Integrarsi significa mescolarsi. L'integrazione per poter funzionare dev'essere somministrata in pillole e occorre dare tempo e modo ai nostri organismi di poterla assimilare. Innanzitutto dobbiamo partire dalla brutale e spietata considerazione che, dolenti o nolenti, l'integrazione avverrà per inerzia. Ad esempio: un pakistano – venuto a vivere in Italia – è logico e consequenziale che dopo un po', avendo preso in affitto una casa e disponendo di un lavoro stabile, non tarderà a trapiantare i suoi cari dalla madrepatria alla nuova patria, la quale promette – anche se difficilmente mantiene – allettanti prospettive. Perciò tanto vale far incentivare e canalizzare il flusso immigratorio dall'unico organo saggiamente preposto, lo Stato, il cui compito è quello di mescolare il più possibile le proprie componenti etniche interne. In tal modo si può scongiurare, nei limiti del possibile, la creazione di eventuali ghetti o per meglio dire di minoranze socio-linguistico-religiose all'interno del proprio territorio. Nonostante siamo quasi tutti allergici alle imposizioni, è nostro preciso dovere civico quello di sottostare alla potestà del nostro Stato, il quale deve imporre – dall'alto della sua autorità – ciò che ritiene più opportuno e consono al raggiungimento del bene comune. E, malgrado ciò che si può dire, una società multi-etnica se ben amalgamata, senza inutili ostracismi, è precisamente il massimo dei beni possibili. Prendiamo a modello due esempi difficili e per certi versi entrambi assai problematici d'integrazione. (Del resto, una società senza problematiche interne dovrebbe essere per forza di cose una società utopica, perfettamente irrealizzabile e ben lungi da quelle che sono le nostre attuali prerogative.) Ci riferiamo agli esempi di due gloriose e antiche nazioni, quali la Francia e l'Inghilterra, i cui passati coloniali le hanno entrambe condannate a dover ammortizzare dei selvaggi e implacabili flussi migratori dalle loro “ex” o ancora “attuali” colonie.
In Francia la lunga querelle che ha visto protagonista il famigerato e tanto politicamente scorretto velo islamico è stata usata come pretesto per rivendicare la laicità dello Stato – di chiara ispirazione giacobina – di cui i francesi, a loro maggior gloria, rimangono i precursori – vedi alla voce Rivoluzione francese e consimili. Se vietare il suddetto velo nei luoghi pubblici – scuole, tribunali e altre sedi burocratiche – sia stata una brillante idea oppure no questo non lo sapremo mai di preciso. Quel che sappiamo già, però, è che i focolai di rivolta scoppiati nelle banlieues parigine e di mezza Francia non sono di certo dei segnali incoraggianti a tal proposito. Ampie fasce della popolazione cittadina si vedono emarginate e relegate in sordidi quartieri, squallidi e degradati, somiglianti in tutto e per tutto a dei “ghetti”. Dunque parlare di un modello d'integrazione alla francese ci sembra quanto meno improprio o, in ogni caso, non certamente di buon auspicio.
E si può definire altrettanto poco appropriato uno speculare modello d'integrazione inglese. Gli attentati terroristici avvenuti il 7 luglio 2005 ne sono un'evidente riprova. Infatti essi sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso: in un paese come l'Inghilterra, dove l'immigrazione viene vissuta con un misto d'indifferenza e di flemma britannica, della serie: “Abbiamo troppa immigrazione, be' pazienza, questo è il prezzo che dobbiamo pagare per fare dei buoni affari...”. Chissà però se il popolo inglese – tanto per intenderci, quello che di solito prende la metropolitana o l'autobus per andare a lavoro – la pensa allo stesso modo degli insigni Ministri di Sua Maestà, i quali ritengono accettabili i rischi di attentati purché non si mandi a rotoli una proficua partnership con i cugini americani e i quali – inoltre – sono soliti essere accompagnati al lavoro da portentose scorte con tanto di autoblindate a disposizione.
Il quadro sconfortante che ne emerge è che sia la Francia – tradizionalmente progressista (nonostante Sarkozy o i gaullisti come lui di fresca estrazione) – che l'Inghilterra – altresì tradizionalmente conservatrice (malgrado Blair e il suo collie scozzese Gordon Brown) – presentano due modelli d'immigrazione piuttosto fallimentari. Dunque, in un paese come il nostro, di per sé già sufficientemente complesso e non ancora pienamente toccato dai fenomeni dell'immigrazione – le “bagnarole” dei clandestini toccano sì le nostre coste ma di solito quelli che vi sono a bordo sono diretti da tutt'altra parte: Germania, Spagna, Francia o Inghilterra –, sarebbe meglio riconsiderare in un'altra ottica le precedenti esperienze francesi e inglesi in materia d'immigrazione. Per adesso almeno la miglior cosa che possono fare in proposito i nostri governanti è sensibilizzare larghe fasce della popolazione, altrimenti ostili o intolleranti verso il “diverso” – del resto che cos'è la xenofobia se non la paura di chi ha un aspetto “diverso dal nostro”, anche se magari in fondo al suo cuore è governato dalle nostre precise ed identiche pulsioni, «umane troppo umane» verrebbe da dire con Nietzsche. Credere infatti che l'accettazione e conseguente assimilazione delle minoranze etniche all'interno della propria popolazione sia un fattore che vada regolato partendo dal basso, cioè dai singoli cittadini, è un'assoluta follia: sarebbe come ostinarsi a credere ancora, alle renne, ai folletti e a Babbo Natale. Un'iniziativa come l'integrazione può essere regolata unicamente partendo dall'alto, ovvero dallo Stato stesso, che deve sapersi imporre per evitare una altrimenti inevitabile ondata d'intolleranza razziale.
Da che mondo è mondo, l'essere umano è una creatura abitudinaria. Toglietegli le sue abitudini e lui con tutta probabilità impazzirà. Dunque è illecito pensare che i singoli cittadini siano in grado di promuovere iniziative d'integrazione quando queste possono minacciare – anche solo teoricamente – le loro abitudini ben consolidate. A tal proposito ribadiamo che lo Stato e solo lo Stato può essere il sommo Regolatore dei delicati e complicati meccanismi d'integrazione, proponendo iniziative valide e concrete esso deve andare incontro sia alle esigenze dei nativi che a quelle dei migranti. Per partire con il piede giusto esso dovrebbe innanzitutto mescolare i suoi cittadini. Il suo motto dovrebbe diventare perciò: Mescolatevi per non soccombere! Già, perché se non ci sarà un serio rimescolamento delle parti in causa, se i figli dei nativi e i figli dei migranti non cresceranno spalla a spalla sugli stessi banchi di scuola, organizzazioni terroristiche parastatali potrebbero infiltrarsi capillarmente nei nostri tranquilli borghi di provincia – vedi quanto è avvenuto recentemente nella placida e pacifica Umbria, dov'è stata sgominata un'insospettabile cellula del terrore – e finire con l'avere il sopravvento. Preghiamo dunque per i nostri figli che ciò non avvenga mai, ma intanto cominciamo a prendere coscienza dell'entità del problema...
In Francia la lunga querelle che ha visto protagonista il famigerato e tanto politicamente scorretto velo islamico è stata usata come pretesto per rivendicare la laicità dello Stato – di chiara ispirazione giacobina – di cui i francesi, a loro maggior gloria, rimangono i precursori – vedi alla voce Rivoluzione francese e consimili. Se vietare il suddetto velo nei luoghi pubblici – scuole, tribunali e altre sedi burocratiche – sia stata una brillante idea oppure no questo non lo sapremo mai di preciso. Quel che sappiamo già, però, è che i focolai di rivolta scoppiati nelle banlieues parigine e di mezza Francia non sono di certo dei segnali incoraggianti a tal proposito. Ampie fasce della popolazione cittadina si vedono emarginate e relegate in sordidi quartieri, squallidi e degradati, somiglianti in tutto e per tutto a dei “ghetti”. Dunque parlare di un modello d'integrazione alla francese ci sembra quanto meno improprio o, in ogni caso, non certamente di buon auspicio.
E si può definire altrettanto poco appropriato uno speculare modello d'integrazione inglese. Gli attentati terroristici avvenuti il 7 luglio 2005 ne sono un'evidente riprova. Infatti essi sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso: in un paese come l'Inghilterra, dove l'immigrazione viene vissuta con un misto d'indifferenza e di flemma britannica, della serie: “Abbiamo troppa immigrazione, be' pazienza, questo è il prezzo che dobbiamo pagare per fare dei buoni affari...”. Chissà però se il popolo inglese – tanto per intenderci, quello che di solito prende la metropolitana o l'autobus per andare a lavoro – la pensa allo stesso modo degli insigni Ministri di Sua Maestà, i quali ritengono accettabili i rischi di attentati purché non si mandi a rotoli una proficua partnership con i cugini americani e i quali – inoltre – sono soliti essere accompagnati al lavoro da portentose scorte con tanto di autoblindate a disposizione.
Il quadro sconfortante che ne emerge è che sia la Francia – tradizionalmente progressista (nonostante Sarkozy o i gaullisti come lui di fresca estrazione) – che l'Inghilterra – altresì tradizionalmente conservatrice (malgrado Blair e il suo collie scozzese Gordon Brown) – presentano due modelli d'immigrazione piuttosto fallimentari. Dunque, in un paese come il nostro, di per sé già sufficientemente complesso e non ancora pienamente toccato dai fenomeni dell'immigrazione – le “bagnarole” dei clandestini toccano sì le nostre coste ma di solito quelli che vi sono a bordo sono diretti da tutt'altra parte: Germania, Spagna, Francia o Inghilterra –, sarebbe meglio riconsiderare in un'altra ottica le precedenti esperienze francesi e inglesi in materia d'immigrazione. Per adesso almeno la miglior cosa che possono fare in proposito i nostri governanti è sensibilizzare larghe fasce della popolazione, altrimenti ostili o intolleranti verso il “diverso” – del resto che cos'è la xenofobia se non la paura di chi ha un aspetto “diverso dal nostro”, anche se magari in fondo al suo cuore è governato dalle nostre precise ed identiche pulsioni, «umane troppo umane» verrebbe da dire con Nietzsche. Credere infatti che l'accettazione e conseguente assimilazione delle minoranze etniche all'interno della propria popolazione sia un fattore che vada regolato partendo dal basso, cioè dai singoli cittadini, è un'assoluta follia: sarebbe come ostinarsi a credere ancora, alle renne, ai folletti e a Babbo Natale. Un'iniziativa come l'integrazione può essere regolata unicamente partendo dall'alto, ovvero dallo Stato stesso, che deve sapersi imporre per evitare una altrimenti inevitabile ondata d'intolleranza razziale.
Da che mondo è mondo, l'essere umano è una creatura abitudinaria. Toglietegli le sue abitudini e lui con tutta probabilità impazzirà. Dunque è illecito pensare che i singoli cittadini siano in grado di promuovere iniziative d'integrazione quando queste possono minacciare – anche solo teoricamente – le loro abitudini ben consolidate. A tal proposito ribadiamo che lo Stato e solo lo Stato può essere il sommo Regolatore dei delicati e complicati meccanismi d'integrazione, proponendo iniziative valide e concrete esso deve andare incontro sia alle esigenze dei nativi che a quelle dei migranti. Per partire con il piede giusto esso dovrebbe innanzitutto mescolare i suoi cittadini. Il suo motto dovrebbe diventare perciò: Mescolatevi per non soccombere! Già, perché se non ci sarà un serio rimescolamento delle parti in causa, se i figli dei nativi e i figli dei migranti non cresceranno spalla a spalla sugli stessi banchi di scuola, organizzazioni terroristiche parastatali potrebbero infiltrarsi capillarmente nei nostri tranquilli borghi di provincia – vedi quanto è avvenuto recentemente nella placida e pacifica Umbria, dov'è stata sgominata un'insospettabile cellula del terrore – e finire con l'avere il sopravvento. Preghiamo dunque per i nostri figli che ciò non avvenga mai, ma intanto cominciamo a prendere coscienza dell'entità del problema...
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