Quello scritto e diretto da Corrado Accordino (“Cattivi Maestri, ovvero i sacri Idioti d'America”, al teatro Binario7 di Monza) è uno spettacolo che parla di una generazione intera, di un movimento nato sulle strade dell’America ed esploso in tutto il mondo, di uno spaccato di artisti coraggiosi e sperimentali, di un affresco degli anni ’50 e ’60 – in cui musica e parole, intelligenze e cuori, si inseguivano tra cielo e terra, polvere e sole, per fondersi, completarsi, specchiarsi verso un nuovo possibile orizzonte…. Lo spettacolo vuole raccontare e far rivivere quella generazione che qualcuno definì “bruciata” e qualcun altro definì dei “sacri idioti d’America” e che in ogni caso raccolse un grande consenso e diede vita al movimento dei "figli dei fiori" e dei beatniks. La musica jazz era il giusto esplosivo per far risuonare le visioni letterarie nate dalle menti di Jack Kerouac, Neal Cassady, Allen Ginsberg, William Burroughs, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, e altri scrittori che trovarono nelle nuove esplorazioni musicali un sostegno creativo e un senso di comunione tra parole suoni e visioni.
(note di regia)
Silvia Del Beccaro
Occhi gonfi, testa pesante, dita scrocchianti. Nulla mi ferma davanti all’occasione unica e irrepetibile – forse – di poter lasciare scorrere il mio flusso beat. Ispirata da uno splendido spettacolo jazzista beatiano, cullata dalla luce di tre candeline azzurre che ho trovato nascoste nell’armadio a fianco – anche se mi tocca tenere accesa comunque la lampadina a risparmio energetico, per poter vedere i tasti del mio pc a manovella –, batto parola dopo parola i miei pensieri più reconditi. Pensare, pensare, pensare… Non mi resta molto in testa alle 23.44 di sera, ma tutto sommato le mie mani riescono ancora a suonare il pianoforte dei miei pensieri. Sento passi nel corridoio, passi di fantasmi. Sarà la notte, sarà il silenzio, sarà l’alcool etilico della sonnolenza che mi sta inebriando da ore. Ma adesso sono qui. E nulla può fermare questa mia parentesi beat. Corrado ha raccontato la storia del movimento attraverso note e parole, musica e ballo, esperienze e passioni. Io la racconto a modo mio. Parlo di libera interpretazione. Libero arbitrio. Ognuno sceglie ciò che meglio crede. Il mio, di raccontare la beat generation, è questo. Sentirmi una di loro. Ho sbagliato epoca, avrei dovuto vivere negli anni Cinquanta – dico sempre. Le pettinature di una volta, i jeans di una volta, l’amore di una volta. Si faceva all’amore, non lo si raccontava solamente. Si pensava di poter cambiare qualcosa, cambiare gli schemi. E forse qualcuno ci è riuscito. Qualcun altro no. Ma chissenefrega. Guardo loro, guardo me, ripenso a loro, ripenso a me. Mi sento una di loro è vero ma non sono come loro. Cazzo che sonno, ma questo non è molto beat vero? Eppure sono un’artista. Scrivere delle onde come foglie all’idrogeno che si elevano verso il sole, degli stormi di gabbiani come angeli infuocati. E’ questo che amo. E’ questo che è beat. Scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere… Di sé, degli altri. La parola chiave è: s-c-r-i-v-e-r-e. Scrivere con il fuoco della passione dentro. Un fuoco che arde di novità, di protesta, di chiacchiere, di sogni, di droga, di alcool, di stupore, di sperimentazione, di… Sesso. Sperimentare nel sesso. Esperienze nuove, è questo che aiuta a rinnovare se stessi. È questo che aiuta a scoprire noi stessi. E a raccontarci agli altri. Scrivere del mondo che abbiamo davanti e dentro. Scrivere, scrivere, scrivere, scrivere, scrivere. Solo scrivere. Una pagina vuota, poi il flusso parte. Tre, quattro righe scritte e il flusso si interrompe. Poi riparte automaticamente. E poi ancora si ferma bruscamente. Come un treno in corsa che interrompe di colpo il suo viaggio quando all’orizzonte scorge un uomo sdraiato sulle rotaie del suo destino. Scrivere è fondamentale per un beat, che non si blocca per paura che il suo flusso possa interrompersi da un momento all’altro. Vorrà dire che quello è stato il suo momento. Quello è stato il momento del suo flusso. Domani ne sopraggiungerà un altro, e un altro ancora. E così via all’infinito. Strada, viaggio. Bottiglia, morte. Musica, fotografia. Amore, jazz. Droga, riposo. Omosessualità, poesia. Beat è questo e altro ancora. E’ una trasfusione di sangue ossigenato, è un vortice di flussi ininterrotti pronti ad esplodere dalle viscere del nostro corpo. Mi ricordo della prima volta in cui mi ubriacai. Stavo ad una festa di compleanno, appena compiuti i diciotto anni. Avevo già previsto che sarei uscita sbronza da lì. Limoncello e vino, rosso e bianco, un mix di dolcezza e amarezza insieme. Poi quella canna fatale. Il profumo dolciastro della prima tirata – che gli altri passeggeri ebbero l’onore di assaggiare – mi fece sbroccare parole senza senso. Vomitai fiumi di pensieri fino a che il mio viso divenne bianco come la sposa cadavere e mi ravvisò dell’ora di rinsavire. Se solo ricordassi quei miei soliloqui sbronzi. In vino veritas. E in limoncello pure. Così come per la tequila, il rum e la sangria. Stavo pensando di raccogliere questo mio discorso in un monologo intitolato sproloqui-per-caso – non so come mai, ma riesco sempre a trovare i titoli delle mie opere inedite. Mancano solo i contenuti e poi il gioco è fatto. Da grande voglio fare la drammaturga. Accordino è un maestro in questo. Lui riesce ad essere ciò che scrive e a scrivere ciò che è.
FIRMATO: Una Beat!
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