotto della massa per qualcosa d'altro, per non si sa quale incognita x. […] È, questa x, lo spirito delle truppe, vale a dire il maggiore o minor desiderio di battersi e di esporre se stessi al pericolo, sentito da tutti gli uomini che compongono quelle truppe, indipendentemente dal fatto che questi uomini si trovino a battersi sotto il comando di genii o di non genii, in tre o in due linee di schieramento, armati di randelli o fucili che sparino trenta colpi al minuto. Gli uomini che sentiranno maggiore il desiderio di battersi, sempre riusciranno a porsi nelle condizioni migliori, più favorevoli alla lotta. (L., Tolstoj, Guerra e pace, Milano, 2008, p. 1237)”

22.6.09

“Coraline e la porta magica”

di Alessandra Savazzi

“Coraline e la porta magica”, adattamento del romanzo “Coraline” di Neil Gaiman, è un film d’animazione prodotto dalla Laika H.E., realizzato con la tecnica stop-motion, accompagnato dalle musiche del compositore Bruno Coulais, e diretto dal regista di Tim Burton “The Nightmare before Christmas”, Henry Selick.
Coraline è una bimbetta dai capelli blu, acuta e coraggiosa, tutta pelle, ossa e curiosità. Il suo nome giusto è quello sbagliato: Caroline un giorno corse così forte nella mente di Gaiman che le sue dita inciamparono sulla tastiera; come il tempo nei sogni, la velocità dei pensieri talvolta capovolge le cose. L’abitudine per “Caroline” fa sbuffare Coraline, dopo tutto, chi sa dire dov’è l’errore? Non è “giusta” anche l’eccezione per il solo fatto che esiste? “E’ vero anche il contrario”, direbbe l’ironia poco ironica di Groucho Marx. Il suo nome sbagliato è quello giusto!
Con papà e mamma si trasferisce nell’Oregon, in una grande e vecchia casa, situata in una valle caliginosa e prosperosa di alberi arruffati. I suoi genitori scrivono infaticabili al computer, per riviste di giardinaggio, pur detestando tale pratica; “scrivete di terra e odiate la terra” appunta loro Coraline, ciondolando nel suo impermeabile giallo, traboccante di entusiasmo per la pioggia che scende e il giardino che s’ammorbidisce in fango. In quella casa così ampia non c’è spazio per giocare insieme, né tempo per inventare merende gustose: Coraline si sente come una stanza trascurata, una vita in scena, ma senza riflettori.
Miss Spink e Miss Forcible, abbondanti in forme ed esuberanza, inattendibili ermeneute di fondi di thé, moleste quanto le loro appiccicose caramelle secolari, sono due attrici in pensione che collezionano cani imbalsamati, tutti in fila in una specie di santuario, a sfoggiare alette d’angelo molto grottesche e tutt’altro che serafiche. Non sono i soli vicini, c’è anche Mr. Bobinski, che dice di allenare topi ballerini a comporre spettacoli musicali, e un ragazzino dall’aspetto moscio e cascante ma dal carattere estremamente inventivo, seguito da un gatto nero e spigoloso, complice delle sue avventure.
Una notte un topino di Mr. Bobinski apre a Coraline la strada per un mondo altro, attraverso una porticina della sala, di giorno impenetrabile ed enigmatica, e tutto sommato murata e deludente. Dall’altra parte Coraline vive la perfezione dei desideri: un'Altra Madre e un Altro Padre, identici ai suoi veri genitori, se non fosse che al posto degli occhi hanno due grossi bottoni neri, la inondano di attenzioni e farciscono di delizie, promettendole eterna felicità.
Solo un prezzo è da scontare per non uscire dal paradiso e giocare per sempre nel paese dei balocchi: non è un divieto, nessun albero del Bene e del Male, solo due bottoni, da cucirsi addosso.
Presto Coraline vive il disinganno: l’Altra Madre fabbrica pupazzi con i quali poter spiare il mondo reale e prender nota dei suoi difetti, attraverso i loro occhi-bottone; allo stesso modo di una bambola costruisce un mondo su misura, dal vestito a pennello, imbottito con la pienezza della perfezione, tenuto insieme da legami forti. Presto, però, l’imbastitura non regge, il panno si sgualcisce, tutto si sgonfia, e rovescia come un calzino. Tutti sono coinvolti e incatenati ad un mondo finto, solo Coraline, affrontandolo, ha lo sguardo libero e vigilante di chi trova ciò che vuole e, in fondo, aveva solo smarrito.
Il difetto dov’é? Nel mondo perfetto. L’Altra Madre è incapace di amare. L’ “altro” è l’incapacità del “questo”, l’incapacità si trasforma in odio e l’odio in volontà di onnipotenza, ma la volontà di onnipotenza dell’odio è potenza della distruzione, anche di ciò che esso crea. Solo la reale autenticità dell’amore, quell’amore sovente manchevole, insufficiente, incostante, disattento, pigro o maldestro, inesperto o pasticcione, orgoglioso e testardo, debole e indeciso, sempre pronto a rifarsi ma anche a fallire, senza misura o senza entusiasmo, indolenzito dall’abitudine e troppo facile a lasciare anziché resistere, quell’amore troppo umano da essere “divino” o forse divino proprio perché “umano”, può essere il costo di una vita perfetta, in quanto compiuta nel nostro realizzare noi stessi in esso come volontà di potenza, che vuole ciò che può, e per questo costruisce anziché distruggere.
Siamo prudenti, allora, a quel che desideriamo, e, prima di chiedere, esaminiamo in noi stessi ciò di cui davvero abbiamo bisogno per essere felici, ché altrimenti anche la risposta più impeccabile e incontrovertibile può scoprirsi insoddisfacente, e vera anche al suo contrario.

5.6.09

“Ken Park” (2002)

di Marco Apolloni

Ken Park” è un adolescente assomigliante a Rosso Malpelo, il cui altro soprannome è “krap”, “merda”. Il film si apre con lui che arriva allo skate-park e si suicida sparandosi un colpo in testa. Verso la fine veniamo a sapere dai suoi amici, che dietro al suo gesto estremo si cela il “movente” di una gravidanza indesiderata della sua ragazza. La pellicola si chiude proprio con lo sguardo di Ken perso in siderali lontananze, che inebetito non sa rispondere alla sua ragazza che gli chiede: se è contento che sua madre lo avesse fatto nascere. Risposta difficile, questa, soprattutto alla luce di quanto si viene svolgendo durante la narrazione filmica. Infatti nell'assistere sgomenti alla routine degli altri quattro co-protagonisti: Tate, Shawn, Claude e Peaches; la risposta alla domanda se valesse o meno la pena di nascere è un po' la chiave per capire la “periferia emotiva” di questi ragazzi, annoiati e svuotati, i quali contrappongono alla loro smania incessante di vivere l'incapacità di adattarsi in una società reprimente.

I famigliari di questi ragazzi, a ben guardarli sembrano molto più scossi di loro. Spiegabili perciò ci paiono i comportamenti eccentrici, che per reazione-difesa questi adolescenti problematici esprimono. Tutti tranne due: 1) il suicidio di Ken; 2) l'atto inaudito compiuto dall'esasperato Tate, che in preda ad un raptus omicida accoltella mortalmente i suoi nonni. Per gli altri tre rimasti ne risulta un ritratto efficace di una generazione ben oltre il nichilismo e la perdita dei valori. Poiché, a dire il vero, essi un valore dimostrano di averlo – valore, questo, di chiara ispirazione libertina –, e cioè: vivere appieno la loro disinibita sessualità attraverso la scoperta del loro corpo-strumento. In materia sessuale: il loro unico freno morale vuole essere non avere alcun “freno morale”! Concezione, questa, che lambisce l'edonismo più sfrenato. Con il termine “edonismo” s'intende comunemente quel complesso di dottrine ruotanti attorno al principio di “piacere”. Laddove altre dottrine filosofiche, invece, individuano nel “bene” oppure nella “felicità” i loro principi basilari. Il “piacere” che intendono loro è principalmente “carnale” e solo indirettamente “spirituale”: poiché per essi star bene con il loro “corpo” equivale a star bene con il loro “spirito”.

Riassumendo, dei cinque protagonisti: due sono senz'altro “negativi”, in quanto l'uno distruttivo per se stesso (Ken) e l'altro per gli altri (Tate); gli altri tre risultano invece “positivi” (Shawn-Claude-Peaches); il “trio” che, non a caso, nella parte finale della pellicola si esibisce in un triangolo sessuale travalicante il confine della pornografia. In un dialogo denso di significati e riferimenti culturali per bocca di Claude viene esposta quella che è la loro filosofia esistenziale, riassumibile con un capovolgimento del celebre detto cartesiano tramutato per l'occasione in: “Coito ergo sum”! Il loro obiettivo dichiarato è l'attuazione di una società utopica formata da uomini e donne pienamente appagati/e. Secondo loro ciò può essere l'unico antidoto contro il veleno che sta uccidendo la nostra società occidentale: sessualmente troppo repressa. “Società utopica” è la loro, dove la sola merce di scambio consentita è il “piacere” nella sua totale accezione fisica-metafisica. Una società dove è il sesso a farla da padrona, fondata sull'assunto matematico secondo cui: + SESSO = - FRUSTRAZIONE!

In definitiva, il merito più grande di questa pellicola – diretta dal regista Larry Clark – è di non essere scontata. In tempi di magra come questi, direi, ci possiamo accontentare...

2.3.09

Train de vie (1998)

di Marco Apolloni

Forse molti non sapranno che Roberto Benigni per la realizzazione del suo film premio Oscar La vita è bella (1997) si sia ispirato a Radu Mihaileanu e alla sua originale pellicola Train de vie. Il regista rumeno, di origine ebraica, inviò il soggetto del “matto” – protagonista del suo film – a Benigni, il quale non si disse interessato per poi, subito dopo, estrarre dal cilindro il suo capolavoro assoluto. Mihaileanu, mostrandosi fine conoscitore dell'ironia dolce-amara del suo popolo, affronta un tema delicato e al tempo stesso straziante come la Shoah con tocco lieve e il meno possibile pedante o didascalico. Un po' come lo stesso Benigni, solo che lui ci è arrivato prima – pur vedendosi costretto a posporre la realizzazione del suo progetto.
Allietata dalla “zingaresca” colonna di Goran Bregovic, la vicenda si svolge in un piccolo shtetl: villaggio ebreo dell'Est europeo. Nella prima scena vediamo Schlomo, il matto del villaggio, che corre a perdifiato per avvertire i suoi compaesani dell'imminente arrivo dei nazisti. Quando tutti non sanno che fare, all'improvviso Schlomo, sorprendendo tutti, ha un'idea geniale: l'auto-deportazione dell'intero villaggio. Il suo piano consiste nell'acquistare un treno, scegliere quelli fra loro che hanno più dimestichezza con la cultura e la lingua tedesca e, dopo averli travestiti da finti nazisti, sperare di passarla liscia e prendersi gioco dei veri nazisti, tirando dritti con il loro “treno fantasma” fino in Palestina, via Russia. Questo piano apparentemente strampalato, in realtà, risulta essere la loro unica alternativa per sottrarsi ai lager nazisti. Il finale non è affatto scontato.
Ne fuoriesce un film corale, in cui ci s'immedesima con i bizzarri personaggi, tutti azzeccati, i quali in fuga verso la loro Terra Santa danno vita a godibili e rocamboleschi episodi, che coinvolgono e al contempo fanno riflettere nella giusta maniera lo spettatore. Ecco il loro identikit... Schlomo, la cui saggezza è racchiusa in questa sua perla “Forse Dio ha creato l'uomo... ma l'uomo ha sicuramente creato Dio per inventare se stesso”, confessa di aver voluto fare il rabbino del villaggio, ma visto che il posto era già occupato da un altro si è accontentato di fare il matto. Il vero rabbino al contempo, in una scena davvero memorabile, prega il buon Dio d'Israele di salvare donne, bambini e “già che c'è” anche i vecchi – lui compreso. Mordechai è un fabbricante di legname, scelto nel mazzo per fare il comandante nazista suo malgrado, parte per cui tutti lo detestano nonostante lui lo faccia solo per il bene della collettività. Yossi è il “nerd” del villaggio, perennemente attaccato alla sottana della madre, instauratore d'una cellula bolscevica nel treno e fomentatore di una velleitaria rivolta. Esther, la bella di turno, oggetto delle brame di Yossi, è in cerca del grande amore e si concede al figlio di Mordechai – anch'egli bolscevizzatosi strada facendo – cui Esther impartisce un prezioso insegnamento: un paio di zinne valgono tutti i Marx e i Lenin del mondo...
Forse il più bel film sulla Shoah: brillante, leggero e, soprattutto, riflessivo.


Esempio d'umorismo yiddish:

Schmecht (il germanista): Lo yiddish è una parodia del tedesco con dentro l'umorismo...
Mordechai: Ma i tedeschi lo sanno che facciamo la parodia della loro lingua? Non saranno in guerra per questo?
(Articolo tratto dalla Rivista di Arte, Cultura e Società: L'Aperitivo Illustrato, Numero 24, Febbraio 2009)

23.2.09

Next (2007)

di Marco Apolloni

Tratto dal racconto di Philip K. Dick The Golden Man, Next diretto da Lee Tamahori è un godibile blockbuster. L'uno è un buon racconto, l'altro un buon film. Salvo che: il genere fantascientifico rende più al chiuso nelle sale buie del cinematografo, dove lo spettatore viene maggiormente coinvolto dagli effetti speciali, che rendono quella che è la visione di uno scrittore una materia non più astratta, ma rappresentata visivamente, dunque viva e pulsante. Perciò anche qui siamo davanti ad uno di quei casi, come tutte le altre pellicole fantascientifiche, dove il film è migliore del racconto che l'ha ispirato, senza nulla togliere a quest'ultimo. Pensare anticipatamente, predire il futuro – per quanto immediato e ravvicinato come può fare il nostro eroe Cris Johnson – è motivo di grande fascinazione. Dick nelle pagine del suo racconto abbozza l'idea che un uomo/animale dotato di un simile potere preveggente possieda il vantaggio o svantaggio, a seconda, di presentire la propria morte, dunque volendo di accettarla visto che sa che accadrà. A ben pensare: ogni morte è certa, lo sappiamo tutti – nostro malgrado –, ma sapere esattamente come si svolgerà l'intero film della propria vita è qualcosa di estremamente avvilente, ci toglierebbe il gusto della sorpresa e soprattutto ci priverebbe della forza titanica di combattere sino all'ultimo per cambiare la propria sorte. Titanismo insito in ogni agire umano e che sottende il tentativo proprio di ciascun uomo di elevarsi al di sopra della propria mortale condizione umana. Wisdom, direttore della divisione nordamericana della DCA – sorta di FBI cacciatrice di mutanti potenzialmente pericolosi – nonché uno dei protagonisti della novella dickiana, si rende conto meglio dei suoi colleghi dell'incredibile pericolosità in cui incorrerebbe la razza umana nel caso brulicassero tanti Cris Johnson. Essa sola ed unica artefice del proprio destino, nel bene e nel male, andrebbe presto a scomparire e subentrerebbe una razza più abietta di persone con appiccicata la loro data di scadenza, manco si trattasse dei cartoni del latte. Tema, questo, già espresso in un romanzo dickiano quale Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – da cui è stata tratta la visionaria trasposizione cinematografica Blade Runner del maestro Ridley Scott. L'interrogativo che si pone Dick è: se i poteri di Cris possono giovare o nuocere all'umanità; la risposta che viene delineata sia dalla pagina scritta che dai fotogrammi filmici propende più per la seconda ipotesi. Il Cris del regista Tamahori, che non è diciottenne, non è bello come un dio greco – non ce ne voglia il pur piacente Nicolas Cage che lo interpreta –, né tanto meno ricoperto d'alcuna patina d'oro e che in definitiva è decisamente più umanizzato rispetto al divinizzato Cris dello scrittore Dick, mostra proprio la sua grande sofferenza interiore nel vivere la sua condizione di super-eroe privilegiato. Cliché, questo, che appartiene un po' a tutta la filmografia hollywoodiana che trae la sua ispirazione dai super-eroi dei fumetti della Marvel & Comics, da Superman a Spiderman, tutti ragazzi problematici, che avvertono come un fardello i loro super-poteri come anche il Cristo gnostico di Scorsese di The last temptation. I mutanti come Cris se si riproducessero a dismisura, pericolo che avverte molto bene il direttore Wisdom, creerebbero una nuova razza di apatici, i quali trascorrerebbero i loro giorni vivendo schiacciati dal peso dell'inanità, sapendo tutto ciò che gli accadrà dal giorno della loro nascita fino a quello del loro trapasso definitivo. Una razza simile sarebbe disumana nel senso che sarebbe privata dell'essenza stessa della vita umana, che consiste in un'incessante scoperta quotidiana che noi tutti possiamo fare solo vivendo. Per quanto scontato possa sembrare il segreto svelato della Vita è vivere. Semplicemente e soltanto: vivere!

(Articolo tratto dalla Rivista di Arte, Cultura e Società: L'Aperitivo Illustrato, Numero 23, Gennaio 2009)

17.1.09

"Slumdog Millionaire" (2008)


di Marco Apolloni

Una grande firma di Repubblica (Federico Rampini) ha recentemente scritto un libro, L'impero di Cindia, dove parla del boom economico che sta investendo sia la Cina che l'India – da qui il curioso gioco di parole del titolo. Le due nascenti potenze orientali si candidano già, in un domani non troppo remoto, alla governance mondiale come sostitute dell'ormai tramontante potenza egemone statunitense.

Tenendo da parte la Cina, che con i giochi olimpici ha tenuto banco per tutta la passata estate, è il caso di prendere in rassegna una potenza silenziosa, ma che ha già azionato il pilota automatico tanto va di fretta, quale: l'India appunto. Il paese del Mahatma – Grande Anima in sanscrito – Gandhi, che nello scorso secolo grazie al suo carisma e al suo metodo non-violento è riuscito a conquistarsi una faticosa Indipendenza dalla madrepatria inglese.

Molti di voi forse già lo sapranno e per chi non lo sapesse mi pare questo un buon momento per saperlo: l'India, precisamente la Bollywood indiana produce un numero maggiore di film della Hollywood americana. Tra questi Slumdog Millionaire – il cui regista è però lo scozzese Danny Boyle, reso celebre dalla trasposizione cinematografica del romanzo di Irvine Welsh Trainspotting –, che racconta la storia di Jamal Malik, un diciottenne della baraccopoli di Mumbai, che per conquistare Latika, la donna della sua vita, decide di partecipare al gioco a premi il cui franchising è diffuso in tutto il mondo – da noi in Italia è conosciuto come Chi vuol esser milionario, con tanto d'identica musichetta in sottofondo. La trama è serrata e ricca di colpi di scena. Essa, inoltre, presenta un sapiente incastro: per ogni domanda del quiz il protagonista ripercorre mentalmente le tappe salienti che lo hanno condotto fino a quel momento.

Fra queste tappe vi è la sua infanzia difficile, durante la quale insieme all'inseparabile fratello Salim si guadagnava una manciata di rupie – la rupia è l'unità monetaria indiana – gestendo il business d'una latrina pubblica. C'è una scena particolare in cui Jamal viene rinchiuso da Salim, per dispetto, nella suddetta latrina e pur di procurarsi l'autografo del suo attore beniamino bollywoodiano – nel frattempo sceso dal suo elicottero privato – si cala negli escrementi e corre da lui così insudiciato. Altre due scene significative sono: la prima, quando la madre dei due bambini viene brutalmente accoppata da un gruppo di mussulmani in protesta – ricordo che l'India è l'ombelico delle religioni di tutto il mondo: la maggioranza indù, infatti, deve vedersela con numerose minoranze fra cui: quella mussulmana, cristiana e buddhista; la seconda, quando il protagonista ancora bambino e innocente assiste, sgomento, all'accecamento di un suo coetaneo per opera di un boss senza scrupoli, il quale raccoglie gli orfanelli della locale baraccopoli, per poi mandarli ad elemosinare per lui – la vittima viene mal ridotta nella convinzione che un bambino cieco, capace di cantare per strada con la sua suadente vocina la preghiera rituale al dio della buona sorte Ganesh, spilli più quattrini agli incuranti passanti di un qualsiasi bambino vedente, episodi del genere sono all'ordine del giorno nella frammentata e diseguale società indiana.

La cavalcata trionfale che porta Jamal a giocarsi la vincita finale non è però priva di ostacoli. Il velenoso conduttore televisivo messo in ombra dal ragazzo-prodigio – che ostenta sicurezza, rispondendo correttamente a tutte le sue domande – tenta in tutti i modi di ostacolarlo, prima consigliandolo erroneamente, poi addirittura facendolo interrogare dalla polizia locale – che non gli usa di certo le buone maniere. Tuttavia ogni tentativo dell'ispettore di polizia di piegare l'inflessibile volontà del ragazzo risulta vano. Egli infatti non può confessare ciò che non ha fatto, ovvero imbrogliare. Le risposte lui le sa perché, volente o nolente, le ha tutte vissute sulla sua pelle. La categoria della predestinazione si staglia prorompente nel finale. Non a caso il giovane è predestinato a vincere e a diventare perciò un milionario. Tutto questo perché: era scritto! Si segnala l'intonata colonna sonora di Allah Rakha Rahman, fra i più importanti compositori indiani. Immancabile è il balletto conclusivo, in perfetto stile bollywoodiano, dove personaggi e comparse danno vita ad una pittoresca coreografia tra i vagoni della Victoria Station di Mumbai. Che dire infine: se si sono realmente svegliati gli indiani, come sembra, il predominio di Hollywood ha ormai i giorni contati. L'ombra lunga di Bollywood è lì già che incombe...

4.1.09

"August Rush - La musica nel cuore" (2007)

di Marco Apolloni

L'esordiente regista irlandese Kirsten Sheridan, figlia d'arte – il padre Jim ha diretto, tanto per citare il suo miglior film, In the name of father (1993) –, con questa sua opera prima ci regala un riuscito film sentimental-musicale, ma non un musical vero e proprio. Il titolo originale della pellicola è August Rush, che italianizzato diventa La musica nel cuore. Essa si poggia tutta sulla superlativa interpretazione di cinque bravissimi attori, anzi sei. Freddie Highmore interpreta August Rush, il bambino prodigio della musica, che fugge nella Grande Mela per ritrovare i suoi genitori mai conosciuti. Keri Russell è Lyla Novacek, la madre nonché la bella violoncellista. Jonathan Rhys-Meyers indossa i panni di Chris Connelly, il padre nonché chitarrista-cantante d'indiscutibile valore. Terrence Howard si cimenta nel ruolo di Richard Jeffries, il coscienzioso assistente sociale, che permetterà la riunificazione di madre-padre-figlio. Infine, the last but not the least, Robin Williams, dopo La leggenda del re pescatore (1991), torna a ripopolare da vero istrione il sottobosco newyorkese cimentandosi nella parte di Wizard, l'antagonista che tenterà invano di guastare l'allegro quadretto familiare. Altra protagonista, seppur non in carne ed ossa, è la musica, nume tutelate di August. Musica intesa nella sua concezione più metafisica, come linguaggio trascendente che, quindi, trascende la materia stessa per ricondurci alla gloria dell'Altissimo e che è respiro cosmico. Come dice il piccolo August: “La musica è intorno a noi, non bisogna fare altro che ascoltarla…”.

Fra le chicche musicali, sparpagliate qua e là, va segnalata una versione acustica della suadente Moondance – ballads old style di Van Morrison, recentemente ripresa in versione swing da Micheal Bublé. Questa canzone funge da soundtrack dell'innamoramento tra Lyla e Chris, i quali sulle sue note si baciano e ardono di passione al lume di stelle, sopra i tetti di New York. Frutto della loro romantica notte d'amore è lo stesso August. A causa, però, del padre-padrone di Lyla, il bimbo appena nato viene messo in un orfanotrofio, dal quale lui solo a undici anni riuscirà a scappare, spiccando il volo sulle ali della sua musa ispiratrice. La sua abilità innata gli permette di sentire certe vibrazioni superiori e di trasformare ogni tipo di suono che lo circonda in musica dell'anima. Stupefacente, inoltre, è la sua subitanea capacità d'apprendimento e assimilazione. La prima volta che prende in mano una chitarra, senza conoscere un solo accordo, si cimenta in riff pazzeschi alla Eric Clapton. Idem con il pianoforte. Questo Mozart in erba si farà strada a suon di musica, in maniera del tutto casuale – la trama presenta tutti i connotati della fiaba, per ciò stesso risulta sospesa a metà tra finzione e realtà –, fino alla più prestigiosa Accademia musicale di New York. I suoi insegnanti sono talmente estasiati dal suo genuino talento da autodidatta, che gli propongono di suonare una sua rapsodia al consueto concerto di fine anno. Proprio in quest'occasione, dopo aver superato i rituali ostacoli propri di ciascun eroe in celluloide – che rispettano in pieno il già oliato meccanismo dell'intreccio narrativo –, August calamita a sé i suoi genitori.

Le sole note stonate del film sono: una scarsa caratterizzazione della fauna newyorkese e il finale non finito. Riguardo la prima stonatura ci si sarebbe dovuti soffermare maggiormente sulla marginalità degli orfani che abitano in un vecchio teatro abbandonato e son costretti a mendicare pochi spiccioli suonando qualche strumento al servizio di Wizard. In un flash momentaneo sembra d'assistere alla riproposizione post-moderna, ambientata nella metropoli che non dorme mai, della favola dickensiana Oliver Twist, seppur appena diversificata e riadattata ai giorni nostri. Circa la seconda stonatura la regista, per un eccessivo e ingiustificato timore di sembrare scontata, priva lo spettatore dello stucchevole, ma comunque gradito, abbraccio finale fra i tre protagonisti. In simili pellicole, del resto, è cosa buona e giusta mostrare piuttosto che lasciar immaginare il lieto fine. Checché ne dica certa critica prevenuta, la gente ha bisogno degli happy end. Ad essere sinceri, infatti, gli unici ad essere scontati – nel cinema come nella vita – sono i sadly end... 

27.12.08

"Water horse – La leggenda degli abissi" (2007)

di Marco Apolloni

Water horse – del regista Jay Russell – è un film sui buoni sentimenti, animalista fino al midollo, che tocca con incisività il delicato tema del rapporto tra uomo e bestia. Mostrandoci degli uomini bestiali capaci di scempiaggini come le guerre e bestie invece dai risvolti umani. Altro tema affrontato è quello di un'amicizia tanto impossibile, quanto resa possibile dalla materia fiabesca qui trattata. Il film comincia con una giovane coppia di turisti che entra in un locale e viene adescata da un vecchio sconosciuto, uno del posto, il quale, come il protagonista del poemetto di S.T. Coleridge The rime of the ancient mariner si porta dentro una storia sensazionale, che sente di dover condividere. Il racconto del vecchio ci riporta ai tempi della seconda guerra mondiale, dove facciamo la conoscenza di Angus MacMorrow, un ragazzino problematico – traumatizzato dalla perdita del padre, avvenuta in guerra –, che un giorno rinviene sulle rive del lago di Loch Ness un uovo primitivo e decide di portarselo a casa. Qui all'insaputa della madre apprensiva – interpretata dalla molto british Emily Watson – Angus alleva la bestiola, sgusciata fuori nel frattempo, che ha tutta l'aria di essere un piccolo dinosauro e la cui voracità lo porta a cercar cibo ovunque si trovi. Angus quindi ribattezza la sua simpatica creatura con un nome d'arte: Crusoe. Intanto un reparto della Royal Army si acquartiera nella tenuta dei MacMorrow. Il raccomandato comandante della brigata, con la sua ottusa disciplina militaresca sconvolge i piani di Angus. Egli, però, aiutato dalla sorella maggiore e dal faccendiere nuovo arrivato nella casa, riesce fortunosamente a trasferire Crusoe nel lago. Nell’elemento acquatico, che gli è più proprio, Crusoe può crescere indisturbato e sviluppare la sua mole eccezionale. Crusoe si rivela infatti un drago marino, unico nel suo genere. La leggenda narra che creature simili ne nascono una per volta e che quando una di esse sta per morire deposita un uovo per perpetrare la specie. La fama di Crusoe, soprannominato il mostro di Loch Ness, si sparge fra gli abitanti del luogo, dove c'è chi presente la calamita turistica che una bestia simile potrebbe portare al loro piccolo villaggio, distinguendolo finalmente nelle mappe geografiche. La goccia che fa traboccare il vaso e spezza l'incantesimo di quiete è un'esercitazione militare, ovvero un bombardamento a tappeto nel lago, che minaccia la sopravvivenza di Crusoe. Questi, costretto a rifugiarsi negli abissi, s'inferocisce. Il finale, formato famiglia, è presto detto: e tutti vissero felici e contenti! Ad ogni modo, merito di questa pellicola strappalacrime, che potrebbe scoraggiare lo spettatore più avveduto vista la poca originalità della materia trattata – si è perso il conto delle trasposizioni cinematografiche girate sul presunto abitante del tal lago scozzese –, è quello d'intrattenere e far riflettere al tempo stesso, avvalendosi di una sapiente mistura composta da: spettacolari effetti speciali, efficace sceneggiatura e incantevole fotografia – quest'ultima facilitata anche dalla paradisiaca bellezza della location d'eccezione. Il viscerale animalismo del film, come accennato all'inizio, traspare dalla forte denuncia contro il maltrattamento delle povere bestie, che diventano feroci solo se provocate dalla sconfinata e deplorevole ferocia umana. Contestualizzando la pellicola all'oggi, come i fatti di cronaca c'insegnano, spesso dietro alle aggressioni dei cani – ad esempio – si cela la stoltezza dei padroni, che invece di trasmetter loro calore e affetto, li battono e affamano, rendendoli pertanto – contrariamente alla loro intrinseca natura – aggressivi. Film come questi ci riconnettono alla nostra dimensione più originaria. E, una volta tanto, dovrebbero ricordarci di essere sì uomini, ma prima di tutto animali anche noi; il che vuol dire creature fra le altre, le quali, avendo il prezioso dono della ragionevolezza, proprio per ciò dobbiamo farne uso per rispettare chi condivide la nostra stessa natura: animale...

16.12.08

Presentazione musicata "CineFilosofando", Sabato 13 Dicembre


Si è riassunto in due ore di piacevole approfondimento il dibattito fra cinema e filosofia, svoltosi sabato 13 dicembre nella biblioteca “Silvio Zavatti” di Civitanova Marche. In compagnia dello scrittore Marco Apolloni, intervenuto per presentare il suo libro “CineFilosofando” (Patti, 2008), i minuti sono trascorsi velocemente anche grazie all’intervallarsi di riflessioni filosofico-letterarie, letture interpretative ed esibizioni musicali. Ad accomunare questi tre elementi è stata in primis la cinematografia, che ha fatto da filo conduttore per tutto l’evento – basato per l’appunto sul testo portante “CineFilosofando”. «L’approccio di questo mio libro è fondamentalmente misto e prevede all’inizio di ogni saggio una breve recensione sintetica delle problematiche cruciali di ciascun film – ha spiegato l’autore –. Dopodiché segue l’analisi delle pellicole da un punto di vista più rigoroso, nella quale do soltanto delle pillole contenutistiche evitando così le lunghe citazioni di rito che i filosofi di solito tendono ad utilizzare». Per allietare ulteriormente il pubblico, durante la conferenza è stata inserita la partecipazione del cantautore Michele Serrani e del musicista Alberto Crucianelli, che si sono esibiti in un live fatto di sola chitarra acustica e basso. Sonorità, le loro, che hanno rievocato in questo particolare contesto quelle di cantautori come De Andrè e De Gregori e che hanno ben accompagnato le letture interpretative degli spettatori: Anna Maria Caldarola, Monia Ciminari, Emanuele Follenti, Sergio Fucchi, Chiara Rosati, Bruna Salvitti. Ovviamente la conferenza non sarebbe stata possibile senza la disponibilità dello staff bibliotecario e, in particolar modo, della direttrice Carla Mascaretti. Oltre al prezioso lavoro come moderatrice di Silvia Del Beccaro, giornalista nonché capo-redattrice del bimestrale “Impegno Sociale”. 
Sette i film trattati sia nelle letture che negli approfondimenti: “Ghost dog”, “Donnie Darko”, “L’ultima tentazione di Cristo”, “Il tredicesimo guerriero”, “Tristano & Isotta”, “La caduta”, “L’appartamento spagnolo”. Tutti film, questi, che racchiudono una propria parola chiave – a seconda, infatti, si parla di onore, sacrificio, eroismo, follia, coraggio, amor passione, amicizia – ma che tuttavia sono al contempo legati da un comun denominatore, e cioè: la vita è come un film. Non solo. L’excursus che l’autore effettua all’interno del suo testo invita a riflettere sulla possibile nascita dei futuri Stati Uniti d'Europa. Sulla base di questo spunto, il dibattito conclusivo ha assunto un carattere dialogico ed interattivo e in virtù di questo il pubblico presente è stato chiamato più volte a partecipare ponendo domande sul saggio, dando così vita ad una curiosa riflessione. È logico che passati divisi portino a futuri divisi? Oppure esiste un futuro comune a tutti i popoli europei, nonostante le differenze linguistiche? «Al giorno d’oggi ci vengono riproposti nuovi ed edificanti sogni, com’erano all’origine Roma caput mundi e l’Italia unita. Su tutti spicca uno per imponenza, ovvero l’Europa unita – ha risposto l’autore –. A molti questo sogno potrebbe sembrare una blasfemia. Un passato di soprusi inconfessabili e di guerre fratricide non sembrerebbe loro dar torto. Paradossalmente, però, le divisioni del nostro passato ci uniscono a maggior ragione in un connubio tanto inestricabile. E l’insopprimibile necessità di non ripetere gli errori fin qui commessi, ci induce a sperare di poter essere un giorno ancor più uniti sotto un’unica bandiera, quella europea». 

5.12.08

Presentazione musicata di "CineFilosofando" - Sabato 13 Dicembre


Un connubio di musica e cinema. Una fusione di discipline umanistiche. "CineFilosofando" raccoglie cinefili e storici, linguisti e filosofi. Perché il libro di Marco Apolloni non solo riporta alla luce pellicole più o meno note del panorama cinematografico, ma dà alle stesse un valore aggiunto, estrapolando e spiegando in maniera accessibile a tutti le tematiche portanti di ciascuna.

Lontano dai linguaggi utilizzati nelle Accademie, seppur sia uno studioso plurilaureato, l'autore fidardense Marco Apolloni racconta momenti salienti della storia dell'Occidente e della cultura europea analizzando accuratamente sette film.

Gli Stati Uniti d'Europa, si interroga l'autore, sono davvero possibili? E' logico e necessario che passati divisi portino a futuri divisi? Oppure esiste un futuro comune per tutti i popoli, nonostante le differenze linguistiche?

Su questi ed altri interrogativi il prossimo 13 dicembre – nuovo appuntamento marchigiano – l'autore rifletterà e si raffronterà con il pubblico, dialogando con esso ed instaurando un incontro dialogico, del tutto informale. Ma non solo. Naturalmente si parlerà di cinema, primo e vero protagonista dell'appuntamento civitanovese. L'incontro è previsto sabato 13 dicembre, ore 17.30, nella biblioteca comunale “S. Zavatti” di Civitanova Marche.

Sette i film che verranno presi in oggetto: "Ghost Dog", "Donnie Darko", "L’ultima tentazione di Cristo", "Il tredicesimo guerriero", "Tristano & Isotta", "La caduta", "L’appartamento spagnolo". Per ciascuna pellicola avrà luogo una riflessione storico-filosofico-letteraria, che verrà abbinata a momenti musicali inerenti a ciascuna pellicola e volti ad intrattenere il pubblico presente. L'allestimento musicale sarà a cura del cantautore Michele Serrani.

Proiezioni cinematografiche e musica daranno dunque vita ad un connubio piacevole, che mirerà in primo luogo a divertire il pubblico ma, al contempo, a farlo riflettere su quello che siamo, quello da cui veniamo e quello verso cui ci stiamo dirigendo...

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Per contattare direttamente l'autore: 333.3495829

Per informazioni: silandgreg@hotmail.com; www.noiperborei.blogspot.com

14.11.08

"Diario di uno scandalo" (2006)

di Marco Apolloni

Judi Dench e Cate Blanchett danno vita ad un dramma dalle tinte torbide. Barbara – la Dench – è un’insegnate attempata ed estremamente arcigna. Le sue uniche occupazioni consistono in prendersi cura di Porzia, la sua gatta, e redigere un meticoloso diario quotidiano: nel quale tiene il conto delle sue frustrazioni e degli episodi insignificanti che le succedono. La sua monotona routine viene spezzata un giorno quando nella sua scuola entra un’insegnante inesperta e molto più giovane di lei: Sheba – la Blanchett. Barbara dopo le iniziali incomprensioni sarà sempre più morbosamente attratta dalla liberale e fresca collega, tanto che le due diverranno presto amiche. Un episodio, però, catalizza la loro amicizia squilibrata: Barbara scopre Sheba intenta ad avere rapporti sessuali con un suo alunno quindicenne. Per lei l’episodio costituisce un ulteriore incentivo per spingersi ancora più in là nell’amicizia con la collega, facendo leva sul timore della sua vittima di venire esposta al pubblico dispregio. Sheba, infatti, teme si scateni un putiferio sulla sua apparentemente normale vita familiare. Lei è madre di due figli, di cui uno affetto dalla sindrome di down, e moglie di un marito più anziano e di vedute progressiste. Senza stare a raccontare il finale che – comunque – tiene bene la suspense, ciò che mi ha spinto a recensire questa pellicola è la sua indubbia originalità. Temo di non ricordare pellicole analoghe che indaghino così a fondo gli intricati meccanismi della psiche femminile. Nella fattispecie che trattino di omosessualità e pedofilia al femminile. A Barbara si addice a pennello l’identikit dell’insegnante bacchettona, che tuttavia scopre un’intimità assai tormentata. Le sue rigide convenzioni nascondono delle pulsioni viscerali latenti e proprio per questo potenzialmente più esplosive. La sua ruvidezza esteriore cela un’inusitata fragilità interiore. Del resto lei si accontenterebbe di poco, una manciata di carezze e un briciolo di compagnia per non trascorrere sola i giorni che le rimangono da vivere sulla terra. Anche Sheba presenta i connotati di un personaggio a dir poco complesso. La sua moderna pedofilia può essere rapportata a quella dell’antica Grecia, quando le mogli trascurate non si tiravano indietro nel rivaleggiare coi loro mariti libertini per assicurarsi le grazie e i favori dei bei giovinetti. Ma la pedofilia al femminile non ha nulla a che vedere con quella maschile. Sarà per il ruolo di passività occupato dalle donne nell’atto amoroso – esse, infatti, si lasciano penetrare e dunque fungono da ricettacolo per il membro maschile; sarà perché la sessualità femminile è un abisso ancora tutto da scoprire; sarà insomma per la dolcezza insita nel modo di fare l’amore delle donne; fatto sta che l’opinione pubblica tende di solito ad essere più conciliante quando si verificano casi di pedofilia al femminile, forse data anche la loro scarsa rilevanza statistica, e a mantenere un atteggiamento seppur ugualmente indignato, tuttavia più tollerante rispetto alla barbara pratica della pedofilia al maschile. Si potrebbe persino congetturare che le attenzioni di Sheba per un imberbe quindicenne siano da attribuire ad un suo perlopiù inconsapevole atto di ribellione nei confronti di una Natura matrigna che le ha donato un figlio anormale. In conclusione, a mio avviso, due sono i punti a favore del regista Richard Eyre: il primo, l’aver affidato il dipanarsi dell’intera vicenda filmica alla bravura di due attrici superlative – provenienti da due scuole di recitazione diverse: più minimale la Dench e più espressiva la Blanchett; il secondo, l’essersi affidato ad una sottile e psicologica sceneggiatura ad opera di Patrick Marber – già noto al grande pubblico per essere autore della pièce teatrale Closer, da lui poi riadattata in chiave cinematografica. Un consiglio a tutti gli amanti del cinema d’autore: Notes on a Scandal è un film assolutamente imperdibile. Potrebbe piacervi o meno, ma garantisco che al termine dell’ora e mezza di visione della pellicola avrete l’impressione di non aver sprecato il vostro tempo e di esservi arricchiti di ulteriori spunti per decifrare alcuni aspetti troppo spesso dimenticati o occultati della torbida natura umana.   

26.10.08

"CineFilosofando" in tour ad Ascoli Piceno

Il centro storico di Ascoli Piceno ha ospitato lo scorso sabato 25 ottobre una nuova tappa di “CineFilosofando in tour”, serie di incontri atti a spiegare le correlazioni esistenti fra discipline umanistiche (filosofia, letteratura e storia su tutte) e il meraviglioso universo cinematografico.
A fare da location per questo evento culturale è stata la Libreria Rinascita, distante pochi passi da piazza del Popolo. Il compito di moderare l'intervento dell'autore Marco Apolloni, scrittore e fondatore del blog NoIperborei, è spettato a Silvia Del Beccaro, capo-redattrice della rivista bimestrale “Impegno Sociale” (per la quale Apolloni svolge il ruolo di capo-sezione Cultura).
«Marco è un redattore in gamba e un autore decisamente promettente – ha dichiarato Silvia Del Beccaro –. Seppur sia ancora giovane d'età, è già riuscito ad affermarsi pian piano nel mondo dell'editoria con due saggi alle spalle e un romanzo in uscita. “CineFilosofando” in particolare ha suscitato particolare interesse, in tutta Italia, grazie anche alle competenze che l'autore vanta in ambito umanistico. Due lauree in Filosofia e un ruolo come capo-sezione Cultura presso la nostra rivista ne sono la riprova». La presentazione del libro si è svolta come una chiacchierata informale,
durante la quale si è venuto ad instaurare anche un rapporto dialogico col pubblico presente. I film non sono stati trattati seguendo l'ordine del libro, bensì i due relatori hanno ripercorso il filo comune che lega una pellicola all'altra, in particolar modo la costruzione dell'identità europea. «Attraverso le ere medievali, de “Il tredicesimo guerriero” e di “Tristano e Isotta”, passando per la seconda guerra mondiale, di cui si parla ne “La caduta” - ha aggiunto l'autore Marco Apolloni -, siamo giunti alla costruzione di una nostra identità occidentale. Non a caso il mio auspicio è che si creino prima o poi degli Stati Uniti d'Europa, in cui i Paesi non vengano più visti solamente come Nazioni dai passati divisi, bensì come un corpus unico legato da un futuro comune».

19.9.08

Terza tappa di "CineFilosofando": simposio cinefilo.

di Silvia Del Beccaro



Dinamico, espressivo, coinvolgente. In occasione della sua prima conferenza brianzola - dopo le tappe di Civitanova Marche e Castelfidardo - Marco Apolloni ha dimostrato ancora una volta di saper essere una personalità intraprendente e brillante, culturalmente attiva e dalla parlantina sciolta - nonostante i suoi venticinque anni. Incalzato nel corso della conferenza da Giuseppe Girgenti, professore dell'Università "Vita-Salute" San Raffaele, l'autore di "CineFilosofando" ha intrattenuto il pubblico presente con una serie di approfondimenti relativi alle pellicole da lui trattate fra cui "Ghost Dog", "L'ultima tentazione di Cristo", "La Caduta" e "L'appartamento spagnolo". La serata è stata allietata dalla proiezione introduttiva di un breve video esplicativo (che ha riassunto in pochi minuti film e parole-chiave trattati nel libro), nonché da un omaggio donato ai due relatori dalla responsabile della biblioteca cesanese Myriam Colombo, prima organizzatrice della serata.

17.9.08

Presentazione "CineFilosofando" - Marco Apolloni - Cesano Maderno


Comune di Cesano Maderno
Biblioteca Comunale “Vincenzo Pappalettera”

presenta

“CineFilosofando – La vita è come un film”
Presentazione del libro di Marco Apolloni

GIOVEDI 18 SETTEMBRE 2008
Ore 21.00

Sala Pavoni c/o Biblioteca Civica “Vincenzo Pappalettera”
Via Borromeo, 5 - Cesano Maderno (Milano)

Modera: prof. Giuseppe Girgenti dell’Università “Vita-Salute” San Raffaele

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Giovedì 18 settembre, alle ore 21.00, la “Sala Pavoni” della Biblioteca Civica cesanese di via Borromeo 5 ospiterà la presentazione del libro CineFilosofando (2008, Kimerik Edizioni) di Marco Apolloni. Dopo le affollate presentazioni di Civitanova Marche e Castelfidardo, questa nuova tappa del tour divulgativo del venticinquenne fidardense toccherà dunque Cesano Maderno, la città in cui ha vissuto e studiato negli ultimi due anni e in cui ha conseguito la laurea magistrale/specialistica lo scorso 14 luglio. «Trascorrere questi due intensi anni in Brianza è stata per me un’esperienza significativa, che mi lascerà dentro dei ricordi molto positivi. Soprattutto la gente, con cui ho avuto a che fare, mi si è rivelata quasi sempre disponibile e amicale. Inoltre, a Palazzo Borromeo ho avuto modo di affinare i miei strumenti di studio e di maturare come studioso» dichiara a tal proposito l’autore Apolloni.
La serata prevedrà la partecipazione del professor Giuseppe Girgenti, Ricercatore di Storia della Filosofia Antica presso la sede cesanese dell’Università “Vita-Salute” San Raffaele, che per l’occasione indosserà le vesti di moderatore.
CineFilosofando un saggio anticonvenzionale a cavallo fra cinema e letteratura, che analizza sette pellicole in maniera scorrevole e soprattutto evitando ogni riferimento puramente tecnico. Si tratta infatti di un testo che – a dispetto di quanto possa far intuire il titolo – è accessibile a tutti, in particolar modo a coloro che si ritengono dei veri e propri amanti della cinematografia in senso lato. Attraverso gli occhi di uno spettatore attento e al tempo stesso curioso di scovare sempre nuovi particolari, l’autore Marco Apolloni tenta di recensire le sette pellicole dando una spiegazione umanistica di esse, ricollegando i sette film alle rispettive epoche – dal Medioevo e l’era dei vichinghi all’epoca nazista e all’era odierna – e filosofie di vita – ad esempio, il sacrificio del samurai e il sacrifico messianico per il bene dell’umanità.
I film analizzati sono più o meno noti al grande pubblico e comprendono sia pellicole storiche che recenti realizzazioni. Ghost Dog, Donnie Darko, L’ultima tentazione di Cristo, Il tredicesimo guerriero, Tristano & Isotta, La caduta, L’appartamento spagnolo: sono tutti film conosciuti, per un motivo o per l’altro. Il primo parla di un samurai dei nostri tempi con le movenze di un rapper; il secondo tratta l’avventurosa esperienza dei viaggi nel tempo; il secondo il terzo racconta la storia di un dio che si è fatto uomo ed è morto per lavare i peccati degli uomini; il quarto è ambientato nelle lande brumose del nord in un’epoca buia, il Medioevo; il quinto riguarda una delle storie d’amore più famose, nonché tra le più tormentate di tutti i tempi; il sesto racchiude – per dirlo con Hannah Arendt – la «banalità del male» del Novecento, il nazismo; infine il settimo rappresenta un inno all’europeismo.

13.7.08

Piccole Juno (2007) crescono

di Marco Apolloni

Dopo i piovaschi della prima ventina di giugno, già temevamo il peggio: un'estate da passare con la spada di Damocle calata in testa, tra un bagno e una tintarella. Ammettiamolo... Ciascuno di noi ha segretamente temuto di dover trascorrere il proprio tempo in spiaggia con gli occhi puntati verso i nuvoloni provenienti dalle Alpi o dall'Appennino. Timore, a quanto pare, infondato. L'estate così a lungo sognata alla fine ci ha degnato della sua presenza. A dire il vero ci ha colti un po' impreparati, con il barometro costantemente fisso tra i 30 e i 35 gradi in tutte le principali città italiane. Così all'improvviso, inaspettata, potente, suadente, l'estate è tornata a far parlare di sé. E con l'arrivo della bella stagione certe passioni sepolte in noi, certe nostre fisiologiche pulsioni, sono tornate a farsi sentire. Con tutta quella mercanzia davanti, come resistere alle mille e più tentazioni della carne - fin troppo "debole" in certi periodi. Del resto l'estate è la stagione ideale per tutti i tipi di accoppiamento, mammi­fero e non. Ce n'è per tutti i gusti. Come canta Max Gazzè, ci risia­mo. È sempre: Il solito sesso...
Ricordo con un pizzico di nostalgia quando - ancora sedicenne e imberbe - fantasticavo su chissà quali conquiste estive, che ad essere sinceri poi nel novantanove per cento dei casi quasi mai si avveravano. Non saprei dire perché, ma certe fantasie appartengono proprio alla stagione estiva, sovrabbondante di stimoli e aspettative. D'estate le scuole chiudono i battenti e non potete capire cosa significhi “darci dentro” con partitelle di calcetto, nottate al luna park o in discoteca. O ancora al chiaror di luna, lasciandosi cullare dall'impercettibile rumore cadenzato delle onde che s'infrangono sulla battigia, tra una serenata e l'altra dedicata alla propria intrigante coetanea, nonostante tu sia ben consapevole in cuor tuo che la lei di turno tanto non ci starà mai e finirà fra le braccia del ragazzo più grande seduto attorno al fuoco, con il ciuffo ribelle e quell'aria da poeta maledetto. L'estate sta ad un sedicenne, di oggi e di ieri, come la fogliolina di basilico sta alla passata di pummarò fresca. In questa stagione la stragrande maggioranza di noi ha consumato la sua fatidica "prima volta", che - c'è da scommetterci - non è mai risultata come la si aspettava (ma che diamine è pur sempre la "prima" e per molti non dico "l'ultima" ma poco ci manca). Di solito ce ne passa di tempo tra il battesimo del fuoco e il ritorno in trincea, che quasi si ridiventa "vergini" nel frattempo. Io credo che quell'aura mitica che assume la first time stia tutto nella lunga attesa che l'ha preceduta e la non meno lunga attesa che la seguirà. Il problema è che si arriva quasi sempre troppo impreparati al catartico evento e l'ansia da prestazione che accompagna questa smodata attesa ci induce a delle magre figure. Magari ci si atteggia a navigati uomini di mondo, con quella gestualità tanto spavalda quanto truffaldina dello sciupafemmine incallito; quando, in realtà, questo portamento fasullo serve solo a fingersi più sicuri di quanto non si sia effettivamente. Solo più tardi, dopo le prime e mal riuscite volte, ci si rende conto del proprio impaccio iniziale e si ripensa quasi da un punto di vista spersonalizzato al proprio se stesso sedicenne, manco si trattasse di un perfetto estraneo. E non credete a quel che vi raccontano i tg: dietro l'apparente e disinibita emancipazione sessuale dell'odierna gioventù, quella goffaggine non è ancora del tutto scomparsa.
Il sesso viene vissuto dalle nuove generazioni come uno dei tanti giochi, per i maschietti quasi paragonabile ad una partitella alla play-station e per le femminucce ad un evento da incorniciare nei propri diari sempre più "piccanti". Ascoltando discorsi di amici, mi è capitato di sentire più di una volta storie tanto inverosimili quanto tutte rigorosamente vere, in cui ragazzine poco più che tredicenni si cimentano in peripezie "orali" tra un coca & rum e l'altro - come se si trattasse delle nuove frontiere dello sport mondiale - e dopo se ne escono con frasi del tipo: "L’ho fatto così per gioco, tanto è una cosa normale, la fanno anche le mie amiche, poi se devo essere sincera nemmeno mi piacevi tu, ma quel tuo amico più belloccio". Recenti fatti di cronaca inducono a pensare che fenomeni simili siano solo la punta di un iceberg, evidentemente molto più grande e incomprensibile di quanto non si possa pensare. Ragazzine americane ultra-viziate e annoiate dalla loro non appagante vita quotidiana, emule dell'eroina del film Juno (e ti pareva che Hollywood non c'entrasse con quest'ennesima bravata), si sono ripromesse di rimanere incinte entro e non oltre il giorno del loro sedicesimo compleanno. A questo punto un dubbio mi sorge spontaneo: chissà quanto ci vorrà prima che qualche ragazzetta made in Italy copi la moda lanciata dalle sue coetanee yankees?! Una voce dentro di me suggerisce "non molto", vista la nostra alta percentuale di riciclaggio della spazzatura mass-mediatica proveniente da Oltreoceano. Per sconfiggere tale lordume, infatti, temo - ahimè - non basteranno tutti gli inceneritori promessi alla popolazione campana...

12.6.08

Recensione "Caos calmo"

di Marco Apolloni

Lo ammetto, in materia di libri non sono proprio uno sciovinista. Ma stavolta, con Caos calmo di Sandro Veronesi, mi son dovuto ricredere. È un libro piuttosto voluminoso, in teoria scoraggiante già a priori, anche se - leggicchiando il retro della copertina e dando una sfogliata furtiva all'opera in questione - ti fa sperare di trovarvi qualcosa per cui valga la pena leggerlo. La trama lineare e originale si dipana per 450 pagine senza mai annoiare il lettore - che del resto è il requisito essenziale per qualsiasi libro che si rispetti. Un padre di mezza età si ritrova dalla sera alla mattina a dover badare da solo alla sua bambina, a causa della morte improvvisa e inaspettata della sua compagna. Per farlo lui adotterà una tecnica davvero particolare: il primo giorno di rientro a scuola dopo le vacanze estive promette alla figlia di aspettarla fino al suono della campanella lì fuori, in modo da rimanerle più vicino e non farla sentire troppo sola. La figlioletta basita, accetta e schizza in classe. Passa un giorno, due, tre, quattro e questo papà eccentrico di nome Pietro Paladini ci prende l'abitudine e non si scolla più dal suo personale angolino, da cui osserva il brulichio della vita intorno a lui. Si ritaglia questo posticino nel mondo perché è sbalordito di non riuscire a soffrire per la perdita della compagna, con la quale peraltro si sarebbe dovuto sposare a breve. Sofferenza, invece, che egli vede riversarsi addosso da una lunga sequela di personaggi, i quali gli confessano le loro più inconfessate paure e angosce esistenziali. Una cognata già con due figli a carico a cui badare e messa incinta per la terza volta consecutiva da un tipo con cui è stata una notte e via e che quindi non potrà mai essere un padre modello. Cognata con la quale, peraltro, Pietro era finito a letto prima ancora di conoscere la sorella di lei, che sarebbe poi diventata la madre di sua figlia. Vi sono due stranissimi colleghi di lavoro: il kafkiano Piquet ed il gesuitico Enoch. Il primo più fulminato di una lampadina, ha una giovane amante, bella, che lo fa uscire dai gangheri con frasi sconnesse e volgari per poi subito dopo correggersi e negare l'accaduto. Il secondo si licenzia in tronco dalla compagnia perché non condivide le ragioni della fusione, che sta per abbattersi sulla loro azienda; perciò decide di rifugiarsi in una sperduta missione in Zimbabwe. Oltre ai suddetti personaggi, durante la sosta ad oltranza nella sua monovolume Pietro dovrà fare i conti con un'avvenente ragazza - che come unica occupazione fa spinning ogni mattina - e con la madre di un ragazzo affetto dalla “sindrome del cromosoma in più” - a cui Pietro regalerà delle piccole soddisfazioni salutandolo ogni volta coi fari lampeggianti della sua auto. C’è infine un altro vedovo, un perfetto sconosciuto, anch’egli di origine romana come Pietro, che lo invita per un'abbuffata di pastasciutta a casa sua e gli rivela tutta la sua comprensione, visto che pure lui ha dovuto affrontare la perdita della moglie. Azzeccata e funzionante in ogni minimo dettaglio è la lunga scena di “sesso africano” tra Pietro ed Eleonora Simoncini, magnate dell'industria dolciaria svizzera alla quale Pietro aveva salvato la vita il giorno in cui venne a mancare Lara, la sua compagna. Riassumendo, Caos calmo è un libro che consiglio caldamente di leggere. Arrivato all'ultima riga dell'ultima pagina mi è venuto in mente un paragone lusinghiero sull'autore: si potrebbe dire che Sandro Veronesi è il Nick Hornby italiano, solo molto più bravo di Hornby. In effetti, a pensarci bene, per ogni bel libro straniero che comprate ce n'è uno italiano altrettanto bello, che merita qualche quattrino di fiducia in più. (ndr. Dal romanzo è stato tratto il film di Antonello Grimaldi, interpretato da Nanni Moretti ed Isabella Ferrari - rispettivamente Pietro Paladini ed Eleonora Simoncini - vincitore di tre David di Donatello.)

13.5.08

Sul grande schermo, la storia di Primo Carnera

di Silvia Del Beccaro

Torna a casa Renzo Martinelli. Ancora una volta. Come il figliol prodigo. Torna qui dove tutto è iniziato, dove ancora vive parte della sua famiglia, dove i suoi vecchi compagni di banco lo attendono in occasione di ogni nuova anteprima. L’avevamo lasciato con «Il mercante di Pietre» risalente al 2005 ed ora il regista cesanese è tornato per commentare la sua ultima pellicola, proiettata sabato scorso in anteprima italiana al cineteatro Excelsior. «Carnera – The walking mountain» è un film improntato sulla figura dell’omonimo pugile, Primo Carnera, vissuto agli inizi del Novecento. Diversi i parallelismi fra Martinelli e Carnera che emergono colloquiando a tu per tu con il regista: l’attaccamento alle origini, l’orgoglio di essere italiani, la profonda credenza in valori come quello familiare. Sia il regista che il pugile sono entrambi contrassegnati da forti legami con il loro vissuto. «La mia famiglia conta molto per me – spiega Renzo Martinelli –. Ho una moglie e tre figli che mi porto sempre dietro e con i quali cerco di spendere il maggiore tempo possibile, quando non sono occupato con un film. Ho un forte attaccamento alle mie radici. Il fatto stesso di tornare a Cesano ogni volta che esce un mio film lascia intendere quanto io tenga alla mia città».
«Carnera – The walking mountain» rievoca la storica figura di Primo Carnera, pugile nato il 25 ottobre 1906 a Sequals, un paese in provincia di Pordenone, e scomparso nel 1967. Nella pellicola di Renzo Martinelli si scoprono tutti i lati, più o meno nascosti, del carattere ma soprattutto della vita dell’atleta nostrano: l’ascesa, la popolarità, il titolo mondiale, il matrimonio, i figli. Gli alti e i bassi di una carriera che non fu certo tutta rosea. «Ciò che mi ha stupito e ispirato di questo personaggio è una frase che lui era solito dire. Carnera ripeteva che la sconfitta è tale solo se non ci si rialza dal tappeto. Credo che questa sia anche una splendida metafora di vita, che lui stesso ha saputo mettere in pratica. Carnera ha sacrificato se stesso e la sua vita per far star bene i suoi figli e permettere loro di avere una carriera futura. Entrambi non a caso hanno completato gli studi».
La particolarità di questo film è che è stato girato tutto in inglese, come altre pellicole di Martinelli, nonostante siano presenti diversi attori italiani. Lo stesso protagonista Andrea Iaia, due metri d’altezza per 126 chili, è di origini pugliesi. Ma allora a cosa è dovuta l’idea di girare un film in lingua? «Questione di mercato – replica semplicemente il regista –. Se produci una pellicola in lingua inglese puoi proporla ai mercati internazionali. Se la giri solamente in italiano riduci le tue possibilità da dieci ad una».

25.4.08

"CineFilosofando" a Castelfidardo.

Comune di Castelfidardo
Biblioteca Comunale

presenta

“CineFilosofando – La vita è come un film”
Presentazione del libro di Marco Apolloni



LUNEDI 28 APRILE 2008
Ore 21.15

Sala della Musica c/o “OnStage Club”
Via Soprani, 16 - Castelfidardo (Ancona)

Modera: Paola Mancinelli

Per informazioni: 338.4497603; e-mail: silandgreg@hotmail.com


Lunedì 28 aprile, alle ore 21.15, il locale “OnStage Club” di via Soprani 16 a Castelfidardo (An) ospiterà la presentazione del libro CineFilosofando (2008, Kimerik Edizioni) di Marco Apolloni. Dopo la soddisfacente presentazione di Civitanova Marche, questa seconda tappa del tour divulgativo del ventiquattrenne fidardense toccherà dunque la sua Città, Castelfidardo, da cui Marco Apolloni proviene. «Sono ormai diversi anni che vivo fuori casa per motivi di studio, ma devo ammettere che il mio cuore è sempre rimasto qui – svela l’autore –. Forse è anche per questo che l’idea di ritornare a casa, per presentare il mio libro davanti a un pubblico amico mi fa provare una sensazione bellissima». La serata prevedrà la partecipazione di Paola Mancinelli, studiosa fidardense che per la serata indosserà le vesti di moderatrice.
CineFilosofando un saggio anticonvenzionale a cavallo fra cinema e letteratura, che analizza sette film in maniera scorrevole e soprattutto evitando ogni riferimento puramente tecnico. Si tratta infatti di un testo che – a dispetto di quanto possa far intuire il titolo – è accessibile a tutti, in particolar modo a coloro che si ritengono dei veri e propri amanti della cinematografia in senso lato. Attraverso gli occhi di uno spettatore attento e al tempo stesso curioso di scovare sempre nuovi particolari, l’autore Marco Apolloni tenta di recensire le sette pellicole dando una spiegazione umanistica di esse, ricollegando i sette film alle rispettive epoche – dal Medioevo e l’era dei vichinghi all’epoca nazista e all’era odierna – e filosofie di vita – ad esempio, il sacrificio del samurai e il sacrifico messianico per il bene dell’umanità.
I sette film analizzati sono più o meno noti al grande pubblico e comprendono sia pellicole storiche che recenti realizzazioni. Ghost Dog, Donnie Darko, L’ultima tentazione di Cristo, Il tredicesimo guerriero, Tristano & Isotta, La caduta, L’appartamento spagnolo: sono tutti film conosciuti, per un motivo o per l’altro. Il primo parla di un samurai dei nostri tempi con le movenze di un rapper; il secondo tratta l’avventurosa esperienza dei viaggi nel tempo; il secondo il terzo racconta la storia di un dio che si è fatto uomo ed è morto per lavare i peccati degli uomini; il quarto è ambientato nelle lande brumose del nord in un’epoca buia, il Medioevo; il quinto riguarda una delle storie d’amore più famose, nonché tra le più tormentate di tutti i tempi; il sesto racchiude – per dirlo con Hannah Arendt – la «banalità del male» del Novecento, il nazismo; infine il settimo rappresenta un inno all’europeismo.

24.2.08

Into the wild (2007)

di Marco Apolloni

Film da “4 stelle”. Stupenda colonna sonora di Eddie Vedder (voce dei Pearl Jam). Bello e dannato il protagonista Emile Hirsch. Regia da Oscar di Sean Penn: sempre più bravo come regista, dopo un'invidiabile carriera da attore. Basato su una storia vera e tratto dal best-seller di Jon Krakauer (edito in Italia da Corbaccio, col titolo Nelle terre estreme). Solo la Bim poteva produrre e distribuire un film come questo, che segue il filone già avviato da: I diari della motocicletta (non a caso il direttore di fotografia Eric Gautier è lo stesso anche per Into the wild) e I segreti di Brokeback Mountain (pellicola che vede come protagonista, oltre a Jake Gyllenhaal, anche Heath Ledger, recentemente scomparso).


Siamo davanti ad un autentico miracolo cinematografico. Nonostante si tratti di un film lento, per qualsiasi giovane – ma non solo – è quasi impossibile non immedesimarsi nei panni del giovane inquieto Christopher McCandless: “sognatore errante solitario” alla ricerca della perla dell'illuminazione, che troverà – suo malgrado – solo quando i dadi saranno ormai tratti. Il protagonista somiglia tanto ad uno dei Vagabondi del Dharma di cui già il padre della beat-generation, Jack Kerouac, ci ha dato notizie. Christopher è figlio di buona famiglia, dall'avvenire certo, ma che decide di tagliare i ponti con il mondo per scoprire il vero se stesso. Le sue avventure iniziano come atto di ribellione nei confronti dei genitori, che oltre a non capirlo lo hanno cresciuto in un ambiente pieno di tensioni. Poi, però, man mano che il cammino prosegue, il suo diventerà sempre più un viaggio alla scoperta dell'autenticità della vita, sulle orme di Thoreau. L'esito scontato della sua spasmodica ricerca sarà l'essere-per-la-morte heideggeriano. Solo nella morte, infatti, lui potrà essere finalmente libero: dalle catene di una società capitalistica-consumistica che lo ha oppresso vita natural durante con false lusinghe. (Come la macchina nuova che volevano regalargli i suoi genitori ma che lui rifiuta preferendole la sua vecchia e scalcinata auto, se non altro più autentica.)


Il mistero di tutti i misteri è che non c'è nessun mistero. Christopher alias Alexander Supertramp se ne accorge quando è ormai troppo tardi. La felicità è tale solo se è condivisa: questa è la consapevolezza finale che lui acquisisce. Non c'è felicità nella solitudine. Il bell'aforisma byroniano che appare all'inizio è la chiave per capire l'intricata psicologia del nostro eroe anti-eroico: egli non ama di meno gli uomini, ma di più la Natura. Lui è un “Che Guevara” alla rovescia. Laddove il rivoluzionario argentino era convinto di trovare Dio negli altri, nei rapporti umani equiparati a rapporti divini – questo è in nuce il pensiero del giovane e sorprendentemente romantico Marx -, Christopher è invece un convinto panteista – dal greco pan che vuol dire tutto. Uno che come il filosofo agrigentino Empedocle non ha esitato a lasciarsi inghiottire dalle fauci spalancate del Vulcano della vita. Per tutta la durata del film, osservando la sua triste figura, si ha come il presentimento dell'imminente sfacelo. È come se lui avesse già in vita un piede nella fossa... La sua tardiva presa di coscienza a nulla gli varrà. Il veleno esistenziale è ormai entrato in circolo e lui non può più farci niente. L'unica cosa che gli rimane da fare, avvelenato da una pianta non commestibile e intrappolato in una roulotte abbandonata nel mezzo del nulla dell'Alaska, è dare un'ultima occhiata al cielo attraversato da nubi vorticose e dove s'intravede appena uno squarcio di azzurro – premonizione, chissà, della Bellezza paradisiaca che sembra occhieggiargli irresistibile.


Il mistero della Vita, che è la Morte, lo ha ormai attorcigliato nelle sue spire. E pensare che la sua occasione d'immortalità lui l'ha avuta. Questa aveva il viso di una dolce e misteriosa sedicenne incontrata quando andò a trovare una coppia di suoi amici neo-hippy in una comune nel deserto. Così è sfumata la sua occasione di fare di due: Uno! Quella che in una delle più belle pagine del Simposio – testo fondativo dell'amore in Occidente – Socrate/Platone chiama nostalgia dell'Uno. Per tutti i “trampolieri” di questo mondo: ricordatevi che l'origine è di chi sa ricondursi ad una meta, e viceversa. Dicasi: l'eterno ritorno dell'originario. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma...

P.S. Nelle terre estreme è un libro-inchiesta che poteva essere reso molto meglio. Sean Penn ha compiuto quasi un miracolo a cavarci fuori un così bel film. Dispiace doverlo ammettere, ma mi ha deluso parecchio. Sarà che erano troppo alte le aspettative... Sopravvalutato!