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23.2.09

Next (2007)

di Marco Apolloni

Tratto dal racconto di Philip K. Dick The Golden Man, Next diretto da Lee Tamahori è un godibile blockbuster. L'uno è un buon racconto, l'altro un buon film. Salvo che: il genere fantascientifico rende più al chiuso nelle sale buie del cinematografo, dove lo spettatore viene maggiormente coinvolto dagli effetti speciali, che rendono quella che è la visione di uno scrittore una materia non più astratta, ma rappresentata visivamente, dunque viva e pulsante. Perciò anche qui siamo davanti ad uno di quei casi, come tutte le altre pellicole fantascientifiche, dove il film è migliore del racconto che l'ha ispirato, senza nulla togliere a quest'ultimo. Pensare anticipatamente, predire il futuro – per quanto immediato e ravvicinato come può fare il nostro eroe Cris Johnson – è motivo di grande fascinazione. Dick nelle pagine del suo racconto abbozza l'idea che un uomo/animale dotato di un simile potere preveggente possieda il vantaggio o svantaggio, a seconda, di presentire la propria morte, dunque volendo di accettarla visto che sa che accadrà. A ben pensare: ogni morte è certa, lo sappiamo tutti – nostro malgrado –, ma sapere esattamente come si svolgerà l'intero film della propria vita è qualcosa di estremamente avvilente, ci toglierebbe il gusto della sorpresa e soprattutto ci priverebbe della forza titanica di combattere sino all'ultimo per cambiare la propria sorte. Titanismo insito in ogni agire umano e che sottende il tentativo proprio di ciascun uomo di elevarsi al di sopra della propria mortale condizione umana. Wisdom, direttore della divisione nordamericana della DCA – sorta di FBI cacciatrice di mutanti potenzialmente pericolosi – nonché uno dei protagonisti della novella dickiana, si rende conto meglio dei suoi colleghi dell'incredibile pericolosità in cui incorrerebbe la razza umana nel caso brulicassero tanti Cris Johnson. Essa sola ed unica artefice del proprio destino, nel bene e nel male, andrebbe presto a scomparire e subentrerebbe una razza più abietta di persone con appiccicata la loro data di scadenza, manco si trattasse dei cartoni del latte. Tema, questo, già espresso in un romanzo dickiano quale Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – da cui è stata tratta la visionaria trasposizione cinematografica Blade Runner del maestro Ridley Scott. L'interrogativo che si pone Dick è: se i poteri di Cris possono giovare o nuocere all'umanità; la risposta che viene delineata sia dalla pagina scritta che dai fotogrammi filmici propende più per la seconda ipotesi. Il Cris del regista Tamahori, che non è diciottenne, non è bello come un dio greco – non ce ne voglia il pur piacente Nicolas Cage che lo interpreta –, né tanto meno ricoperto d'alcuna patina d'oro e che in definitiva è decisamente più umanizzato rispetto al divinizzato Cris dello scrittore Dick, mostra proprio la sua grande sofferenza interiore nel vivere la sua condizione di super-eroe privilegiato. Cliché, questo, che appartiene un po' a tutta la filmografia hollywoodiana che trae la sua ispirazione dai super-eroi dei fumetti della Marvel & Comics, da Superman a Spiderman, tutti ragazzi problematici, che avvertono come un fardello i loro super-poteri come anche il Cristo gnostico di Scorsese di The last temptation. I mutanti come Cris se si riproducessero a dismisura, pericolo che avverte molto bene il direttore Wisdom, creerebbero una nuova razza di apatici, i quali trascorrerebbero i loro giorni vivendo schiacciati dal peso dell'inanità, sapendo tutto ciò che gli accadrà dal giorno della loro nascita fino a quello del loro trapasso definitivo. Una razza simile sarebbe disumana nel senso che sarebbe privata dell'essenza stessa della vita umana, che consiste in un'incessante scoperta quotidiana che noi tutti possiamo fare solo vivendo. Per quanto scontato possa sembrare il segreto svelato della Vita è vivere. Semplicemente e soltanto: vivere!

(Articolo tratto dalla Rivista di Arte, Cultura e Società: L'Aperitivo Illustrato, Numero 23, Gennaio 2009)

12.6.08

Recensione "Caos calmo"

di Marco Apolloni

Lo ammetto, in materia di libri non sono proprio uno sciovinista. Ma stavolta, con Caos calmo di Sandro Veronesi, mi son dovuto ricredere. È un libro piuttosto voluminoso, in teoria scoraggiante già a priori, anche se - leggicchiando il retro della copertina e dando una sfogliata furtiva all'opera in questione - ti fa sperare di trovarvi qualcosa per cui valga la pena leggerlo. La trama lineare e originale si dipana per 450 pagine senza mai annoiare il lettore - che del resto è il requisito essenziale per qualsiasi libro che si rispetti. Un padre di mezza età si ritrova dalla sera alla mattina a dover badare da solo alla sua bambina, a causa della morte improvvisa e inaspettata della sua compagna. Per farlo lui adotterà una tecnica davvero particolare: il primo giorno di rientro a scuola dopo le vacanze estive promette alla figlia di aspettarla fino al suono della campanella lì fuori, in modo da rimanerle più vicino e non farla sentire troppo sola. La figlioletta basita, accetta e schizza in classe. Passa un giorno, due, tre, quattro e questo papà eccentrico di nome Pietro Paladini ci prende l'abitudine e non si scolla più dal suo personale angolino, da cui osserva il brulichio della vita intorno a lui. Si ritaglia questo posticino nel mondo perché è sbalordito di non riuscire a soffrire per la perdita della compagna, con la quale peraltro si sarebbe dovuto sposare a breve. Sofferenza, invece, che egli vede riversarsi addosso da una lunga sequela di personaggi, i quali gli confessano le loro più inconfessate paure e angosce esistenziali. Una cognata già con due figli a carico a cui badare e messa incinta per la terza volta consecutiva da un tipo con cui è stata una notte e via e che quindi non potrà mai essere un padre modello. Cognata con la quale, peraltro, Pietro era finito a letto prima ancora di conoscere la sorella di lei, che sarebbe poi diventata la madre di sua figlia. Vi sono due stranissimi colleghi di lavoro: il kafkiano Piquet ed il gesuitico Enoch. Il primo più fulminato di una lampadina, ha una giovane amante, bella, che lo fa uscire dai gangheri con frasi sconnesse e volgari per poi subito dopo correggersi e negare l'accaduto. Il secondo si licenzia in tronco dalla compagnia perché non condivide le ragioni della fusione, che sta per abbattersi sulla loro azienda; perciò decide di rifugiarsi in una sperduta missione in Zimbabwe. Oltre ai suddetti personaggi, durante la sosta ad oltranza nella sua monovolume Pietro dovrà fare i conti con un'avvenente ragazza - che come unica occupazione fa spinning ogni mattina - e con la madre di un ragazzo affetto dalla “sindrome del cromosoma in più” - a cui Pietro regalerà delle piccole soddisfazioni salutandolo ogni volta coi fari lampeggianti della sua auto. C’è infine un altro vedovo, un perfetto sconosciuto, anch’egli di origine romana come Pietro, che lo invita per un'abbuffata di pastasciutta a casa sua e gli rivela tutta la sua comprensione, visto che pure lui ha dovuto affrontare la perdita della moglie. Azzeccata e funzionante in ogni minimo dettaglio è la lunga scena di “sesso africano” tra Pietro ed Eleonora Simoncini, magnate dell'industria dolciaria svizzera alla quale Pietro aveva salvato la vita il giorno in cui venne a mancare Lara, la sua compagna. Riassumendo, Caos calmo è un libro che consiglio caldamente di leggere. Arrivato all'ultima riga dell'ultima pagina mi è venuto in mente un paragone lusinghiero sull'autore: si potrebbe dire che Sandro Veronesi è il Nick Hornby italiano, solo molto più bravo di Hornby. In effetti, a pensarci bene, per ogni bel libro straniero che comprate ce n'è uno italiano altrettanto bello, che merita qualche quattrino di fiducia in più. (ndr. Dal romanzo è stato tratto il film di Antonello Grimaldi, interpretato da Nanni Moretti ed Isabella Ferrari - rispettivamente Pietro Paladini ed Eleonora Simoncini - vincitore di tre David di Donatello.)

24.10.07

Laboratorio Beat 1.0

Quello scritto e diretto da Corrado Accordino (“Cattivi Maestri, ovvero i sacri Idioti d'America”, al teatro Binario7 di Monza) è uno spettacolo che parla di una generazione intera, di un movimento nato sulle strade dell’America ed esploso in tutto il mondo, di uno spaccato di artisti coraggiosi e sperimentali, di un affresco degli anni ’50 e ’60 – in cui musica e parole, intelligenze e cuori, si inseguivano tra cielo e terra, polvere e sole, per fondersi, completarsi, specchiarsi verso un nuovo possibile orizzonte…. Lo spettacolo vuole raccontare e far rivivere quella generazione che qualcuno definì “bruciata” e qualcun altro definì dei “sacri idioti d’America” e che in ogni caso raccolse un grande consenso e diede vita al movimento dei "figli dei fiori" e dei beatniks. La musica jazz era il giusto esplosivo per far risuonare le visioni letterarie nate dalle menti di Jack Kerouac, Neal Cassady, Allen Ginsberg, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, e altri scrittori che trovarono nelle nuove esplorazioni musicali un sostegno creativo e un senso di comunione tra parole suoni e visioni.

(note di regia)


Silvia Del Beccaro

Occhi gonfi, testa pesante, dita scrocchianti. Nulla mi ferma davanti all’occasione unica e irrepetibile – forse – di poter lasciare scorrere il mio flusso beat. Ispirata da uno splendido spettacolo jazzista beatiano, cullata dalla luce di tre candeline azzurre che ho trovato nascoste nell’armadio a fianco – anche se mi tocca tenere accesa comunque la lampadina a risparmio energetico, per poter vedere i tasti del mio pc a manovella –, batto parola dopo parola i miei pensieri più reconditi. Pensare, pensare, pensare… Non mi resta molto in testa alle 23.44 di sera, ma tutto sommato le mie mani riescono ancora a suonare il pianoforte dei miei pensieri. Sento passi nel corridoio, passi di fantasmi. Sarà la notte, sarà il silenzio, sarà l’alcool etilico della sonnolenza che mi sta inebriando da ore. Ma adesso sono qui. E nulla può fermare questa mia parentesi beat. Corrado ha raccontato la storia del movimento attraverso note e parole, musica e ballo, esperienze e passioni. Io la racconto a modo mio. Parlo di libera interpretazione. Libero arbitrio. Ognuno sceglie ciò che meglio crede. Il mio, di raccontare la beat generation, è questo. Sentirmi una di loro. Ho sbagliato epoca, avrei dovuto vivere negli anni Cinquanta – dico sempre. Le pettinature di una volta, i jeans di una volta, l’amore di una volta. Si faceva all’amore, non lo si raccontava solamente. Si pensava di poter cambiare qualcosa, cambiare gli schemi. E forse qualcuno ci è riuscito. Qualcun altro no. Ma chissenefrega. Guardo loro, guardo me, ripenso a loro, ripenso a me. Mi sento una di loro è vero ma non sono come loro. Cazzo che sonno, ma questo non è molto beat vero? Eppure sono un’artista. Scrivere delle onde come foglie all’idrogeno che si elevano verso il sole, degli stormi di gabbiani come angeli infuocati. E’ questo che amo. E’ questo che è beat. Scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere… Di sé, degli altri. La parola chiave è: s-c-r-i-v-e-r-e. Scrivere con il fuoco della passione dentro. Un fuoco che arde di novità, di protesta, di chiacchiere, di sogni, di droga, di alcool, di stupore, di sperimentazione, di… Sesso. Sperimentare nel sesso. Esperienze nuove, è questo che aiuta a rinnovare se stessi. È questo che aiuta a scoprire noi stessi. E a raccontarci agli altri. Scrivere del mondo che abbiamo davanti e dentro. Scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere. Solo scrivere. Una pagina vuota, poi il flusso parte. Tre, quattro righe scritte e il flusso si interrompe. Poi riparte automaticamente. E poi ancora si ferma bruscamente. Come un treno in corsa che interrompe di colpo il suo viaggio quando all’orizzonte scorge un uomo sdraiato sulle rotaie del suo destino. Scrivere è fondamentale per un beat, che non si blocca per paura che il suo flusso possa interrompersi da un momento all’altro. Vorrà dire che quello è stato il suo momento. Quello è stato il momento del suo flusso. Domani ne sopraggiungerà un altro, e un altro ancora. E così via all’infinito. Strada, viaggio. Bottiglia, morte. Musica, fotografia. Amore, jazz. Droga, riposo. Omosessualità, poesia. Beat è questo e altro ancora. E’ una trasfusione di sangue ossigenato, è un vortice di flussi ininterrotti pronti ad esplodere dalle viscere del nostro corpo. Mi ricordo della prima volta in cui mi ubriacai. Stavo ad una festa di compleanno, appena compiuti i diciotto anni. Avevo già previsto che sarei uscita sbronza da lì. Limoncello e vino, rosso e bianco, un mix di dolcezza e amarezza insieme. Poi quella canna fatale. Il profumo dolciastro della prima tirata – che gli altri passeggeri ebbero l’onore di assaggiare – mi fece sbroccare parole senza senso. Vomitai fiumi di pensieri fino a che il mio viso divenne bianco come la sposa cadavere e mi ravvisò dell’ora di rinsavire. Se solo ricordassi quei miei soliloqui sbronzi. In vino veritas. E in limoncello pure. Così come per la tequila, il rum e la sangria. Stavo pensando di raccogliere questo mio discorso in un monologo intitolato sproloqui-per-caso – non so come mai, ma riesco sempre a trovare i titoli delle mie opere inedite. Mancano solo i contenuti e poi il gioco è fatto. Da grande voglio fare la drammaturga. Accordino è un maestro in questo. Lui riesce ad essere ciò che scrive e a scrivere ciò che è.


FIRMATO: Una Beat!

4.9.07

Le "Considerazioni di un impolitico" di Thomas Mann

di Marco Apolloni


Le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann


Premessa (doverosa!)


Con tutto il bene che gli vogliamo, mai e poi mai potremo perdonare a Thomas Mann di aver scritto un libro tanto vergognoso come le Considerazioni di un impolitico. Il titolo più opportuno dello stesso sarebbe dovuto essere: Deliri, lamenti, vaneggiamenti di un guerrafondaio... Di certo si tratta di un'opera scandalosa in tutti i sensi e come minimo un tantino stramba. Tuttavia in questa sua opera Mann dice delle cose in parte ragionevoli. Ammesso che si possano definire tali delle idiozie: “ragionevoli idiozie”, infatti, non ci sembra suonare granché bene. Per certi versi questa confessione può anche dirsi una sorta di regolamento di conti con la sua coscienza faustiana, che mai per nessuno, come per un tedesco, vuol dire tanto. Sfogliandolo, pagina dopo pagina, la materia controversa di questo saggio fluviale – per le dimensioni – si svela sempre più. Nonostante dunque tutta la genuinità e l'intimità implicita nelle Confessioni, qui Mann dice delle cose assai gravi e pericolose sulla guerra come esperienza forgiatrice dei popoli, riprendendo la solita tiritera da camerata “crucco” sull'esperienza mistica del Fronterlebnis, riprese in maniera ancor più radicale dallo scrittore Ernst Jünger (che potremmo ribattezzare: il D'Annunzio di Germania...). La sua rivalutazione della guerra in chiave ultra-vitalistica è tanto più obbrobriosa e miserabile se si considera la penna virtuosa da cui è scaturita.
Obbrobriosa perché non si può essere, in nessun caso, sani di mente se si è dalla parte di quell'immane carneficina che è la Guerra; pur con tutti i migliori giri di parole e voli pindarici di questo mondo, se si è per la Guerra si è unicamente dei folli. Miserabile, invece, perché se un intellettuale del calibro di Mann ha potuto anche solo concepire simili impuri e masochistici pensieri, è ancor più colpevole di crimini contro l'umanità, poiché un uomo così ingegnoso non può dire quel che dice senz'alcuna cognizione di causa.
Una parziale – badate bene, non totale – discolpa gliela dobbiamo per il suo sublime capolavoro: La montagna incantata, in cui l'umanista Settembrini – cioè il nuovo Mann, progressista – trionfa sul nichilista Naphta – ossia il vecchio e decrepito Mann, altresì ostinatamente conservatore. Il caos che imperversa nella sua anima pare finalmente placarsi e il punteggio della sua personale sfida interiore fissarsi sull'uno-a-zero a favore dell'Umanesimo, che trionfa finalmente sul Nichilismo...
***

Esordendo nella sua premessa, Mann liquida questa sua fatica intellettuale, come opera d'artista e non d'arte. Come, in un certo senso, a voler giustificare implicitamente le sue turbolenze espressive e alcune convinzioni subitanee dettate dalle esigenze del momento – e che poi l'hanno visto costretto a doversi rimangiare, almeno in parte, quanto qui affermato. La prima distinzione che salta all'occhio è quella da lui operata per separare le weltanschuung delle due potenze continentali europee, da sempre antagoniste: da una parte la Germania, patria del Geist, dello Spirito Assoluto hegeliano e della ragion pura kantiana, colonia di pensatori viscerali; dall'altra la Francia, patria della politica o meglio della democrazia politica – dato che democrazia e politica sono due termini tra loro inter-scambiali: chi fa politica, infatti, non può rinunciare all'essere democratico, pena il suo essere stesso politico. Curiosa innanzitutto è la dualità-rivalità che si è venuta a creare tra Rousseau ed Hegel. Se il primo è considerato non a caso il filosofo delloo «stato di natura», della ribellione contro una società profondamente ingiusta poiché ineguale e dunque critico spietato dell'Autorità costituita – nonostante la parziale involuzione, anche se dovremmo chiamarla meglio evoluzione, avutasi con il Contratto sociale; il secondo invece è passato alla storia come pensatore-baluardo dello Stato, quindi dell'Autorità, nonostante Marx – il più illustre dei suoi discepoli posteriori – abbia provocato l'insanabile e profonda spaccatura tra la destra idealista hegeliana e la sinistra pragmatista hegeliana. Questo continuo appellarsi al principio di Autorità, questo centralismo sfrenato ha prodotto il consolidamento di uno Stato sempre più autocratico; ed esaminando i meri fatti storici ciò ha portato a compimento l'immane sciagura della Germania: culminata con la vergognosa e criminosa ideologia nazista.
Le differenze tra la Francia e la Germania non si esauriscono solo nella coppia antinomica politica e spirito ma anche: Civilization e Kultur, diritto di voto e libertà di voto, letteratura e arte, società e anima. (Già, ancora una volta ritorna il concetto di anima: concetto che ha dannato il popolo tedesco, ma che per un tedesco è più importante di qualunque altra cosa. Anche se è quanto meno curioso che proprio dal popolo con più anima di tutti, quale quello tedesco, si è potuto avverare l'inconcepibile rappresentato da Auschwitz e dalla sua lucida follia di efficiente macchina di morte. Ma questo è un altro discorso e con Mann – e quelli come lui – ha a che fare solo indirettamente.) Infine, vi è un'ultima coppia antinomica che riconosce nella Francia la patria del bourgeois, del civil-letterato internazionalista; mentre nella Germania la patria del Bürger, dell'artista-soldato cosmopolita. Già perché sempre secondo Mann – e non secondo lui solo – esisterebbero delle inusitate similitudini e una segreta alchimia tra il mestiere dell'artista e quello del soldato: entrambi si arruolano in un esercito ideale che li vede combattere e talvolta perire per un ideale; non importa se giusto o sbagliato, purché d'ideale si tratti. Il cosmopolitismo germanico si richiama a quei valori intramontabili dell'antica Grecia – di cui la Germania si sente l'erede legittima su un piano squisitamente spirituale. Per cosmopolita s'intende l'essere cittadini del mondo, spiriti liberi che galoppano con destrieri alati sui cieli iperuranici, che non vogliono per nessun motivo mischiarsi in quel pantano-guazzabuglio che è il mondo.
La volontà-esigenza dell'intellettuale-artista tedesco di non volersi impicciare degli affari terreni – che lo interessano solo come ad un dio può interessare una sua creazione inferiore – e di non volersi affatto mischiare con la folla caotica, sono i tratti salienti della sua natura perfettamente impolitica. Si badi bene, però, no apolitica: poiché ad ogni modo in lui si conserva, seppur inconsciamente, il carattere pregnante della politica. Del resto è lo stesso Mann ad ammetterlo, con grande onestà intellettuale, per quanto ci si dica contro la politica, non si può in alcun modo prescindere da essa, che è parte integrante delle nostre vite. Per dirlo con il sommo Aristotele: l'uomo è un «animale politico»! (Già, poiché anche solo esprimendo dei semplici giudizi di valore, si esprime – seppur senza esserne consapevoli – dei giudizi politici.) Mann non è amante di quel modo di pensare tipico dei popoli latini secondo cui: «Piove, abbasso il governo!». Proprio nella sua natura impolitica egli vede incarnarsi la manifestazione più nobile del suo popolo. È come se lui, appellandosi ad alcuni concetti mirabilmente espressi nella Repubblica di Platone, volesse dire che il suo popolo è chiamato a fare politica perché vi è obbligato – trattasi di un obbligo morale – e proprio per questo la farà meglio di chi invece la fa solo per squallidi interessi privati, invece che per perseguire – come dovrebbe – il bene comune.
Si ricordi inoltre che Mann ordina questi suoi pensieri, a cavallo della Grande Guerra, in un momento in cui la Germania si trovava accerchiata su più fronti dai suoi irriducibili nemici. Per questo vanno presi con smodata cautela alcuni strali polemici manniani, esageratamente e pateticamente filo-patriottici, in quanto frutto del suo spontaneo e subitaneo arruolamento ideologico. Il bersaglio polemico più colpito da Mann nelle sue Considerazioni – a parte suo fratello Heinrich, autore dello Zola e letterato di netta ispirazione filo-francese – è Romain Rolland celebre autore del Jean-Christophe, che in una raccolta di articoli dal titolo Au-dessus de la Mêlée liquida come «monstreaux» alcune argomentazioni di Mann pro-guerra. La Prima guerra mondiale è stata definita da Mann – non senza un pizzico di orgoglio – come una guerra incontrovertibilmente tedesca, una guerra che affonda le sue radici nel protestantesimo viscerale della Germania luterana, in perenne rivolta contro il mondo romano incivilito – da ricordare che per lui l'incivilimento di un popolo non è che il principio del suo decadimento morale – e tutti gli eredi del medesimo. Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Russia: tra questi nemici per Mann solo quest'ultimo forse – pur sempre facente parte dell'imponente Intesa messa in piedi per sconfiggere la Germania – è quello più in sintonia con il modo di pensare tipico tedesco. In quest'ottica si spiega il rinvio che lui fa a Dostoevskij, il quale vedeva sia nella sua Russia che nella Germania, gli ultimi due baluardi del conservatorismo mondiale, l'uno ad Oriente e l'altro ad Occidente, deputati a frapporsi alle orde del cieco e sfrenato progresso. Occorre precisare cosa intenda Dostoevskij per conservatorismo. Con ciò lui intende il mistico richiamo ad una tradizione di valori spirituali – riconducibili ad un cristianesimo riformato, sia esso ortodosso oppure protestante –, di cui la Germania (da una parte) e la Russia (dall'altra) si sentono le ideali eredi legittime e aventi il preciso compito di diffondere tali valori, per frenare la discesa del mondo nel limbo della décadence: cimitero d'ideali fatiscenti...
Le imprese militari del grande condottiero germanico Arminio, la perpetua protesta contro il papato romano – culminata con l'affissione delle novantacinque tesi luterane a Wittenberg (1525) –, le battaglie contro gli eserciti napoleonici (1813-14), la guerra vittoriosa contro la Francia (1870-71) – che ha poi sancito l'unificazione tedesca: per Mann non sono che esempi per rivendicare la legittimità della Prima guerra mondiale come guerra eminentemente tedesca, che avrebbe dovuto riscattare il destino di un popolo; il quale sarebbe dovuto uscire una volta per tutte dall'accerchiamento nel quale si vedeva costretto, territorialmente strangolato al centro dell'Europa, con un Leviatano – mostro di biblica memoria – ad Occidente, costituito dalle potenze europee e dalla nascente super-potenza statunitense, e un altro invece ad Oriente, costituito dalla selvaggia e imprevedibile super-potenza russa. La categoria del destino, in particolare, è quella ben più gravida di significati: come se la Grande Guerra fosse stata la missione espiatoria a cui il popolo tedesco avrebbe dovuto assolvere inderogabilmente per salvare la propria anima...
Il predominio dell'etica sull'estetica è ciò che contraddistingue la saldezza del popolo tedesco rispetto alla mollezza dei popoli latini. La «bellezza» – sostiene Mann – è roba da italiani, che lui definisce implacabilmente «spaghettanti dello spirito»1. Grande merito della sua patria, secondo lui, è quello di essere un fervido terreno di scontro-incontro, nonché miniera inesauribile d'idee antagoniste ma non per questo inconciliabili fra loro. Proprio le insanabili controversie della Germania contribuiscono a farne un autentico pozzo di San Patrizio, ovvero un abisso senza fondo al quale attingere per ben capire la complessa natura tedesca. Senza la sua problematicità interna la Germania esploderebbe al minimo soffio d'aria come una bolla di sapone. Ciò che non è problematico, non è degno di considerarsi tedesco. In definitiva: il requisito minimo e indispensabile per essere-tedeschi è appunto l'essere-problematici. (Addirittura Mann, con sfrontata presunzione, arriva a dire che non si può essere filosofi senza essere al contempo tedeschi. Trascurando il fatto che i pur grandi Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx e Nietzsche sono sì stati dei grandi pensatori, ma come filosofi sono stati poco più che “ripetitori” – seppur magistrali – dei grandi filosofi greci del passato, su tutti: Platone e Aristotele.) Dunque, un'espressione tipica della problematicità insita nella natura tedesca può persino essere il sentimento anti-patriottico, in quanto prodotto delle interne contraddizioni di chi è figlio della patria tedesca. D'altronde l'anti-patriottismo che c'è in Germania sarebbe impensabile in altre patrie europee come le arci-nemiche: Francia e Inghilterra. È un po' come se Mann ci volesse dire che solo un tedesco può odiare finanche amare – del resto odio e amore sono i due rovesci della stessa medaglia – in maniera tanto viscerale la sua stessa patria.
I colpi più sferzanti Mann li riserva contro il pacifismo ipocrita del civil-letterato, che è tanto contrario agli spargimenti di sangue quanto non disdegna adoperare la ghigliottina come mezzo – poco importa se aberrante – per raggiungere i suoi fini. La “guerra santa” – volendo usare un maligno eufemismo, dato che ad oggi non si conoscono ancora guerre sante (semmai ce n'è stata qualcheduna giusta, vedi la guerra al nazismo, ma sante proprio nessuna) – della Germania contro l'«Entente» messo su apposta per demolirla è tanto più ammantata di tutti i crismi della santità; visto e considerato che si frappone ad un'unione mercantilistica di paesi “trentadenari”, pronti a tutto pur di salvare il loro “vil denaro”. Inchinarsi all'«Entente» per la Germania avrebbe significato, quindi, abbandonare l'Europa all'effeminatezza-raffinatezza dei francesi e al mercantilismo-affarismo degli inglesi. Per dirlo con la mordente satira manniana, se la Germania non avesse saputo perdere la guerra con la ferrea dignità di cui è stata capace, a quest'ora: «Il resultato increscioso sarebbe stato un'Europa, diciamo, un po' buffa, di una piatta umanità, corrotta in forme triviali, di un'eleganza femminea, un'Europa già un po' troppo 'umana', da stampa d'assalto, vociferante democrazia, un'Europa con la mentalità del tango e del two-step, un'Europa affarista e gaudente alla Edoardo VII, montecarlesca, letteraria come una cocotte parigina [...]»2. (Malgrado, però, la natura estremamente faziosa di questo esempio di prosa manniana, bisogna dare atto all'autore della sua incredibile genialità letteraria – intesa come capacità di re-inventare di continuo la lingua usata, adoperando bizzarre ma altamente efficaci costruzioni linguistiche. Difatti una critica spietata delle Considerazioni è plausibile solo da un punto di vista meramente concettuale – in quanto è qui contenuta una morale, alla maniera nietzscheana, un tantino Al di là del bene e del male –, poiché l'abilità letteraria del suo autore è indiscutibile. Del resto c'è da scommetterci che nessuno avrebbe mai e poi mai preso neppure in considerazione quest'opera, se essa fosse stata scritta con un linguaggio arido e privo del benché minimo talento o gusto artistico...). Ciò che Mann non riesce proprio a perdonare all'Impero della civilizzazione capeggiato da Francia e Inghilterra è l'annichilimento stesso dell'arte; che per un'artista come lui è cosa davvero inaudita! Livellando le coscienze individuali sul medesimo piano degli interessi privati si sopprime inevitabilmente quell'anelito spirituale, che è il motore propulsore dell'anima di un uomo. Appunto per questo il timore di Mann è che con il progredire della civilizzazione si arrivi ad un punto di non ritorno, ad un mondo senz'anima, in cui gli uomini non fanno niente per niente e sono mossi unicamente dal mero calcolo.
Mann poi continua a sputare fuoco contro il progresso che ha tutto dalla sua parte, comprese le migliori penne, ovvero: tanti giovani scribacchini dall'animo traboccante d'umanità, i quali sprecano fiumi d'inchiostro facendo gli oracoli dell'amore del prossimo. A sentir loro si sacrificherebbero per il bene dell'umanità, anche se nessuno li ha mai visti muovere un'unghia a favore di chicchessia. Difatti, spesso e volentieri, un'amore disinteressato verso tutti gli uomini può non corrispondere affatto, all'atto pratico, ad un amore autenticamente genuino per il singolo essere umano. In questa sua critica dei buoni sentimenti da quattro soldi sulla carta stampata, che non ha mai prodotto altrettante azioni caritatevoli nella realtà quotidiana, Mann ha senz'altro ragione. Nondimeno, però, l'ipocrisia di alcuni gli dà diritto a fare di tutta un'erba un fascio e a liquidare come sbagliato e controproducente qualsivoglia forma di amore verso il prossimo.
Ripercorrendo le biografie e il pensiero di tre grandi tedeschi – Wagner, Schopenhauer e Nietzsche – Mann disegna i tratti essenziali del carattere tedesco. Per dirlo con Nietzsche, mentre si stava riferendo al suo sommo maestro: «Quel che mi piace in Wagner è quello che mi piace in Schopenhauer: l'aura etica, il sentore faustiano, croce, morte e sepolcro»3. Quando Nietzsche dice: «croce, morte e sepolcro», si riferisce ad una celebre incisione düreriana che ben rappresenta evocativamente la quintessenza dello spirito tedesco: non insensibile al fascino nichilistico della putrefazione. Lo stesso Mann, con la durezza di cui è capace, afferma perentoriamente: «Io sono un cronista e un interprete della decadenza, amatore del patologico e della morte, un esteta cupido di abisso.»4. Del resto i temi sepolcrali percorrono tutto il movimento romantico fino a confluire nel nazionalismo che dal primo trae spunto e ne costituisce il naturale prolungamento. Se un sentimento è tanto più applicabile ad un tedesco quello è senza dubbio il sentimento del tragico. Già, poiché la tragedia era marcata a caratteri di fuoco sulle coscienze travagliate di milioni di tedeschi, i quali venivano chiamati all'azione – con la Prima guerra mondiale – loro malgrado, costretti dalla prepotenza altrui. Come gli eroi della tragedia, che vengono chiamati a dover compiere a tutti i costi una missione – diremmo quasi sovrumana – al di là di ogni possibilità di riuscita, ma nondimeno affranti o minimamente scoraggiati nel volerla adempiere, contro tutto e tutti. È proprio questa nota eroica del suo popolo – chiamato ad un'impresa fuori da ogni portata – che più tocca le sensibili corde dell'animo di Mann, il quale per questo motivo non può non patteggiare per la causa di chi è già condannato in partenza. Lui confessa di non essere un pensatore inflessibile o dogmatico e anzi non disdegna cambiare idea teso com'è alla spasmodica ricerca «di verità nuova, fresca e rinfrescante.»5, poiché chi vive tutta la vita con una sola idea fissa in testa è una ben misera persona, dato che d'idee sempreverdi è pieno il mondo!
Compito di un'artista, generalmente, è quello di ordinare il caos che ha dentro di sé, dando una forma a ciò che è informe e generare pertanto stelle danzanti, parafrasando Nietzsche. Ovvero un'artista ha il dovere inalienabile e sacrosanto di comporre opere che sopravvivano nel tempo alle periture azioni umane. Un'artista, solitamente, non dovrebbe impicciarsi di quel che avviene nel suo spazio-tempo, bensì dovrebbe vivere in esilio nella sua riservatezza così da trovare il suo paradiso interiore, ove poter comporre in tutta libertà i suoi capolavori fuori dal tempo e dallo spazio. Il motivo per cui certe opere divengono immortali è che possono essere altrettanto efficaci in ogni epoca passata o futura e in ogni anfratto della terra. Ciò vuol dire, che essa è stata capace di muovere sentimenti universali e universalmente validi. Per questo capirete bene come sia stato difficile per Mann riversare la sua verve critica nelle pagine delle Confessioni, compiendo pertanto un vero e proprio atto di costrizione, forzato e contro-natura, poiché da che mondo è mondo un'artista non si sarebbe mai e poi mai sognato di dire in condizioni normali quanto da lui qui espresso. Tuttavia l'epoca storica in cui scrive questa sua opera-fiume non presenta di certo condizioni normali, semmai altamente eccezionali. Tanto che persino un'artista del suo calibro si sente in dovere di prender partito e non restarsene, come vorrebbe Rolland, al di sopra della mischia – Au-dessus de la Mêlée. Mann è profondamente convinto, infatti, che talvolta per andare fino in fondo occorre sporcarsi le mani, a costo di perdere la propria innocenza. Una cosa è certa per lui: se la Francia si sente presuntuosamente tanto pura e innocente, tali sentimenti di purezza e innocenza non corrispondono invece alla Germania, conscia della propria colpevolezza. I tedeschi hanno se non altro il coraggio di addossarsi le loro colpe, al contrario dei francesi. «Scagli la prima pietra chi è senza colpa» ci vien voglia di ripetere modificando leggermente il messaggio evangelico. Il mondo non è un posto esente da colpe, a cominciare dal peccato originale commesso dal primo uomo nei giorni successivi alla creazione. Dunque, dal momento in cui si viene al mondo, ci si dimentica la propria innocenza – che diventa solo uno sbiadito ricordo.
«Democratico» dice Mann «è oggi qualunque imbecille»6 e con ciò ritorna all'attacco dei regimi parlamentari-democratici. Come Schopenhauer anche Mann è per la monarchia, che è secondo lui il regime più dignitoso e autonomo che vi possa essere. A detta sua, l'unico risultato prodotto dalle odierne «demoretoricrazie» è che la politica si è impaludata nell'economia. Perciò lui odia tanto la politica, preferendole di gran lunga una ben più solida formazione spirituale del singolo. Egli definisce pertanto la sua posizione monarchica nei seguenti termini: «Voglio la monarchia perché è stata sempre l'indipendenza del regime monarchico dagli interessi economici che ha fruttato ai tedeschi la posizione-guida nella politica sociale. Io non voglio il gran trafficare dei parlamenti e dei partiti che finisce con l'appestare di politica tutta la vita nazionale. Io non voglio che Dreyfus venga condannato per politica e assolto per politica, perché assolvere un innocente per motivi di politica non è meno ripugnante che condannarlo per gli stessi motivi [...]» e così via. L'illusione di Mann che una manciata di reali possa salvaguardare la dignità e l'abito spirituale di un popolo è quanto meno: fanciullesca, nostalgica e pure un po' ancien régime. Certo lui non si sbaglia nel dipingere il caos apparente delle democrazie parlamentari, che tuttavia contengono al loro interno un principio superiore ed affascinante, cioè quel tentativo – quasi titanico oseremmo dire – di conciliare fra loro posizioni inconciliabili, trovando cosicché una pur labile armonia nella disarmonia generale. Certo anche il fatto che l'economia, spesso e volentieri, si frappone alla politica soffocandola sul nascere è una cosa senz'altro poco rassicurante, ma di sicuro vale la pena correre il rischio nel tentativo di creare una società più giusta, che combatta la diseguaglianza e in cui la massima aspirazione sia che tutti gli uomini nascano eguali e progrediscano nella scala sociale in virtù delle loro capacità individuali e non a desueti privilegi di casta.
Conservatore e nazionalista, argomenta Mann, vanno di pari passo con democratico e internazionalista. Contro i fautori dell'internazionalismo, disposti a sacrificare la propria patria sull'altare di un'utopica identità comune: lui si scaglia con gran veemenza. A cominciare dal primo pensatore internazionalista di cui si conservi memoria: Jean-Jacques Rousseau. Di quest'ultimo viene citata quest'affermazione: «Oggi non ci sono più francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi, comunque si pensi in proposito; esistono solo europei che hanno tutti lo stesso gusto, le stesse passioni, gli stessi costumi perché nessuno di loro ha serbato, grazie a particolari istituzioni, un'impronta nazionale»7. Traendo spunto da tale considerazione rousseauiana Mann chiarisce che non si può essere «politico e democratico senza essere antinazionale e radical-cosmopolita.»8 e dicendo ciò centra in pieno la questione. Il più celebre discepolo rousseauiano, Robespierre, da vero democratico credeva con tutto il suo animo nella signoria del popolo. Il vuoto populismo dei democratici alla Robespierre vorrebbe darci ad intendere che sia stato il popolo, di testa sua, a fare l'89; mentre esso semmai era solo capace di una violenza inaudita e di una volubilità imprevedibile. Anzi, a dirla tutta, il popolo di suo è conservatore. Solo una combinazione fortunata ha determinato la Rivoluzione francese: laddove un'avanguardia di intellettuali dominati perlopiù da principi di etica-forense hanno saputo cavalcare il malcontento delle masse affamate. Dunque, secondo Mann, la Rivoluzione è stata poco più che un “capriccio”, una “sbornia” collettiva durata il tempo necessario per smaltire tutta l'ebbrezza in circolo nelle vene. Il popolo, checché se ne dica, ha dimostrato di non essere più buono della più brutale delle teste coronate.
Portando gli esempi di Aristofane e del – già citato – Dostoevskij9 Mann vuole dimostrarci come i più grandi uomini siano stati non solo dei conservatori, ma addirittura degli oscurantisti. I meriti letterari sia dell'uno che dell'altro non si discutono, ma da qui a spacciarli per grandi uomini occorre andarci cauti, poiché se con ciò si vuole intendere coloro che hanno più inciso sui loro tempi, allora dovremmo includere nella categoria persino la feccia più schiumosa e ribollente della terra: Hitler e Stalin compresi – solo per fare i due nomi più famigerati. L'intellettuale più conservatore di cui si abbia traccia, ancor più di Dostoevskij stesso fu senz'altro Nietzsche. Se il primo, infatti, perlomeno si limitò a demolire il cristianesimo romano, l'altro invece si spinse fino a polverizzare letteralmente l'intero edificio cristiano: protestantesimo compreso. (Poiché per lui un cristiano protestante era ancor più colpevole di un cristiano cattolico, in quanto più consapevole di quest'ultimo e ciononostante addomesticato dalla «morale da eunuchi» cristiana10.) Chiunque legga le opere di Nietzsche, difficilmente potrà resistere al fascino letterario che esse sprigionano: nessuno avrebbe preso in considerazione, ad esempio, la maledizione da lui lanciata contro il cristianesimo, se solo egli non avesse scritto così come scriveva. Tuttavia, superata una prima distratta lettura delle sue opere, non si può che individuare in lui un deficit cronico: lodevole sì nella straordinaria abilità a demolire le argomentazioni altrui, ma con una ben misera applicazione a proporre argomentazioni proprie e costruttive. È facile demolire con le parole, senza però avere la benché minima intenzione di costruire con i fatti. Al giorno d'oggi non basta più scrivere dissacranti e provocatorie proposizioni alla Nietzsche, occorre avere coscienza di quel che si va blaterando. Abbiamo visto tutti a che estreme conseguenze hanno portato – seppur Nietzsche, non ne abbia avuto alcuna diretta responsabilità – i temi della filosofia nietzscheana. I deliri, i vaneggiamenti di Hitler non avrebbero mai e poi mai esercitato l'inquietante fascino che altresì esercitarono su molti pensatori – Heidegger in primis –, se questi ultimi non avessero visto nella dottrina razzista hitleriana il naturale compendio alla dottrina nietzscheana dello Übermensch. Se Così parlò Zarathustra per il nazismo fu l'equivalente della kantiana Critica della ragion pura, viceversa il Mein Kampf rappresentò l'equivalente della altrettanto kantiana Critica della ragion pratica... Ciò a testimonio di come secoli di storia tedesca hanno preparato il triste avvento di quel nefando “uomo della Provvidenza”, tale Adolph Hitler, il quale fu l'incarnazione stessa dell'Anticristo nietzscheano. Chiudiamo con questo mirabile passaggio tratto dalle Confessioni manniane, che ci auguriamo possa indurre un'attenta e scrupolosa riflessione sui temi fin qui trattati.


Non a tutti la natura concede la felice alleanza col proprio tempo e col progresso, non a tutti si confà la salute democratica. Se uno dispone di poderose spalle e di una robusta dentatura e si chiama Zola, Bjørnstjerne Bjørnson o Roosvelt, può darsi che ne resulti un effetto armonioso. Se uno è nato invece un po' vecchio e un po' nobile, con una vocazione naturale per il dubbio, per l'ironia e la malinconia, se il vital rossore che mostra in viso è di congestione o di belletto, se è, in fondo, estetismo, allora la faccenda ha una sua decenza morale che io non posso ignorare. C'è qualcosa che io ho sempre definito, fra me, il «tradimento della croce». E anche la virtù, anche la 'democrazia', anche la voluttuosa impulsività politica significano a volte solo questo: il tradimento della croce. 11

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1 T., Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997, cit. p. 123.
2 Ibidem, cit. p. 84-85.
3 Ibidem, cit. p. 162.
4 Ibidem, cit. p. 170.
5 Ibidem, cit. p. 189.
6 Ibidem, cit. p. 266.
7 Ibidem, cit. p. 273.
8 Ibidem, cit. p. 274.
9 Ibidem, vedi p. 375.
10 Si riveda in proposito la Seconda proposizione da Nietzsche stilata in appendice a Der Antichrist. F., Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi, Milano, 2004, p. 98.
11 T., Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997, cit. p. 430.

4.7.07

La vicenda romanzata di Tristano e Isotta

di Marco Apolloni

Esistono numerose fonti che celebrano le gesta dei due amanti più famosi d'Occidente: Tristano e Isotta. Tuttavia qui prenderemo in considerazione la summa di tutta la leggenda compiuta dal filologo francese Joseph Bédier intitolata appunto Il romanzo di Tristano e Isotta, che ha saputo miscelare le tre versioni classiche di Béroul, Tommaso e Goffredo.
Già la venuta al mondo di Tristano lascia presagire un'esistenza tribolata, il suo nome infatti gli viene dato dalla sua morente madre Biancofiore. Orfano sia di madre che di padre (il re Rivalen di Leonis, ucciso dal feroce Morgano), Tristano viene cresciuto da Roalto: fedele vassallo di suo padre. Questi a sua volta lo affida alle cure del saggio scudiero Governale, che lo inizia ai segreti della cavalleria e della cortesia.
Le avventure di Tristano iniziano con il suo rapimento ad opera di pirati norvegesi, i quali però lo abbandonano ai flutti per paura di attirarsi la malevolenza divina. Miracolosamente il prode Tristano riesce a trarsi in salvo e sbarca su una costa a lui sconosciuta. Qui, durante una battuta di caccia – arte di cui lui è un fine conoscitore –, s'imbatte negli uomini di re Marco di Cornovaglia, che è oltretutto suo zio in quanto fratello della sua defunta madre Biancofiore.
Re Marco accoglie Tristano nella sua reggia di Tintoille e pur non conoscendone la vera identità nutre ugualmente per lui, sin da subito, una speciale venerazione. Infine, una volta scoperta la verità sul conto di Tristano, lo abbraccia definitivamente come suo legittimo nipote. Tristano si guadagna in breve tempo l'amicizia del siniscalco di corte, Dinasso di Lidan, e dalla sua terra, Leonis, fa richiamare al suo servizio il fido Governale.
Tuttavia la vita di corte per lui è piena d'insidie: quattro baroni – Andretto, Ganelone, Gondoino e Denoalen – non lo vedono di buon occhio, anzi scorgono in lui una vera e propria minaccia per la futura successione al trono di re Marco, ancora senza prole.
Un giorno approda in Cornovaglia un gigantesco cavaliere per reclamare, da parte del suo re, il tributo dovutogli di cinquecento tra giovanetti e giovanette indigene. Nessuno osa levare la propria voce contro l'ingiusta pretesa dell'Amoroldo – questo è il suo nome –, tranne il coraggioso Tristano, il quale sprezzante del pericolo lo sfida a singolar tenzone. Il caso vuole che nell'isola di San Sansone – luogo destinato alla sfida – Tristano abbia la meglio sul campione d'Irlanda. Ferito da una punta di spiedo avvelenata, egli fa ritorno presso la corte di re Marco. Nessuno pare in grado di poter curare la sua ferita, così dopo aver molto insistito, Tristano prega lo zio di lasciarlo fluttuare nel vasto mare, con la speranza – ultima a morire – di trovare un luogo dove poter ricevere le cure necessarie.
In simili pietose condizioni lui approda nel porto irlandese di Weisefort, dove ottiene le cure miracolose della “maestra di filtri”: Isotta la Bionda, principessa d'Irlanda. Tristano per non farsi riconoscere da tutti come l'uccisore dell'Amoroldo, nonostante sia già sufficientemente irriconoscibile a causa del veleno, usa tutta la sua astuzia spacciandosi per un giullare naufragato in quei lidi.
Una volta ritornato in patria, Tristano si trova a dover fronteggiare l'ostilità dei soliti quattro baroni, che gettano discredito sulla sua persona. Addirittura essi insinuano il dubbio che lui sia una specie di stregone, perché solo così sarebbe riuscito a curare la sua altrimenti letale ferita. Costoro inoltre, timorosi che, una volta morto il re suo zio, Tristano salga sul trono di Cornovaglia, si premuniscono come possono: consigliano al re di prender moglie e di assicurarsi degna progenie. Re Marco sulle prime si mostra restio all’idea, poi però un giorno due rondini conducono alla sua finestra un sottile capello biondo. Sicché re Marco, cambiando parere, rivela ai suoi cortigiani che avrebbe sposato soltanto colei a cui apparteneva quel luccicante capello biondo.
Tristano, per affetto verso suo zio, si mette quindi alla ricerca della sua futura regina: arma una flotta e nuovamente approda nelle coste irlandesi. Qui dimostra ancora una volta tutto il suo valore, uccidendo il drago che flagella questa terra – analogie con il Beowulf –, per ottenere la lauta ricompensa: la mano della principessa Isotta la Bionda. Come prova del suo eroismo Tristano strappa la lingua del drago e se la infila nel suo calzare. Tuttavia Aguingherrando, il siniscalco di corte, quando apprende la notizia dell'uccisione del drago – con il quale lui per codardia non era mai riuscito a battersi – lo decapita e ritorna presso la corte per chiedere la mano d'Isotta la Bionda, fingendosi uccisore dello sputafuoco. La principessa, che detesta Aguingherrando, si fa accompagnare fino alla tana del drago dal suo fedele valletto Perinis e dalla sua serva di fiducia Brangiana. Qui Isotta scopre la verità, rinvenendo il vero eroe: Tristano.
Di nuovo ferito in combattimento il valoroso cavaliere viene per la seconda volta curato da costei, che però stavolta non si lascia ingannare e riconosce la lama dell'uccisore dell'Amoroldo. Infuriata Isotta tenta di ottenere vendetta con la stessa lama, ma l'abile-oratore Tristano riesce a persuadere la principessa dal suo intento omicida.
Il giorno dell'assemblea dei baroni, Tristano fa valere i suoi diritti su Isotta la Bionda, come vero uccisore del drago. Per codardia Aguingherrando si fa indietro e riconosce di non essere lui a meritare la mano della bella principessa. Ed è così che Tristano propone un accordo al re d'Irlanda: ovvero combinare un matrimonio tra il re di Cornovaglia e la principessa d'Irlanda, in modo tale da sancire una duratura pace tra i due regni a lungo in conflitto. Isotta, sentendosi tradita, detesta sinceramente Tristano, che la conduce come prezioso bottino in Cornovaglia per darla in sposa a suo zio.
È durante il viaggio di ritorno, in alto mare, che si compie il destino di Tristano e Isotta. La madre-regina di costei, infatti, ha lasciato l’incarico alla serva Brangiana di far bere ai due novelli sposi un filtro magico, che sarebbe servito a legarli per sempre. Il caso vuole, però, che Brangiana distraendosi non si accorge che Tristano e la stessa Isotta bevono sciaguratamente il filtro, credendolo bevanda dissetante. Questo tragico malinteso è all'origine della tragedia dei due, che da quel momento in avanti diventano segreti amanti e vengono, a poco a poco, consumati dal divorante fuoco della passione. Combattuto tra la lealtà incondizionata per il suo re e l’amor-passione per la sua Isotta, Tristano si tormenta continuamente e trova consolazione solo nel fatto che un artifizio – il filtro appunto – è la causa del suo indicibile travaglio.
Intanto i baroni spiano i due amanti e decidono d’incastrarli avvalendosi delle doti profetiche del nano Frocin. Questi tende un’astuta trappola con la farina, nella quale Tristano cade grondante di sangue da una ferita, facendo così scoprire la tresca amorosa all’incredulo re Marco. Il re infuriato con la moglie e il nipote, senza nemmeno dar loro la possibilità di difendersi equamente, ordina che vengano giustiziati. Tristano con l’aiuto della Provvidenza, riesce a scampare al rogo per lui allestito dal re, saltando da una cappella diroccata. Isotta invece viene condotta innanzi alle fiamme e nonostante l’intercessione di Dinasso di Lidan in favore dei due amanti, che a suo dire non possono venire giustiziati senza un equo processo, la sorte della giovane principessa sembra ormai segnata. Finché una schiera di lebbrosi, capitanati da un certo Ivano, non persuade re Marco che una morte immediata per la regina sarebbe troppo poco, piuttosto ella meriterebbe una lenta agonia stretta fra le loro piaghe purulente. Il re, accecato dalla rabbia, acconsente e gliela affida. I lebbrosi trionfanti si allontanano con la loro ambita preda, ma non possono prevedere due ostacoli che si frappongono al loro cammino: Tristano e Governale. I due riescono a togliere Isotta dalle grinfie dei lebbrosi e durante il combattimento Governale frantuma il cranio dell’abnorme Ivano.
È qui che ha inizio un periodo relativamente felice per i due amanti, nella foresta del Morois, dove rei del loro tradimento cercano e trovano riparo dalla loro innocente colpa. Qui i due incontrano Frate Ogrin, a cui raccontano la loro innocenza di fronte all’Onnipotente, poiché è a causa del filtro se il loro amore è sbocciato. Successivamente Tristano e Isotta vengono scovati nel sonno da un boscaiolo, che corre subito ad avvertire il re. Questi accorso sul posto nota che i due dormono separati da una “spada nuda” – simbolo di castità – posta tra i loro corpi e senza toccarsi con le labbra, fintanto che non sembrano affatto degli amanti. Così decide di graziarli e sostituisce la sua spada a quella di Tristano, per testimoniare il suo passaggio e il suo ripensamento. Al loro risveglio i due si accorgono del mutamento di sentimenti nell’animo travagliato del re e grazie all’intercessione di Frate Ogrin si ricongiungono finalmente con il loro amato sovrano, non più in collera con loro. Tuttavia la riconciliazione finale tra Tristano e re Marco viene procrastinata ancora una volta dai baroni, che temono la ripicca del principe e lo fanno esiliare dal reame di Cornovaglia. Nel frattempo Isotta viene ristabilita come legittima sovrana.
Un giorno il re torna furibondo da una battuta di caccia e rivela ad Isotta che ha scacciato dalla sua corte i baroni traditori, perché ancora una volta essi hanno osato infangare l'onorata reputazione della sua sposa. A questo punto Isotta per fugare qualunque insinuazione, decide di sottoporsi di sua spontanea iniziativa alla prova del ferro rovente e chiede a re Marco di avere come garante nientemeno che re Artù. Venuto a conoscenza del coraggio della regina, Tristano, segretamente ospitato dall'amico Dinasso, corre in suo soccorso e l'aiuta a sostenere la prova. La regina, al cospetto dei due sovrani, promette solennemente davanti a Dio che nessuno l'ha mai cinta fra le braccia all'infuori di suo marito, il re, e del mendicante (Tristano travestito) che l'ha appena sorretta durante la traversata del fiume – per impedirle di bagnarsi le vesti. Il trucco funziona a meraviglia e Isotta supera immune la prova.
Dopo varie vicissitudini avventurose Tristano si trova in Bretagna e qui partecipa attivamente alla difesa del castello di Carhaix, assediato dal conte Riol. Questi si era ribellato al duca di Hoel poiché in precedenza costui si era rifiutato di dargli in sposa sua figlia Isotta dalle Bianche Mani. Qui Tristano stringe una proficua amicizia con il principe Caerdino, figlio del duca e fratello dell'altra Isotta decantata come “la semplice, la bella”. Al solo sentire il nome “Isotta” Tristano si figura che si tratti della sua amata perduta e perciò acconsente a sposarla. Queste nozze non serviranno, tuttavia, a placare il vortice auto-distruttivo che l'amor-passione riserva per Tristano. Egli si tormenta per aver sposato Isotta dalle Bianche Mani, a tal punto che a letto non le si concede inventandosi una fasulla scusa. Durante una battuta di caccia nei boschi alla sposa di Tristano sfugge una maliziosa battuta riguardante uno schizzo d'acqua dello stagno, che a detta sua sarebbe assai più audace del suo sposo. Suo fratello Caerdino insospettito, la interroga finché non viene a sapere del matrimonio non consumato fra l'amico e la sorella. Questi, poi, infuriato chiede di riscattare l'onore della sorella in duello. Tristano non solo non acconsente, ma gli racconta la sua sfortunata vicenda amorosa. Caerdino commosso dall'appassionata – dunque sofferente – storia d'amore tra Tristano e Isotta la Bionda, non solo perdona l'amico ma pure si presta ad accompagnarlo in patria, a rivedere la sua Dama tanto sospirata – che, intanto, non lo ha per nulla dimenticato.
Proprio mentre i due amanti si rinnovano giuramenti d'eterna fedeltà, il loro amore disperato – nel senso che è “senza speranza” – si approssima alla Fine, irrefutabile e drammatica. D'altronde, con una storia come la loro, non poteva succedere altrimenti. Tristano, infatti, agonizzante – a causa di una ferita prodottasi in combattimento – chiede un ultimo favore all'amico Caerdino: andare a Tintoille a chiedere il soccorso della regina, l'unica in grado di rimarginare ogni tipo di ferita. Caerdino e Tristano si accordano che se il primo farà ritorno in Bretagna con la regina, navigherà con una vela bianca o altrimenti, se lei non ci sarà, con una vela nera. Isotta dalle Bianche Mani, moglie di Tristano, origliando la conversazione tra i due dapprima si sconcerta e poi decide di vendicarsi. Vendetta la sua che trova compimento quando lei, mentendo, dice a Tristano di vedere all'orizzonte una barca che ha issata una vela nera. Lui, credendosi perduto, si lascia morire. Di lì a poco la stessa sorte beffarda tocca a Isotta e così il vortice distruttivo, innescato dalla loro passione, trova proprio nell'im-possibilità della morte la sua unica possibilità...
Nel testo di Bédier si legge il commovente epilogo della loro storia:


Quando il re Marco apprese la morte dei due amanti, passò il mare e, venuto in Bretagna, fece lavorar due bare, una di calcedonio per Isotta, l'altra di berillo per Tristano. Egli portò sulla sua nave verso Tintoille i loro cari corpi. Presso una cappella, a sinistra e a destra dell'abside, li seppellì in due tombe. Ma, durante la notte, dal sepolcro di Tristano germogliò un rovo verde e fronzuto, dai forti rami, dai fiori odoranti, che, innalzandosi sopra la cappella, s'insinuò nel sepolcro d'Isotta. La gente del paese tagliò il rovo: il dì appresso esso rinacque, altrettanto verde, altrettanto fiorito, altrettanto vivace e di nuovo s'immerse nel letto d'Isotta la Bionda. Tre volte vollero distruggerlo; invano. Infine, essi riferirono il prodigio a re Marco: il re vietò di tagliare il rovo.1


***


1 Bédier, J., Il romanzo di Tristano e Isotta, TEA, Milano, 1988.

1.7.07

"Palomar" di Italo Calvino

di Paolo Musano

Allora, da dove cominciare. Ho appena bevuto una tazzina di caffè, leggendo qualche capitolo di "Palomar". Il libro di Calvino, inaspettatamente, mi sta facendo mettere in discussione molti miei atteggiamenti. Una volta facevo delle mie letture ricercate e solitarie un vanto e una virtù e non davo troppo peso al fatto che a rimetterci erano altri aspetti della mia vita non meno importanti, come gli affetti e le relazioni sociali. Avevo un'idea sbagliata della profondità e della saggezza che era nutrita della mia presunzione e dei miei pregiudizi, il più delle volte inconsapevoli. Adesso, alla luce anche di cose che mi sono successe e che prima o poi racconterò, ho capito che la conoscenza, anche se assunta per via intuitiva, deve essere sempre frutto di un processo, deve essere elaborata, masticata, digerita e solo dopo assimilata. Credendomi chissà perchè quale raffinatissima intelligenza, tendevo ad abbuffarmi di concetti, saltando tappe fondamentali, nell'illusione di avere delle solide fondamenta. Beh, ho capito che quelle fondamenta non erano solide affatto ed anzi il terreno nel quale affondavano era pure franoso. Il rendersi conto di questo significa pesare bene i propri passi e soprattutto essere umili. Soltanto adesso ho capito che la corazza di mio padre non è nè superficialità nè insensibilità, ma una forma speciale di carattere che chiamare "ottimismo" sarebbe riduttivo. E capisco anche cosa vuol dire Wayne Dyer quando afferma che l'intelligenza è "la capacità di essere felici". Tempo fa mi sembrava una frase scontata: avevo le mie definizioni astratte, ma ora trovo che la sua sia la migliore definizione. Tutto il succo di questo discorso lo si trova in "Palomar" di Calvino: il protagonista apparentemente è freddo e superficiale. E' uno che si limita a osservare gli oggetti alla ricerca di chissà che cosa. Andando avanti nella lettura la nostra visione stereotipata si capovolge, e ci accorgiamo che Palomar è un individuo estremamente sensibile che nel suo modo particolare di rapportarsi al mondo cerca la via migliore per arrivare alla saggezza, all'essenza ultima. Più o meno consapevolmente si rende conto che non si può conoscere l'interno delle cose se non si è esaurita prima la loro superficie, ma la superficie è inesauribile. E' una verità paradossale (e per questo molto sensata) che si chiarisce nel passo che dice: l'universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi.

18.6.07

"Mangiatori di morte" di Micheal Crichton

di Marco Apolloni

Il bel romanzo storico di Micheal Crichton, Mangiatori di morte, si aggiunge alla schiera di quei veri e propri “casi letterari”, come Le poesie di Ossian di Macpherson e Il Necronomicon di H.P. Lovecraft1, le cui fonti sono state dagli autori stessi volutamente occultate o comunque mistificate. La storia si basa su un manoscritto, che esiste davvero e che peraltro è molto citato fra gli storici, del dignitario arabo Ibn Fadlan. Questi ci fornisce una prima dettagliata descrizione degli usi e dei costumi dei vichinghi, da quel fine osservatore e antropologo quale fu. Di questo manoscritto Crichton trascrive, parafrasandoli, alcuni punti tra cui ciò che concerne: i costumi dei normanni – letteralmente: “uomini del nord” – e i loro usi funerari. Esemplare è la descrizione che lui ci dà del funerale di un grande capo normanno. Di essi lui dice: sono alti come palme, tanto da parere dei giganti; indossano abiti di panno ruvido buttati dietro ad una spalla in maniera tale da lasciare libera una mano; sono muniti ciascuno di una scure, di un pugnale e di una spada – persino le donne sono armate di pugnale; le loro spade sono di fabbricazione franca2, nonostante gli stessi scandinavi non disdegnassero fabbricare in proprio delle buone armi e fossero dei fini conoscitori dei segreti della metallurgia; avevano tatuaggi sul collo raffiguranti alberi, animali o altri esseri viventi3.
Su Ibn Fadlan le notizie storiche sono perlopiù incerte e frammentarie. Di lui si sa che partì da Baghdad – allora “città della pace”4 – il giorno giovedì 11 safar dell'anno 309 secondo il calendario arabo (corrispondente al 21 giugno 921 in quello cristiano), insieme ad un'affollata carovana di persone. Il Califfo al-Muqtadir5 lo aveva incaricato di andare a diffondere l'islam presso la corte del re dei Bulgari, dal quale non giunse mai. Il motivo di questa missione nel romanzo viene spiegato con una “marachella” da libertino impenitente commessa da Ibn Fadlan, che ha giaciuto con la bella moglie di un vecchio mercante. Quest'ultimo, sospettoso, si era rivolto al Califfo per chiedere giustizia, che in privato si fece una risata ma in pubblico dovette accontentare il vecchio e perciò esiliare momentaneamente Ibn Fadlan. Dopo mille peripezie la carovana del diplomatico arabo si accampò sulle rive del Volga, dove venne a stretto contatto con una tribù di mercanti-guerrieri vichinghi. Il termine con cui lui chiama questa popolazione scandinava è «Rus»6. Da qui ha inizio la storia romanzata: l'incontro con l'impavido Buliwyf e i suoi valorosi dodici guerrieri, il suo luogotente Ecthgow e il fido combattente Herger – che nel corso della narrazione sarà l'unico interlocutore diretto dell'arabo, dato che è l'unico normanno a conoscere alcuni vocaboli latini.
La descrizione complessiva del romanzo è fedele al manoscritto originale pervenutoci nella traduzione di Per Fraus-Dolus, conservata presso gli Archivi della biblioteca dell'Università di Oslo, Norvegia. Ibn Fadlan rimane subito inorridito dalla sporcizia di questi giganteschi infedeli, che defecano senza pulirsi, fornicano davanti a tutti, si lavano la faccia e si soffiano il naso in una bacinella che viene puntualmente riutilizzata e fatta girare da tutti. La morte del loro capo Wyglif innesca una contesa per il comando tra Buliwyf stesso e un omone di nome Thorkel. Il rituale della sepoltura di Wyglif viene descritto minuziosamente: una nave viene tirata a secco, il defunto viene riccamente rivestito, numerosi oggetti di valore – che si pensano possano servire nell'aldilà – gli vengono posti accanto, animali vengono fatti a pezzi – un cavallo, due buoi, un gallo e una gallina – e, cosa più sconvolgente, una schiava si offre di accompagnare il padrone nel suo ultimo viaggio. Sotto gli occhi increduli di Ibn Fadlan, la ragazza prescelta, in uno stato pressoché totale di trance, passa da una tenda all'altra degli uomini di Wyglif, che la possiedono carnalmente per onorare la memoria del loro capo. Infatti ognuno di essi prega la ragazza di riportare testuali parole: «Dì al tuo padrone che ho fatto questo solo per amor suo.»7. Dopodiché alla ragazza viene data una gallina a cui essa distrattamente trancia di netto la testa e nella sua lingua si lascia andare ad una nenia rituale. L'arabo incuriosito chiede e ottiene di farsi tradurre quanto dice la ragazza. Questo è quel che gli riferisce l'interprete: «La prima volta ha detto: “Oh, vedo mio padre e mia madre”; la seconda volta: “Oh, ora vedo seduti tutti i miei parenti defunti”; la terza volta: “Oh, ecco il mio padrone, seduto in paradiso8. Il paradiso è così bello, così verde. Ci sono con lui i suoi uomini e i suoi ragazzi. Mi sta chiamando. Portatemi da lui.”»9. Dopo quest'ultima preghiera la ragazza viene affidata ad una vecchia strega – detta appropriatamente “angelo della morte” –, che la introduce nella cabina della nave dov'è adagiato il corpo del defunto e le squarcia il costato, mentre allo stesso tempo alcuni uomini tirano una corda per strangolarla – questo serve per darle una morte immediata. Intanto per soffocare le grida della poveretta vi è un rullo assordante di tamburi, in modo tale che le altre giovani non si spaventino troppo e che quando occorra non si tirino indietro nel sacrificarsi per i loro padroni. In ultimo la nave coi corpi dei due defunti viene incendiata e presto le fiamme guizzano favillanti. Particolarmente rivelante è l'altarino che vede protagonista un normanno e l'arabo: il primo definisce gli arabi degli stupidi perché seppelliscono i loro defunti, facendoli divorare dai vermi, mentre loro sono soliti bruciarli per farli giungere prima in paradiso.
Dopo il funerale del gran capo, un sinistro messaggero – Wulfgar, figlio di un grande re del nord, Rothgar – compare per chiedere l'aiuto del nobile Buliwyf, dato che la sua terra è minacciata da un pericolo innominabile che discende con la bruma. I normanni si rivolgono alla strega con funzioni di veggente – la stessa che aveva sacrificato la schiava di Wyglif. Questa ordina a Buliwyf di formare una compagnia di tredici uomini, di cui uno straniero, per soccorrere re Rothgar. La scelta del tredicesimo guerriero10 cade dunque su Ibn Fadlan, che, messo nelle condizioni di non poter rifiutare, salpa il giorno seguente verso le terre del nord. Durante il viaggio l'arabo stringe amicizia con l'allegro normanno Herger. Tra i due vi sono ricorrenti scambi di battute, rigorosamente in latino – in particolare è curioso vedere la netta contrapposizione tra la religione politeista di Herger e quella invece monoteista di Ibn Fadlan. Se il primo invoca di frequente i suoi numi tutelari, il secondo non può fare a meno d'invocare Allah: «il Compassionevole, il Misericordioso». Molto belle sono le pagine finali dove la contrapposizione religiosa tra i due si smussa e diventa secondaria o, ad ogni modo, di scarsa rilevanza. Tant'è che il pragmatico Herger dice al suo amico arabo in procinto d'imbarcarsi verso la sua terra: «Forse dalle vostre parti è sufficiente un solo Dio, ma qui no; qui ci sono molti dèi e ognuno ha la sua importanza e noi quindi li pregheremo tutti per il tuo bene.»11. Questa frase riconciliatoria dovrebbe servire da esempio per far sì che si renda possibile una pacifica convivenza fra le diverse religioni. Il rispetto dell'altro, inteso come il diverso da sé, è il più grande insegnamento che possiamo ricavarne...
Durante la traversata in mare, per raggiungere il regno di Rothgar, l'arabo rimane esterrefatto nel vedersi davanti quello che lui chiama «mostro marino», ma che in realtà è una balena, rivelando così un'insospettata vena superstiziosa12. Giunti alla corte di re Rothgar nella terra di Venden, la situazione che i nostri eroi si trovano a dover fronteggiare non è tra le migliori. Il re è vecchio e stanco, e il suo regno si sta lentamente sbriciolando ai suoi piedi. Una minaccia esterna, rappresentata dai «wendol», «wendlon» o «mangiatori di morte»13, continua a falcidiare vittime innocenti, non appena cala la bruma e «il drago di fuoco» scende giù dalla collina. Come se non bastasse una non meno insidiosa minaccia interna, costituita dall'infido figlio del re, il principe Wiglif – già uccisore di alcuni suoi fratelli, nonché scomodi contendenti al trono paterno –, si sta approfittando del caos generale per seminare discordia fra i conti.
Buliwyf e i suoi guerrieri credono che re Rothgar sia un vanitoso, che ha osato sfidare la collera degli dèi, posizionando la sala luccicante del trono in cima ad una scarpata – protetta sì dagli attacchi che provengono dal mare, ma totalmente indifesa da quelli provenienti da terra – e che per questo debba essere debitamente punito. Tuttavia la loro missione di soccorso è comprensibilmente spiegata dalla loro sete insaziabile di volersi lasciare dietro degna memoria. Come recita un celebre passo degli Hávamál14, detti anche Le sentenze del Sublime – che altri non può essere che Odino, sommo re degli dèi nordici, nonché nume tutelare dei guerrieri suoi prediletti: «Gli animali muoiono, i parenti muoiono, io stesso morrò. Ma c'è una cosa che so che non morrà mai: la fama che lasciamo dietro a noi quando moriamo»15.
Lo stesso Ibn Fadlan rimane letteralmente catturato dall'eroismo insito nei suoi compagni di lotta normanni, che riescono a trasmettere in lui – combattente dell'ultima ora – quel gusto sadico e quasi masochistico della pugna, nel bel mezzo della quale si commisura l'effettivo valore di un uomo. Nel coraggio dimostrato di fronte all'estremo pericolo, che troviamo molto presente sia tra gli arabi che tra gli scandinavi, vi è un pressoché indubitabile anello di congiunzione tra queste due diversissime culture. L'evoluzione del personaggio di Ibn Fadlan ci sembra alquanto emblematica: da un iniziale rigetto per lo stile di vita vichingo, lui passa ad una vera e propria adozione di molti aspetti di esso. L'arabo pian piano nutrirà una sempre maggiore venerazione per il grande condottiero Buliwyf. Questi peraltro, seppur diffidente all'inizio, con il passare del tempo arriverà a considerare l'arabo sullo stesso piano dei suoi compagni normanni. Addirittura in un commovente dialogo – dopo che un nano, «tengol», gli predice la vittoria sui wendol in cambio però del suo estremo sacrificio – Buliwyf si lascia talmente andare con Ibn Fadlan, pregandolo di uscire vivo dall'imminente battaglia finale, in quanto possiede il dono di saper disegnare i suoni e quindi un giorno avrebbe potuto raccontare le loro gesta eroiche. Singolare è il modo in cui l'arabo si comporta da autentico normanno tentando di rassicurare Buliwyf dicendogli: «Non credere a una profezia finché non ha dato frutti.»16. Con ciò, infatti, egli non fa che riprendere un famoso proverbio vichingo contenuto negli Hávamál, ovvero: «Non dir bene del giorno finché non è venuta sera; di una donna finché non è stata bruciata; di una spada finché non è stata provata; di una ragazza finché non si è sposata; del ghiaccio finché non è stato attraversato; della birra finché non è stata bevuta»17. Questa visione cinica e disincantata della vita da parte dei vichinghi, basatasi prevalentemente su una prudenza smisurata – ben comprensibile vista anche l'esistenza precaria e continuamente sul filo del rasoio da essi condotta –, trova un corrispondente in una storiella sufi – a testimonianza che queste due culture, araba e scandinava, pur essendo diverse non sono giocoforza incompatibili fra di loro.
C'è un discepolo che suppone di mettersi in viaggio e di doversi fermare a fare le abluzioni in un ruscello, sicché chiede al maestro in che direzione deve rivolgere lo sguardo mentre compie il rituale purificatorio e questi così gli risponde: «Nella direzione dei tuoi vestiti, perché non te li rubino.»18.
Il fatalismo guerriero di Buliwyf accompagna un po' tutti gli eroi delle saghe nordiche: la massima virtù di un guerriero è appunto lo sprezzo del pericolo, inclusa la morte. Un eroe va incontro con fierezza indomabile alla propria sorte, ben consapevole che prima o poi toccherà a tutti assaggiare il suo calice amaro. Per certi versi Buliwyf non può non ricordarci Achille Pelide, che tra una lunga vita senza gloria e una vita invece ricolma della medesima, non esitò minimamente a scegliere la seconda, cadendo con gloria nella rocca di Troia. Specialmente, però, lui ci ricorda Beowulf: nobile e valoroso principe dei Geati, l'uccisore del terrifico mostro Grendel e della sua altrettanto terrifica madre. Come a Buliwyf anche a Beowulf tocca la stessa sorte, cioè morire per concedere la vittoria ai suoi. Oltre a questa, tra i due eroi le analogie abbondano: Beowulf soccorre il re dei danesi Hrothgar, Buliwyf invece soccorre il re anch'egli dei danesi Rothgar; la vanità è la causa del flagello in cui è precipitato re Hrothgar, altrettanto dicasi per re Rothgar; Beowulf durante il primo assalto stacca una spalla del mostro Grendel e la appende in bella mostra nella sala del trono, lo stesso fa Buliwyf recidendo il braccio di uno dei wendol e appendendolo anch'egli per dimostrare la fragilità del nemico19 e via elencando. Appare evidente, dunque, come per l'eroe nordico il sacrificio per una nobile causa sia il viatico necessario per conseguire il prestigioso traguardo dell'immortalità, intendendo con essa: non tanto il non morire mai, ma quanto il venire ricordati sempre, poiché solo così l'impavido potrà vivere in eterno... Buliwyf alla fine riesce sì a decapitare la Madre dei wendol, ma questa lo ferisce mortalmente, graffiandolo con uno spillone avvelenato. Nonostante la vita abbia già cominciato ad abbandonare il suo corpo, Buliwyf vuole esserci a tutti i costi nell'ultima battaglia, per rinfrancare i cuori afflitti dei suoi compagni d'armi. La sua materializzazione sul campo di battaglia è accompagnata da un chiaro presagio di benevolenza divina, rappresentato dai due corvi posatisi sulle sue possenti spalle. Questi uccelli, secondo la religione dei vichinghi, simboleggiano una delle innumerevoli forme che può assumere Odino. Dunque, nel tal caso, questa apparizione assume un significato lampante per i guerrieri di Buliwyf: Odino avrebbe combattuto al loro fianco, perciò la vittoria è ormai vicina. Davvero significative sono le parole che Buliwyf, la sera prima della resa dei conti finale, rivolge all'arabo: «Un uomo morto non serve a nessuno.»20. In questa frase, che si presta facilmente a plurime interpretazioni, è racchiusa l'essenza dell'eroismo dei vichinghi, ovvero il principale contributo da essi apportato alla formazione della comune identità europea.

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1Testo esoterico spacciato per opera dell'arabo folle Abdul Azhared, ma che in realtà non è nient'altro che una brillante invenzione dello scrittore horror americano H.P. Lovecraft definito: “ il solitario di Providence”.
2A quell'epoca i franchi venivano considerati i migliori fabbri del mondo.
3Crichton, M., Mangiatori di morte, Garzanti, Milano, 1994, vedi descrizione minuziosa di p. 33.
4Strano ma vero, una volta Baghdad veniva considerata “città della pace”, mentre al giorno d'oggi si è tramutata in autentica “città della guerra”...
5Di costui si dice che non era ben visto e finì con l'essere ucciso da uno dei suoi ufficiali di palazzo.
6Presumibilmente si trattava di una tribù proveniente dalle coste dell'attuale Svezia, che si era impossessata di alcuni territori – fondando diverse città: da Novgorod a Kiev – situati a nord est dell'attuale Russia, che peraltro deve appunto il suo glorioso nome a questi intraprendenti vichinghi.
7Mangiatori di morte, cit. p. 39.
8Il paradiso qui menzionato è la leggendaria Valhalla, magione di Odino, nonché dimora in cui sono destinati ad andare i guerrieri da morti, accompagnati dalle Valchirie. In estrema sintesi, il paradiso per i vichinghi consisteva in una battaglia incessante, interrotta soltanto al termine del giorno da succulenti banchetti. Le ferite riportate il giorno prima, il giorno seguente immediatamente si rimarginavano e così via fino al Ragnarök – l'equivalente per la religione cristiana del Giorno del Giudizio –, dove in una battaglia all'ultimo sangue i prodi guerrieri avrebbero combattuto al fianco delle divinità benigne contro mostri d'antica data e divinità maligne.
9Mangiatori di morte, cit. p. 40. Cfr. con: Brøndsted, J., I vichinghi, Einaudi, Torino, 2001; nel libro dello storico danese si fa spesso largo uso del resoconto di Ibn Fadlan per avvalorare certe opinioni diffuse sulla tribù svedese dei «Rus». Specialmente la descrizione del funerale del grande capo normanno è citata per intero dalla fonte originale, vedi pp. 300-301-302-303 del testo. Crichton qui non fa che parafrasare la descrizione veritiera di Ibn Fadlan, ridimensionandola per comprensibili esigenze narrative.
10Il titolo della pellicola tratta dal romanzo è, non a caso: Il tredicesimo guerriero (1999), diretto da John Mc Tiernan, con Antonio Banderas nei panni di Ibn Fadlan. Le uniche differenze tra il film e il libro consistono in: un breve accenno di storia amorosa tra il dignitario arabo e la coraggiosa figlia del re; un apprendimento troppo accelerato e poco realistico della lingua normanna da parte del protagonista; il consiglio finale per sconfiggere la Madre dei wendol nel film viene affidato ad una veggente solitaria, mentre nel libro a svolgere questa funzione profetica vi è un «tengol» o un nano, che predice sì la gloria in combattimento per Buliwyf però a prezzo della sua stessa vita.
11Mangiatori di morte, cit. pp. 158-159.
12Si tenga presente che all'epoca gli arabi erano, con tutta probabilità, la popolazione meno provinciale della terra ed appare, perciò, quanto meno curioso che un dignitario arabo del calibro di Ibn Fadlan fosse all'oscuro dell'esistenza di questi giganteschi cetacei.
13Come azzarda Crichton nell'Appendice al suo romanzo, si tratta di una tribù di antropofagi – composta da neanderthaliani rimasugli di un'epoca precedente – veneranti il culto della Grande Madre, fortemente legato ai riti della fertilità della terra. Si veda per questo la statuina della “Vergine di Willendorf”, ovvero il più antico reperto dell'era paleolitica, che raffigura il corpo di una donna senza testa e con seni prosperosi.
14Si tratta di una raccolta di aforismi, che c'informa dettagliatamente dell'etica professata dalle popolazioni nordiche. L'onore, l'amicizia, l'ospitalità, la generosità, la gloria, la prudenza, il coraggio... Questi sono solo alcuni dei capisaldi che qui vengono enunciati.
15I Vichinghi, cit. p. 250.
16Mangiatori di morte, cit. p. 138.
17Mangiatori di morte, cit. p. 138.
18Mangiatori di morte, cit. p. 138.
19I wendol venivano creduti esseri metà uomini e metà orsi. Questa credenza era ulteriormente rafforzata dalla scrupolosa usanza che essi avevano di portarsi via i compagni caduti in battaglia, in modo tale da cancellare le tracce delle loro vittime e alimentare l'alone d'indistruttibilità fra le fila atterrite dei loro nemici. Buliwyf e i suoi guerrieri appendendo il braccio di uno dei wendol nella sala del trono, dimostrarono pertanto che persino queste strane creature possono morire e, dunque, essere sconfitte.
20Mangiatori di morte, cit. 150.

25.5.07

"Il vagabondo delle stelle" di Jack London

di Marco Apolloni

Per uno scrittore come Jack London vale il seguente motto: “Scrivere sempre ciò che si vive e vivere sempre ciò che si scrive”. A dirla tutta, lui è l'incarnazione stessa di questo motto! Nessuno più di lui ha vissuto tanto intensamente, traendo prezioso spunto dalle esperienze della vita, che a volte ti dà e altre ti toglie.
Il vagabondo delle stelle – il cui titolo originale è: The Star Rover – è un'opera che rispecchia in tutto e per tutto la complessità umana del suo autore. Si tratta di un romanzo originale e per certi versi anche sperimentale. È la storia di Darrell Standing professore di agraria, incarcerato per l'omicidio di un suo collega – poi si scopre per motivi sentimentali, i due amavano la stessa donna. Ma la vera ragione della sua condanna a morte non è tanto l'omicidio commesso in un momento di rabbia, quanto l'aver aggredito e ferito, lievemente, un secondino. Durante la sua permanenza in carcere, Standing ci racconta l'inumanità della condizione carceraria – siamo nell'anno del Signore 1913 – e di come lui riesce a trovare un modo, davvero incredibile, per evadere dalla sua prigione corporea e mentale. Lo inizia, in gran segreto, ai misteri della cosiddetta “piccola morte” il suo compagno d'isolamento Ed Morrell. Altro suo compagno d'isolamento – i tre hanno trovato un sistema tutto loro per comunicare, detto “alfabeto nocche” – è Jake Openheimer, il San Tommaso della situazione – che non crede se non vede e tocca con mano propria. (Tra l'altro: Standing, Morrel e Openheimer risultano dei personaggi veramente esistiti. Non a caso London progetta il suo libro basandosi su fatti di cronaca dell'epoca, riguardanti la pessima condizione in cui vivevano i prigionieri all'interno dei degradati penitenziari.)
Fino al capitolo dieci la storia si concentra sulla dura vita carceraria di Standing, accusato ingiustamente dal tirannico direttore del carcere, Atherton, di nascondere una fasulla dinamite – “fasulla” perché inesistente e usata solo come scusa da un infido carcerato di nome Cecil Winwood per scagionarsi e al contempo incastrare lo sfortunato Darrell Standing. Come estrema e disumana misura punitiva Standing è costretto ad indossare, ciclicamente, la camicia di forza per rifiutarsi di confessare una colpa da lui, peraltro, mai commessa. Dal capitolo undici in poi Standing comincia il suo vagabondare fra le stelle, dove rivive la fantasmagoria delle sue vite passate. Di volta in volta lo vediamo indossare i panni: di un gentiluomo francese alle prese con un settecentesco duello; un naufrago – stile Robinson Crusoe – obbligato a vivere in condizioni miserabili su uno scoglio deserto; un marinaio-avventuriero inglese alla scoperta di uno sconosciuto Oriente; un guerriero nordico al soldo dei Romani che in Palestina fa la conoscenza di un misterioso Messia; un bambino al seguito di una carovana che verrà poi assalita e distrutta dagli indiani spalleggiati dai mormoni; e, infine, un sacerdote egizio dell'era proto-cristiana.
La bravura dell'autore sta nell'essere riuscito a padroneggiare, con sicurezza impareggiabile, diversi registri narrativi; ottenendo un sapiente mix tra storia e leggenda, realtà e finzione. Alla base di questa trama intrigante c'è dietro un solido apparato filosofico-concettuale. Composto da una dottrina della metempsicosi, seppur riveduta e aggiornata, e una rivisitazione della teoria dell'eterno ritorno nietzscheano. L'idea di fondo è che esiste una sola ed unica sostanza immortale: l'anima. Il corpo, invece, è materia mortale e ad ogni morte dell'individuo l'anima pre-esistente di costui trasmigra in un altro corpo e così via in un eterna ripetizione della noia. Persino la stessa morte non può sottrarsi alla schiacciante ineluttabilità della noia, che domina e immobilizza le nostre esistenze. (Ne sapeva qualcosa August Blanqui – il leggendario agitatore della Comune parigina – che durante una sua lunga permanenza in carcere ebbe un'epifania dell'eterna monotonia delle esistenze individuali, che si specchiano nella tale e quale ripetitiva vita degli astri. Il prodotto di questa sua rivelazione lo impresse nella sua opera da molti incompresa: L'eternité par les astres.) Gli insegnamenti catartici, ovvero purificatori, che si possono trarre dall'avvincente racconto delle vite vissute da Darrel Standing si presta alla seguente interpretazione: la volontà può tutto, ma finisce sempre e soltanto con il volere se stessa – da qui si origina lo sconsolato quanto inevitabile eterno ritorno...
L'anima del protagonista è affetta da una patologia della rabbia, che a seconda dei casi nel testo è definita “la collera rossa” o “il fil di fuoco”. Essa ogniqualvolta avvampa produce lo stesso ed identico effetto: la morte o distruzione dell'essere fisico. Mentre l'essere spirituale continua a vagabondare per “l'eternullità”, intrappolato nell'implacabile ciclo di morti e rinascite – almeno finché non avrà pienamente assolto al “debito karmico” accumulato, raggiungendo così il Nirvana...

7.5.07

La vita è come un film

di Marco Apolloni

Un gran bell'aspetto di essere studenti consiste nella lentezza. È come se il proprio tempo interiore fosse diverso da quello altrui esteriore. È come se avessimo le tasche piene di banconote fruscianti. Peccato solo che non ti renda conto con quale facilità le tue tasche facciano in tempo a svuotarsi tutte in una volta! La metafora del denaro è molto vicina a quella del tempo – ne sapeva qualcosa lo statista americano Benjamin Franklin, che coniò la felice espressione: “Il tempo è denaro!”. Infatti sia il tempo che il denaro sono due risorse, malgrado tutto, limitate. Volendo coniare un'appropriata definizione: i tuoi soldi hanno i giorni contati così come i tuoi giorni. Ci resta difficile abituarci a questo graduale scollamento... Diamine, uno non finisce mai di abituarsi all'idea che presto o tardi dovrà crepare!
C'è un magnifico film, Blade Runner - tratto dal romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick -, in cui il protagonista è un androide al quale è stata appiccicata dai suoi costruttori una data precisa di scadenza – manco si trattasse di un cartone di latte. La pellicola ci mostra come questi faccia di tutto per opporsi alla sua ingloriosa sorte. Nel finale il povero androide ormai prossimo al suo spegnimento, pronuncia una battuta carica di struggimento: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare... Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi beta balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire...”. Nei suoi finti occhi robotici, mentre blatera queste ultime parole, è come se una nube temporalesca squarciasse il velo dell'effimero, facendogli gettare finalmente la maschera. È un po' come se nel suo ultimo proponimento manifestasse il suo estremo attaccamento alla vita, per lui ormai giunta al termine. Il meccanismo innescato dalla vicenda filmica è stato semplicemente quello della tragedia. Essa, tra l'altro, ci ha ben mostrato - nella finzione della "scatola magica" del cinema - come ogni umana ribellione finisca pur sempre in una tragica rassegnazione. La ricchissima mitologia greca ci ha propinato racconti epici memorabili come quello dei Titani, i quali vollero scalzare dall'Olimpo i loro padri usurpatori, ottenendo come ricompensa di essere frantumati in minuscole particelle - che andarono poi a generare la nostra stirpe umana. Un altro mito cristiano, di sicuro ben più noto del suo equivalente greco, fu quello di Adamo ed Eva. Essi vollero a tutti i costi assaggiare i frutti dell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male, così da scoprire i segreti del Padre celeste. Conoscenza, questa, che fu la loro rovina, scatenando dapprima la collera divina e poi anche, per reazione, il castigo divino. Tradotto in termini concreti: la loro curiosità divoratrice fu la causa del “peccato originale”, che segnò irrefutabilmente il mortale fato umano, oltre a condannare l'uomo alla fatica dei campi e la donna al travaglio del parto.
Tutto ciò sta appunto a testimoniare come l'inizio di ogni agire umano si fondi in primissima battuta sulla ribellione, che si esaurisce con il ristabilimento delle opportune gerarchie da parte della divinità primigenia. Ed è così che s'innesca il complesso meccanismo della tragedia, che contraddistingue ciascuna vicenda umana. L'unico rimedio o palliativo è per noi una tacita accettazione - che, badate bene, non coincide con rassegnazione. Beh, io mi trovo a quel punto della vita in cui una persona deve attuare tale accettazione e questo vuol dire: lasciarsi andare in balia della vita e di tutto ciò che ne consegue, bello o brutto che sia. L'unica nostra consolazione potrebbe essere che tutto quel che di bello noi viviamo, non farà che aiutarci a sopportare meglio tutto quel che di brutto ci attende. Il segreto, per non avvilirsi troppo, sta nella spensieratezza. Più si rimane spensierati e più ci si mantiene vivi, questo significa che si conserva intatta la propria serenità d'animo: unica sorgente rinfrescante di vita, poiché allontana lo spettro inesorabile della falce calata sopra le nostre teste. D'altronde occorrerebbe convenire con Epicuro, almeno in questo: quando c'è la vita non c'è la morte e quando c'è la morte invece non c'è la vita, dunque perché preoccuparsi tanto? Ribadisco: perché preoccuparsi tanto? Ai posteri l'ardua sentenza...