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1.8.07

La Via del Guerriero

di Marco Apolloni

L'essere del guerriero – potremmo dire con il filosofo tedesco Martin Heidegger – è un essere-per-la-morte. Ma non bisogna lasciarsi ingannare. Vivere in funzione della propria inevitabile quanto ineluttabile fine, non vuol dire diventare schiavi di questo pensiero fisso – che ci assilla con il suo truce sentore, ad ogni istante della nostra incerta esistenza. All'opposto, vivere con la consapevolezza di dover-morire significa liberarsi da questo pensiero intollerabile. Lo stesso Heidegger distingue due categorie di pensiero: la paura da un lato e l'angoscia dall'altro. Se la prima è diretta verso qualcosa di determinato, ovvero si ha paura di qualcosa di preciso – di una malattia o di una qualsiasi altra catastrofe –, diversamente la seconda è diretta verso qualcosa di indeterminato, ovvero si prova angoscia per la propria condizione di finitezza umana – sapendo che, prima o poi, si dovrà morire. Mentre l'una ha degli effetti palesi – la paura è un sentimento che si manifesta potentemente –, l'altra s'insidia negli abissi insondabili dell'animo umano – l'angoscia è un serpente silenzioso, che ci striscia dentro e ci inietta il suo veleno mortifero che, a poco a poco, farà il suo lento corso fino ad avvelenare l'intera nostra esistenza. I samurai, guerrieri del medioevo giapponese, escogitarono un rimedio efficace per sputare fuori questo veleno esistenziale. Essi vivevano ogni secondo immaginando di morire in mille maniere differenti: trafitti da un colpo ferale di katana, infilzati da una freccia in mezzo alla mischia, accoltellati durante una rissa in taverna, eccetera1. L'essenza di questa loro etica è contenuta in nuce nell'Hagakure – Il Codice Segreto dei Samurai. Libro misterioso del monaco buddista – ex samurai – Yamamoto Tsunetomo, che lo voleva destinare alle fiamme e che è stato invece salvato dall'oblio da un suo discepolo disubbidiente (Tashiro Tsuramoto). Ad una prima lettura, questa pietra miliare della saggezza giapponese si presenta come un testo ricco di aneddoti, di ricordi e di citazioni disarticolate; in un secondo momento si rivela essere la Repubblica platonica dei samurai – per usare un degno paragone appartenente al nostro immaginario occidentale.
Già la parola stessa “samurai” potrebbe bastarci per comprendere la semplice ma profonda mentalità di questi romantici guerrieri giapponesi – che paiono collocarsi fuori da ogni epoca storica e da ogni contesto specifico. Essa designa l'atto del servire un padrone. E in questo coscienzioso servizio, precisamente, si esauriva ogni loro compito. Chi crede che oggi in Giappone la mentalità del samurai non esista più, si sbaglia. Il fenomeno della “samuraizzazione” ha contagiato ogni singolo strato della società nipponica ed ora sopravvive nell'etica lavorativa dell'impiegato giapponese, il quale lavora con grande attaccamento e dedizione alla propria azienda. Al posto del padrone da servire, l'impiegato medio nipponico di oggi si ritrova a servire il proprio datore di lavoro. Questo sistema gerarchico, quanto meno eccessivo per noi osservatori occidentali, è alla base del processo d'industrializzazione accelerato che ha riportato la patria del Sol Levante al posto di tutto rispetto che più gli spetta fra il lotto delle super-potenze mondiali.
Lo spettacolare harakiri – modo in cui i samurai, sventrandosi, si davano la morte – dello scrittore nipponico Yukio Mishima2, avvenuto in diretta televisiva il 25 novembre del 1970, riportò in auge l'Hagakure – testo basilare della cultura giapponese posto all'indice dagli americani, usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale e che riconobbero proprio in esso una sorta di Bibbia nichilista, che aveva spinto il fiore della gioventù nipponica ad arruolarsi fra le fila dei kamikaze, i quali andavano a sfracellarsi a bordo dei loro aerei sulle navi da guerra americane per servire la loro patria e il loro imperatore. Certo il comandamento «la Via del Samurai è la morte» si prestò molto bene al fraintendimento degli yankees, che da occidentali non capirono affatto l'autentico significato di questo insegnamento – che invitava ad accettare la morte per vivere appieno la vita e fugare così ogni paura vana.
L'unico insegnamento che in Occidente potrebbe venire – seppur lontanamente – paragonato a quello appena citato e tratto dall'Hagakure, lo impartì Epicuro. Costui invitò a non temere la morte, in quanto riconosceva in essa qualcosa di totalmente assente dalla realtà stessa della vita, dato che – estrapolando il succo del suo pensiero – quando c'è la vita non c'è la morte e quando c'è la morte non c'è la vita! In Occidente, patria della filosofia, si contano infatti sul palmo di una mano le rare eccezioni di autori – sia antichi che moderni – che potrebbero venire ricondotti ad una certa saggezza tipicamente orientale. Si tratta dei già citati Heidegger ed Epicuro, a cui si aggiungono Nietzsche, Schopenhauer e l'illustre Socrate, il più sapiente fra gli uomini secondo la nota profezia dell'Oracolo di Delfi. In un passo riportato da Platone, ne L'apologia di Socrate, lo stesso cittadino esemplare ateniese, dopo esser stato processato e condannato a morte per empietà3, afferma: «Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti, fuori che a Dio».4
Nel pensiero di Socrate, fondatore della filosofia occidentale, era già contenuto – come traspare inequivocabilmente dalla citazione sopra riportata – il germe del nichilismo. Difatti il suo dubitare che la morte fosse tanto peggio della vita, cos'è se non il più antico esempio di nichilismo di cui ci è giunta memoria? La supremazia della vita sulla morte qui viene tenacemente rigettata da Socrate, che sembra addirittura augurarsi quest'ultima come il minore dei mali. Certo questa sua massima potrebbe venire interpretata basandosi sul contesto da cui è scaturita, ovvero: quale ultima volontà di un condannato a morte, che sta per assaporare il calice amaro della cicuta. Sia quel che sia, riflettendo attentamente, che cos'è in fondo la filosofia se non la cristallizzazione della vita? Del resto la filosofia, direttamente o indirettamente, ha comunque a che fare con la morte; potremmo dire che essa sia uno strumento di consolazione alternativo alla religione. E niente lo testimonia meglio dell'aforisma sopra riportato di Socrate. Il modo in cui lui va incontro alla sua inesorabile sorte, ci ricorda la saggezza degli indiani d’America. Quando si approssimava la loro ultima ora, essi erano soliti prendere congedo dai loro cari senza tante smancerie, togliendo il disturbo da questa vita quasi in punta di piedi – oseremmo dire. Analogo è senza dubbio il caso dei samurai, i quali, con lo stesso senso dell'ignoto presente in Socrate, solevano andare in battaglia, dove si dimostravano impavidi perché si erano liberati della spada di Damocle che era calata sopra le loro teste quale: la Morte appunto.
Proprio il pensiero della morte, invece che appesantire l'esistenza dei samurai, la rendeva più lieve e sopportabile5. Il loro spirito alleggerito li rendeva dei guerrieri formidabili. Solo con uno spirito del tutto rinnovato, come quello dei samurai, si possono affrontare trionfalmente le mille e più battaglie che la vita ci pone davanti ogni giorno. Il samurai, munito del suo inseparabile spirito guerriero, queste battaglie sapeva affrontarle con coraggio impareggiabile e come nessun altro seppe mai fare, consapevole che solo nell'ora più estrema si può misurare l'effettivo valore di un uomo. In definitiva l'etica del samurai può venire così riassunta: chi ha paura di morire, ha paura anche di vivere... Morte e Vita sono perciò il rovescio della stessa medaglia, pertanto: non saper accettare l'una significherebbe non saper accettare neppure l'altra!
Di ciò i samurai erano consapevoli. Questa loro semplice, ma pressoché indubitabile, consapevolezza li fece elevare al di sopra dei loro simili. Solo sconfiggendo le proprie paure ci si potrà liberare, infatti, dal dominio della morte e dirsi veramente degli uomini liberi. Per far ciò occorre, però, prima capire a fondo la Via del Guerriero che è: l'essere-per-la-morte heideggeriano. Per dirlo con il sommo maestro Yamamoto Tsunetomo: «Io ho scoperto che la via del samurai è morire. Davanti all'alternativa della vita e della morte è preferibile scegliere la morte. Non c'è bisogno di pensarci; presa la decisione si va avanti. Morire senza aver raggiunto lo scopo è una morte da cani e un Bushido6 da mercanti [...] Questa è l'essenza del Bushido: pensando alla morte, mattina e sera, nel silenzio e stando pronti a morire ad ogni momento, si assimila il Bushido e per tutta la vita, senza commettere errori, si adempie il dovere del samurai»7. Solo chi, come il samurai, sarà capace di morire infinite volte, saprà rinascere alla vera vita del guerriero. E scopo del guerriero è appunto quello di vivere e, soprattutto, morire con onore.


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1 Vale la pena riportare per intero questo mirabile aforisma: «La meditazione sulla certezza della morte deve essere praticata tutti i giorni. Ogni mattina in profondo raccoglimento del corpo e della mente, devi immaginarti di venire fatto a pezzi da frecce, fucilate, lance e spade, oppure di venire travolto dalle onde, di trovarti in mezzo a un vasto incendio, di venire colpito da un fulmine, di venire scosso da un grande terremoto, di cadere in un profondo precipizio, di morire di malattia e infine di dover fare harakiri per la morte del tuo signore. Ogni mattina, senza alcuna negligenza, devi considerarti come morto.». Tsunetomo, Y., Hagakure – Il Codice Segreto dei Samurai, Einaudi, Torino, 2001, cit. p. 184.
2 L'opera di questo autore è tutta pervasa da una dura critica al processo sfrenato di modernizzazione del suo Paese, dimentico di quei valori originari e tradizionali che lo avevano reso grande in passato.
3 La pena prevista nell'antica Atene per questo reato era l'esilio, ma a Socrate gli venne commutata in pena capitale, visto che si era rifiutato di abbandonare la propria polis, per non infrangere quelle leggi in virtù delle quali lui si era sempre battuto. Per l'incredibile dedizione dimostrata per la sua patria, al servizio della quale lui si immolò, Socrate potrebbe dirsi il “Primo Samurai” di cui ci è giunta l'eco. D'altronde, la filosofia stessa di Socrate serve ad uno scopo terapeutico, ossia: preparare alla morte...
4 Platone, Apologia di Socrate – Critone, a cura di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari, 2000, cit. p. 65.
5 L'essenza della vita per un samurai si riassume in questo folgorante aforisma del monaco Tannen: «L'insegnare soltanto il vuoto mentale non è una cosa convincente. Il non pensare significa pensare rettamente». Tsunetomo, Y., Hagakure – Il Codice Segreto dei Samurai, Einaudi, Torino, 2001, cit. p. 23.
6 Il Bushido è «la Via del Samurai».
7 Tsunetomo, Y., Hagakure – Il Codice Segreto dei Samurai, Einaudi, Torino, 2001, cit. pp. 11-12.

24.6.07

La religione vichinga: dèi Asi e dèi Vani

di Marco Apolloni


Una religione guerresca, come quella vichinga, non poteva non avere la sua genesi se non in uno scontro epico tra due fazioni di divinità: gli dèi Asi e i Vani1. Questa guerra si conclude con un'insperata pace. L'accordo prevede uno scambio di ostaggi. Quelli che vengono a vivere ad Asgard, la capitale degli dèi Asi, sono: il padre Njörd, suo figlio Freyr e sua figlia Freyja – divinità queste simboleggianti ciascuna: la fertilità della terra, la vita sessuale e la vita amorosa. Per far pace essi sputano di comune accordo su di un recipiente. Da questo «pegno di pace» viene plasmato un uomo Kvasir, di straordinaria saggezza. Il destino di Kvasir è però segnato: due nani lo uccidono, distribuendo il suo sangue in tre recipienti diversi, in cui vi mescolano del miele formando così «l'idromele di poesia e di saggezza». I due nani poi raccontano agli dèi che Kvasir è soffocato nella propria saggezza, non essendovi stato alcuno capace di esaurirla con le sue domande2. Molti studiosi propendono col ritenere che questa guerra tra gli dèi Asi e Vani sia lo specchio di un analogo conflitto tra due popolazioni umane, laddove i Vani corrispondono ad una stirpe più originaria e pacifica, mentre gli Asi ad una venuta dopo e decisamente più guerresca. Lo studioso di religioni francese Georges Dumézil, invece, non è di questo avviso. Questi frappone ad una tesi storicizzante, che vede nella guerra tra gli dèi Asi e Vani un riflesso di avvenimenti storici realmente accaduti, la sua tesi strutturalista3. Secondo questa, infatti, Asi e Vani sono divinità che presuppongono ciascuna l'altra, poiché sono appunto complementari – ossia gli uomini hanno bisogno di affidarsi sia agli uni che agli altri. Anche se Dumézil stesso non nega una certa veridicità della tesi storicizzante, che riflette davvero un mondo che esisteva già prima degli Indoeuropei – poi divenuti i Germani. Ad ogni modo lui ritiene che persino le popolazioni più antiche necessitassero sia di un tipo di divinità pacifiche che di altre – per così dire – guerrafondaie, a cui rivolgere i loro tributi a seconda dei casi.
Tutte le principali divinità appartenenti al pantheon nordico sono degli Asi: Odino, Thor, Ty, Baldr, Heimdal, Ull. La capitale degli Asi è Asgard, da dove il potente Odino amministra saggiamente il suo potere nella grande magione chiamata Valhalla, con le sue quaranta porte e il trono splendente Hlidskjalf. Il cielo iperuranico degli dèi è separato dal ponte Bifröst – trattasi del tremulo arcobaleno. La terra è circondata dal grande oceano, dimora del serpente di Midgard. Sulla sponda più lontana dell'oceano si trovano le montagne dei titani, Jötunheim, dov'è situata la loro cittadella, Utgard. Negli abissi della terra è celata la landa desolata dei morti, Hel – da cui deriva l'inglese Hell: Inferno. L'equivalente dell'Albero della Conoscenza del Bene e del Male, che si trova nelle Genesi, qui lo riconosciamo nell'albero di frassino Yggdrasil. Accanto a Yggdrasil si trovano due fontane: la fontana della saggezza di Mimi e l'altra del destino di Urd. Quattro cervi insidiano le radici di Yggdrasil, che per questo langue e rischia di marcire. Ma le tre Norne: Urd, Vernandi e Skuld – vale a dire le tre dee rispettivamente: del Passato, del Presente e del Futuro – lo innaffiano in continuazione e si prendono cura dei suoi germogli. In un sacrario nei pressi della fontana di Urd si riuniscono gli dèi, Asi e Vani, per il loro consueto thing o assemblea.
Di particolare interesse è la concezione escatologica – cioè della fine dei tempi – propria della religione vichinga. Il paradiso è concepito dai vichinghi come una battaglia senza posa in attesa del giorno finale del giudizio: il Ragnarök, dove si regoleranno tutti i conti lasciati in sospeso fra gli dèi buoni e quelli altresì malvagi. Esso sarà preceduto da «tempo di spada» e «tempo di lupi», in cui verranno compiuti fratricidi e incesti. Dice Brøndsted nel suo saggio I vichinghi:

I galli canteranno nel palazzo di Odino, nello Hel e nelle selve dei sacrifici. Cresceranno orrore e paura. È l'epoca dei mostri giganteschi: il cane infernale Garm abbaierà; il lupo Fenrir, rotte le catene, scorrazzerà libero con le sue fauci che vanno dalla terra al cielo; il serpente di Midgard sferzerà l'oceano facendolo spumeggiare e sputando veleno sulla terra. Il gigante Hrym solcherà i mari con la sua nave Naglfar, costruita con le unghie dei morti; i figli di Muspel vi s'imbarcheranno e partiranno agli ordini di Loki. L'albero Yggdrasil tremerà, il cielo si spaccherà, le rupi crolleranno. In Jötunheim si sentirà un rombo, i nani strilleranno. Odino starà in allarme, Heimdal suonerà il suo corno, il ponte Bifröst crollerà, e il gigante Surt avanzerà vomitando fuoco. [...]4

Segue a questo efficace proemio, la descrizione roboante della battaglia decisiva in cui ciascuna divinità, sia essa benigna che maligna, verrà annientata. Odino verrà sbranato dal lupo famelico Fenrir, che a sua volta troverà la morte per mano di Vidar, che vendicherà così l'uccisione del padre. Thor ucciderà il serpente di Midgard – ma come Beowulf e Buliwyf – morirà a causa del veleno di questi. Ty e il cane infernale Garm si ammazzeranno a vicenda e stessa sorte toccherà a Heimdal e Loki. E così via per gli altri... In conclusione, però, dalle ceneri di questa battaglia risolutiva, rinascerà un nuovo mondo totalmente epurato dal male. L'alba di un nuovo giorno bussa ormai alle porte, una nuova religione senza peccato prenderà il posto della vecchia religione pagana: al martello di Thor si sostituirà la croce di Cristo.

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1Vi sono anche altre specie di divinità, meno importanti. Tra cui primeggiano: gli Elfi o alfar.
2Dumézil, G., Gli Dèi dei Germani, Adelphi, Milano, 1991, vedi pp. 44-45-46-47-48-49. Kvas era anche il nome di una bevanda in uso presso i popoli slavi, che donava l'ebbrezza. Questo mito germanico presenta una palese analogia con un mito indiano. Come gli Asi e i Vani della mitologia germanica, anche nella mitologia indiana vi è un conflitto originario dello stesso tipo tra gli dèi Indra e quelli Nâsatya. Un'asceta alleato dei Nâsatya fabbrica con la forza della sua ascesi un mostro: «Ebbrezza», Mada, che minaccia d'inghiottire tutto il mondo. Indra, spaventato, subito cede e stipula la pace coi Nâsatya. Per questi ultimi, però, a questo punto si pone il problema di come sbarazzarsi del mostro che non è altro che la personificazione dell'ebbrezza. Sicché l'asceta suo artefice si sbarazza della sua mostruosa creazione, facendolo in quattro pezzi, che vanno poi a distribuirsi nei quattro elementi che da quel momento in poi inebrieranno gli uomini: la bevanda, le donne, il gioco, la caccia. In questa analogia tra i due miti – germanico e nordico – è possibile rintracciare oltre che la diversa accezione – nel primo positiva e nel secondo, invece, negativa – che si dà dell'ebbrezza, anche una comune accezione – per entrambi positiva – di come all'origine dell'iniziale conflitto, seguito poi ad una pronta riconciliazione, tra divinità della fertilità e divinità della guerra vi sia l'esaustivo punto di approdo per un'armoniosa collaborazione delle classi sociali: sia dei coltivatori che dei guerrieri...
3Gli Dèi dei Germani, vedi pp. 28-29-30.
4I vichinghi, cit. pp. 271-272.

1.1.07

Il sacrificio fondativo

di Marco Apolloni

L'elemento che hanno in comune le società umane è il sacrificio fondativo[1]. Si tratta di un omicidio collettivo di una vittima esemplare, un cosiddetto capro espiatorio, atto a spezzare il cerchio della ritualità e a placare così il circolo vizioso innescatosi con la violenza primigenia. Proprio tale meccanismo sacrificale rende possibile il salto qualitativo dal mito alla religione, ovvero dal rito al culto. All'origine infatti – in ciascuna società umana – vi è il mito, ossia quella fitta e intricata rete di storie che non sono altro che spiegazioni fantastiche di accadimenti reali. Ai primordi dell'umanità – quando cioè non si disponeva ancora degli attuali strumenti conoscitivi – le spiegazioni mitiche venivano credute, in mancanza di ragioni migliori a cui credere. Da sempre la curiosità insita nella natura umana ha fatto sì che l'uomo avesse bisogno di spiegazioni o suoi surrogati. Con l'avvento della filosofia, quindi della razionalità, il mito è passato automaticamente in secondo piano. La filosofia – che al pari della religione è da intendersi come un discorso sul logos[2] – ha privato di valore il mito. In sostanza, si potrebbe raffigurare lo stato pre-filosofico e pre-religioso come momento di ottenebramento per l'umanità, che ha cominciato a vedere solo con l'avvento messianico della filosofia e vuoi anche della religione. Il discorso sia filosofico che religioso si poggia infatti su fondamenti razionali, a differenza del discorso mitico che è altresì totalmente irrazionale. Ciononostante un periodo culturale pieno di fermenti, quale il Romanticismo, ha rivalutato l'esigenza di teorizzare una «nuova mitologia»[3]. A proposito del mito, occorre distinguere due diversi approcci: uno appunto romantico, che dà al mito un'importanza basilare e lo riconduce all'originario (origine che è la meta); e un altro invece illuministico, che rintraccia nel mito una spiegazione piuttosto rozza ai fenomeni naturali e ascrivibile a un'età umana di minorità, ovvero quando ancora il Medioevo della ragione oscurava le menti superstiziose di popolazioni perlopiù barbare. Malgrado questi due differenti approcci, una cosa almeno su cui sia romantici che illuministi concordavano era che la fase mitica fosse stata la prima per tutte le società umane.
Rimanendo entro l'ambito ristretto della civiltà occidentale, due sacrifici cruciali ne hanno gettato le fondamenta, e cioè: in ambito cristiano – dunque religioso – il sacrificio di Cristo; in ambito filosofico, invece, il sacrificio di Socrate. Tali sacrifici hanno infranto le catene che tenevano avvinta questa civiltà al mito e ai suoi meccanismi rituali, in cui la violenza veniva addotta a motivo di ricongiungimento con il divino offeso. Nella tradizione semitica, appunto, il sacrificio svolgeva questa funzione riconciliatoria. Basti sfogliare le pagine dell'Antico Testamento per appurare la ricorrenza di episodi sacrificali. In un simile scenario di violenza si erse mastodontico un falegname palestinese, Cristo appunto, che versando il suo sangue per una Nuova Alleanza pose fine al meccanismo rituale-sacrificale. Ma già prima di lui, ad Atene – culla della civiltà occidentale –, venne immolato un uomo di nome Socrate, che dedicò la sua vita ad interrogare i suoi concittadini alla ricerca di chi poteva dirsi “sapiente”. Così facendo, però, egli non fece altro che smascherare l'ignoranza altrui, non trovandone nemmeno uno degno di sì lusinghiero appellativo. Se uno poteva dirsi “sapiente”, secondo la Pizia – sacerdotessa di Apollo, che parlava per bocca del dio –, questi era Socrate stesso. Perciò il sapere di non sapere socratico divenne l'unica vera forma di sapienza. Ad ogni modo, l'umiltà sfacciata di Socrate non poteva risultare cosa gradita a quei suoi concittadini più meschini. Proprio la malignità di certi suoi concittadini segnò la sua irrefutabile condanna, che lui poté decidere di scontare o con l'esilio o con la pena capitale. Socrate, per non venire meno a tutti quei valori in cui aveva sempre creduto, scelse la morte piuttosto che la fuga dalla sua polis. Da questo nobile sacrificio Platone trasse lo spunto per teorizzare la sua Repubblica ideale, in cui nessun uomo giusto sarebbe più dovuto morire per colpa di leggi ingiuste. In estrema sintesi, esiste un nesso inscindibile che lega l'evento sacrificale alla fondazione della civiltà occidentale e come essa, d'altronde, anche di ogni altra civiltà umana.
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[1] Sull'importanza del tema sacrificale si rimanda alla lettura dell'opera omnia di R. Girard, autore che ha più indagato le implicazioni del sacrificio come momento fondativo delle civiltà umane.
[2] Parola questa dalle mille accezioni, tra cui: parola, discorso, ragione; tutti attributi questi della teologia cristiana, legati cioè alla divinità.
[3] Hölderlin, F., Scritti di estetica, Milano, 1996, p. 162.

1.12.06

Commento alla "Lettera agli Ebrei"

di Marco Apolloni
La Lettera agli ebrei – ascrivibile alla tradizione paolina – è uno dei capolavori della letteratura neotestamentaria. Qui viene fatto un magnifico sunto del pensiero cristiano – in generale – e del pensiero paolino – in particolare. I tre punti cruciali che si possono facilmente individuare sono: 1) si ottiene la salvezza per mezzo della fede – e con il concorso della grazia, non già mediante le “opere morte”; 2) Cristo è il fautore di una Nuova Alleanza ben più salda della precedente, perché ancorata su promesse migliori – quali la vita e la beatitudine eterna; 3) i cristiani si considerano stranieri a questo mondo – per questo esistono delle similitudini tra il paolinismo e lo gnosticismo cristiano, vuoi per il disprezzo del corpo e vuoi anche per la svalutazione di questo mondo.
Cristo è innanzitutto (c 3): apostolo e sommo sacerdote, dunque nunzio e custode della fede professata fin dagli antichi padri e profeti d'Israele. Con la sola eccezione però che, a differenza di Mosè stimato a rango di fedele servitore, lui è invece il figlio della casata di Dio. Nel dir ciò, l'autore della lettera ricorre al seguente esempio: il costruttore della casa è superiore al padrone della stessa, in quanto è stato colui che l'ha progettata. Superiore a tutti è Dio (il quale è naturalmente: il Sommo Architetto!). Inoltre, qui viene detto come la casa è costituita da tutti coloro che perseverano nella fede. Di questi ne è stato fulgido esempio Abramo (c 11), il quale credendo ciecamente alla promessa divina si tuffò nell'ignoto, raccogliendone poi il frutto con Abramo, concepito insieme alla moglie Sara e appunto detto: “figlio della promessa”.
Si diceva della salvezza che viene attuata dalla fede – quindi si può dire come questa scenda “dall'alto”, per intercessione della grazia. L'autore della lettera si esprime in questi termini: “[...] È dunque riservato ancora un riposo sabatico per il popolo di Dio. Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch'egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. [...]” (Eb 4, 9-10). Il riposo sabatico che qui viene sotteso altro non è che il riposo di Dio il settimo giorno della sua creazione mondana – episodio questo riportato nella Genesi. Allo stesso modo coloro i quali avranno fede verrano esonerati dalle opere – queste ultime infatti da sole non bastano, la salvezza appunto non può venire procurata “dal basso” senza il requisito indispensabile: la fede stessa. Al Dio onniveggente nulla può sfuggire, egli è Occhio Vivente che tutto scruta e a cui, perciò, è inutile rendere conto, poiché sa scandagliare a fondo i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4, 12- 13).
Agli inizi del c 5 viene introdotta la netta distinzione tra i sacerdoti precedenti e Cristo – sommo sacerdote. Essi erano stati plasmati nell'ignoranza e nell'errore, in quanto rivestiti di debolezza (Eb 5, 2). Qui l'autore usa lo stesso linguaggio gnostico-cristiano, precisamente valentiniano. Infatti nella distinzione valentiniana vi erano tre classi umane: ilici (o somatici, da soma = corpo) i quali costituivano appunto il gradino inferiore della discendenza umana; psichici (classe intermedia, da psiche = anima); pneumatici (da pneuma = spirito). Questa distinzione viene poi ripresa e ampliata nel c 6, dove si legge verso la fine che Gesù viene dalla stirpe di Melchìsedek e quindi sarà anch'egli sommo sacerdote per sempre. Melchìsedek sarà un nome che ricorrerà spesso da qui in avanti, come parallelo per testimoniare il grado di sacerdozio superiore – perché eterno – di Gesù, che sancirà una Nuova Alleanza, infrangendo pertanto la precedente, purtroppo fallace. Inoltre l'autore precisa come persino Abramo pagò la decima a Melchìsedek – designato come “re di giustizia” nonché “re di Salem (che vuol dire: di pace)”. Infatti si era soliti pagare la decima ai ministri del culto per il loro ufficio cultuale. Il gesto di Abramo, dunque, sta a significare il riconoscimento della superiorità di Melchìsedek, il quale viene detto: “[...] Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno. [...]” (Eb 7,3). A tal proposito, l'autore intende ancorare alle antiche scritture, una volta di più, la venuta messianica del Figlio di Dio, come segno della nuova promessa escatologica, ossia: Gesù è venuto sì a lavare i peccati degli uomini, a patto che essi però abbiano fede in lui per essere salvati. Perciò Gesù fa legge a sé – alla maniera di Melchìsedek –, essendo lui il viatico alla nuova legge. Essa sancisce la Nuova Alleanza, che ci delinea la figura di un Dio non più vendicativo – come ci viene raffigurato nelle scritture veterotestamentarie –, bensì misericordioso: disposto a perdonare e a lavare la macchia indelebile del “peccato originale” che, fino al momento dell'estremo sacrificio compiuto da Gesù, pesò come un macigno nell'economia della salvezza umana. Per usare un linguaggio girardiano: Gesù, facendosi crocifiggere e morendo così per redimere gli uomini dai loro peccati, placa una volta per tutte l'immonda spirale della violenza dovuta al sacrificio rituale. Il suo sacrificio infatti, unico e definitivo, interrompe la ritualità dei sacrifici dell'Antica Alleanza, dove i sacerdoti – loro stessi imperfetti e per di più peccatori – cercavano invano di lavare i propri e altrui peccati sacrificando tori e capretti, poiché: “[...] Secondo la legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono. [...]” (Eb 9, 22). In virtù di ciò, la misericordia divina ha maturato il sacrificio catartico, cioè purificatorio, di Gesù. Questi segnò una decisiva linea di demarcazione, ovvero: prima di lui solo disperazione; dopo di lui, invece, solo la speranza di una vita ultraterrena – di gran lunga migliore di quella terrena.
Nel c 11 l'autore usa un'ulteriore immagine gnostica quando afferma: “[...] Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che non si vede. [...]” (Eb 11, 3). Quest'allusione infatti ritiene implicito che vi siano “altri mondi”. Con ciò afferma l'inferiorità di questa creazione mondana che è regno di Satana – il famigerato “angelo caduto” – oppure, secondo le oscure pagine del Vangelo di Giuda (di recente ritrovamento e ascrivibile alla tradizione gnostico-sethiana), frutto della creazione di un dio sanguinario-vendicativo e di un dio stolto, rispettivamente: Yaldaboath (riferimento, questo, non casuale al Dio ebraico: Yaweh) e Saklas. Sempre nel c 11 viene enunciato come i cristiani aspirino ad una patria celeste e perciò essi sono “stranieri e pellegrini sopra la terra” (Eb 11, 13). Seguendo questa linea di pensiero si arriva fino alla formulazione teorica della De civitate dei: opera questa, di un “paolinista radicale”, del calibro di Sant'Agostino, artefice del celebre motto “ama e fa ciò che vuoi”, che ci dà un'interpretazione a dir poco estremizzata del sacro comandamento “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Poi ancora in un altro prezioso passaggio del c 11 si afferma: “[...] Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa. [...]” (Eb 11, 24-26). Questa enunciazione presupporrebbe che l'autore fosse convinto della preesistenza divina di Cristo fin dalla fondazione del mondo – espressione questa che, peraltro, ricorre spesso in questa Lettera agli ebrei – e quindi anche fin dalla Luce della Genesi. In chiusura del c 11 vengono elencate tutte le tribolazioni e i maltrattamenti a cui dovettero soggiacere i paladini della fede dei quali “il mondo non era degno!” (Eb 11, 38). Nei vertiginosi cc finali 11-12 della Lettera l'autore sembra dare il meglio di sé e la retorica qui promanata è molto potente. L'aforisma che meglio racchiude la quintessenza di queste bellissime pagine – così ricche di pathos – è forse il seguente: “[...] Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! [...]” (Eb 13, 8). E così sia!

22.11.06

I vangeli dell'infanzia

di Marco Apolloni
Il Vangelo di Matteo e il Vangelo di Luca sono gli unici che trattano dell'infanzia del Salvatore. Queste due narrazioni, pur nell'unitarietà del loro intento – cioè: divulgare l'operato terreno di quell'essere ultraterreno quale fu il Cristo, tracciando così la portata escatologica del suo messaggio –, presentano alcune divergenze, in special modo: stilistiche. L'opera di Matteo sembrerebbe essere scritta più sotto il segno dell'antecedente tradizione giudaica – numerosi sono i rimandi testuali all'AT – e per certi versi è anche quella più rigorosa. L'opera altresì di Luca – la cui ispirazione paolina non può che apparire evidente sin dal suo Prologo – si presenta in maniera molto più originale; nel senso che pur essendo come l'altro ricco di dettagli storici – delineanti, appunto, un contesto storico ben preciso – la sua forma narrativa è il dittico, com'era nella tradizione ellenistica – occorre, infatti, ricordare che la lingua con cui è stato redatto questo vangelo è il greco, a differenza dell'altro scritto invece in aramaico.
Diversamente dal pubblicano Matteo – il cui vangelo è rivolto soprattutto ai giudei convertiti al cristianesimo e inizia subito preannunciando l'ascendenza davidica, quindi regale, di Gesù – Luca, medico di Antiochia, comincia la sua narrazione con la promessa, da parte del Signore, del concepimento di Giovanni detto il Battista. Analogo fu l'episodio del concepimento di Isacco – chiamato: “figlio della promessa” –, nato per volontà dell'Onnipotente da Abramo e da sua moglie Sara. Nel caso specifico del Battista, i protagonisti sono il sacerdote Zaccaria e la moglie Elisabetta, parente di Maria – poi madre di Gesù – la quale esclama riconoscente: «Ecco cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini» (Lc 1, 25). Tale castigo divino, la sterilità per l'appunto, viene tolto dal Signore ad Elisabetta proprio per dare alla luce il Battista, ovvero colui che preparerà l'avvento messianico di Cristo fra i fedeli, avvertendoli di agire rettamente secondo i nobili principi di giustizia e carità (c 3): poiché le porte del “regno dei cieli” non vengono precluse a nessuno, purché ciascuno adempia al volere divino e si renda rispettoso della Legge. Qui emerge di nuovo la stretta consonanza con il messaggio egalitario e universalistico della dottrina dell'apostolo Paolo, di cui Luca è un devoto discepolo.
Parallelamente alla nascita di Giovanni, Luca porta avanti la narrazione di quella del Messia. Appena nato, questi viene deposto “in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo” (2,7) – il bue e l'asinello verranno surrettiziamente introdotti da una pia leggenda. Tutto ciò per dare maggiore risalto alle misere condizioni in cui è stato dato alla luce il Re degli uomini! Luca si lascia più volte trasportare durante la narrazione dal “lieto annunzio” (1, 19) oppure dalla “buona novella” (3, 18) racchiusa dalla provvidenziale venuta del Messia. Egli restituisce con appassionate parole la straordinaria figura del suo Maestro venuto ad impartire, all'intera compagine umana, insegnamenti d'indubitabile fratellanza universale!
Gesù nasce a Betlemme, in questo piccolo capoluogo della Giudea, adempiendo così a quanto è stato detto dal profeta Michea (Mi 5,1). Tant'è vero che la citazione del profeta viene riportata da Matteo (2, 6). Costui nel suo vangelo si sofferma maggiormente sull'episodio dei magi accorsi a glorificare il nascituro, guidati nel loro periglioso viaggio dall'oriente – luogo da dove provenivano – dalla scia luminosa di una fantomatica stella. Essi, informati in sogno, non solo non riferirono a re Erode dell'avvenuta nascita del Redentore, ma oltretutto ritornarono in segreto nel loro paese natio (2, 12). Una particolare notazione da fare è che, come nell'AT, anche nel NT il volere divino viene spesso e volentieri comunicato mediante l'esperienza estatica dei sogni. Nel Vangelo di Matteo, ad esempio, Giuseppe viene avvertito in sogno che dal grembo di Maria sta per nascere un bambino prodigio – in base a questa rivelazione lui non ripudierà la sua compagna (1, 24). Il racconto di Matteo poi prosegue con il truce episodio della strage degli innocenti, avvenuta in Egitto e ordinata da re Erode, infuriatosi per l'inganno in cui venne tratto dai magi. Tale episodio si richiama implicitamente a quanto avvenne dopo la nascita di Mosè, quando il faraone – come Erode – ordinò di sterminare i bambini neonati. Esso assume una precisa funzione simbolica in Matteo, che vuole creare un metro di paragone – per i giudei convertiti al cristianesimo – tra: gli avvenimenti della vita di Mosè e quelli della vita di Cristo. Quest'ultimo, infatti, compirà la legge mosaica con la sua venuta, preannunciata dai profeti. Giuseppe viene avvertito ancora una volta in sogno e perciò si sposta con la famiglia a Nàzaret, adempiendo pure stavolta a quanto era stato già profetizzato sul conto del nascituro: «Sarà chiamato Nazareno». In definitiva, la venuta di Gesù sta ad indicare per Matteo l'adempimento delle scritture e a dimostrazione di ciò lui cita alla lettera il profeta Isaia (7, 14): “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa: Dio con noi” (Mt 1, 23).
Merita una particolare menzione l'episodio narrato da Luca (2, 46-50), in cui il fanciullo Gesù si trova a disquisire coi dottori nel tempio, rimasti meravigliati dall'acutezza delle sue domande e delle sue risposte. Ad un certo punto sua madre, dopo averlo a lungo ricercato insieme al compagno Giuseppe, se lo ritrova davanti in quel luogo: il tempio appunto – piuttosto impensabile se si pensa all'allora dodicenne Gesù. Quindi Maria domanda al figlio: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Questi con una penetrazione d'animo disarmante le risponde, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Le sue enigmatiche parole rimasero perlopiù incomprese, anche se oggi, ripensate col senno di poi, non possono che apparire per quel che sono, vale a dire: fin troppo premonitrici...
Infine, analizzando accuratamente la genealogia di Gesù, riportata sia da Matteo che da Luca, appare chiaro ed evidente che: per l'uno il Messia è il “figlio d'Israele” – discendente della stirpe di re Davide –, per l'altro invece è il “figlio dell'Uomo” – discendente diretto di Abramo, il primo uomo posto da Dio sulla terra. Ad ogni modo però entrambi, elencando la discendenza del Salvatore, hanno avuto un intento comune, ovvero quello di fondare la venuta messianica di Cristo come cifra assoluta delle profezie degli antichi profeti!

12.11.06

L'autenticità della seconda lettera ai Tessalonicesi

di Marco Apolloni
Facendo una debita comparazione stilistica e contenutistica tra la prima e la seconda lettera ai Tessalonicesi, sembrerebbe che l'autore sia lo stesso, nonostante il mare di dubbi sollevato in proposito. Le tematiche qui affrontate, infatti, sono troppo simili. Nella prima lettera l'apostolo Paolo formula l'ipotesi di un'imminente Parusia o Seconda Venuta del Cristo, il quale verrà a giudicare i vivi e i morti. Da ciò scaturirà il Giorno del Giudizio che apparirà come un fulmine a ciel sereno per tutti quelli che non credono, o per usare le sue stesse parole come un “ladro di notte”. Per questo lui invita i fedeli di Tessalonica ad essere vigilanti nel sonno e pronti a quel giorno risolutivo, che frutterà loro la salvezza tanto agognata per chi ha fede in Cristo. Mentre nella seconda lettera l'apostolo si preoccupa per l'atteggiamento di alcuni fedeli che, aspettandosi da un momento all'altro l'immediato ricongiungimento con il Padre celeste, si danno ad un'oziosità irrequieta – altrimenti detta pusillanimità – attendendo il fatidico Giorno del Giudizio. Giorno questo che verrà senz'altro, fa capire Paolo nella seconda lettera, ma che dovrà essere atteso nell'operosità quotidiana, poiché appunto l'ozio viene considerato nemico dello spirito, dell'anima e del corpo. Tre componenti queste che divengono un tutt'uno inscindibile, secondo l'ottica paolina ma più in generale secondo l'ottica cristiana stessa. Nella seconda e più discussa lettera viene anche illustrata, pur non facendone alcuna menzione esplicita, la figura dell'Anticristo come segnale inconfondibile del sopraggiungente secondo avvento messianico del Cristo, che annienterà il nunzio di Satana – o Satana stesso, non si capisce con precisione – e condannerà eternamente tutti coloro che si sono lasciati ingannare dalla menzogna satanica. Tutto questo per incitare alla perseveranza i fedeli “scelti come primizia per la salvezza”, poiché difatti “non di tutti è la fede” ma solo di coloro che crederanno nel Cristo vivente.
L'unico indizio che può in qualche modo farci dubitare dell'autenticità della seconda lettera può essere l'eccessiva premura con cui Paolo fa sapere che è stata scritta di suo pugno. D'altronde, però, a pensarci bene l'apostolo scrive questa lettera per distogliere i credenti della comunità di Tessalonica dal depistaggio attuato da taluni, che darebbero appunto per imminente la resa dei conti finale. Motivo che giustifica l'agitazione di molti fedeli, che s'interrogano su che senso abbia allora perseverare in un incessante operosità quotidiana se la Fine dei tempi è ormai prossima. In tal caso potrebbe sembrare più che plausibile la premura con cui l'apostolo attesta la paternità della lettera, per paura di risultare alla stessa stregua di molti altri falsificatori, i quali coi loro fasulli scritti sviarono diversi credenti. Ad ogni modo, pur facendo delle fantasiose ipotesi, risulta evidente l'impronta paolina del testo, comunque ascrivibile alla tradizione dell'apostolo, se non altro per le tematiche ivi affrontate. Occorre non dimenticarsi, inoltre, del fertile humus culturale da cui Paolo proveniva, ossia dalla tradizione messianica ebraica. Paolo fu innanzitutto un gran mistico, prova ne fu la sua misteriosa folgorazione sulla via di Damasco. Sicché da persecutore dei cristiani questi divenne l'evangelizzatore prescelto. A lui, prima che a ogni altro, dobbiamo l'opera di evangelizzazione che comportò la diffusione a macchia d'olio del cristianesimo, grazie ai suoi innumerevoli viaggi fino al cuore dell'Impero – cioè Roma. Qui lui innescò la miccia che poi avrebbe fatto auto-implodere l'Impero stesso, già minato al suo interno da vizi inverecondi e dalla mollezza dei suoi costumi – per dirlo con Rousseau. Lo spiccato universalismo della religione cristiana fu proprio ciò che sconvolse maggiormente i romani, abituati com'erano alle singole religioni di ciascun popolo conquistato. Mentre la scelta dei cristiani – non facilmente allineabili tra le fila di un popolo delimitato –, che predicavano ovunque i principi della loro religione, risultò essere tanto più una minaccia concreta per l'Impero romano. Oltretutto la Storia c'insegna che se ci sono persone da temere di più quelle sono senza dubbio: coloro che non hanno niente da perdere. E tali furono i cristiani, che non considerandosi creature mondane – cioè non di questo mondo – già se ne chiamarono al di fuori. Secondo costoro questa vita terrena era solo il viatico per conquistarsi la maggior gloria di una vita ultra-terrena. Dunque si capisce bene come per costoro il vivere e il non-vivere su questa terra apparisse come una questione del tutto superflua e sicuramente non decisiva. Ecco perché molti di loro preferirono farsi sbranare dai leoni nelle arene romane, piuttosto che rinnegare apertamente il loro Dio iper-cosmico. Nel Vangelo di Filippo – scritto gnostico pervenutoci nel corpus ritrovato casualmente a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945 – vi è un magnifico brano che attesta la potenza deflagrante costituita dai cristiani, e cioè:

[...] Se dici: «Sono ebreo», nessuno si commuove; se dici: «Sono romano», nessuno trema; se dici: «Sono greco, barbaro, schiavo, libero», nessuno si agita. Se dici: «Sono cristiano», trema il mondo. Riceva io questo segno che gli arconti non possono sopportare, allorché odono il suo nome [...]

9.11.06

Paolo: un ebreo illuminato

di Marco Apolloni

Negli Atti degli apostoli (capitolo 10) si racconta la conversione del centurione Cornelio, “uomo pio e timorato di Dio” (10,2), a cui per volontà del Padreterno – e contrariamente ai rigidi precetti della legge mosaica – viene concesso il privilegio del battesimo, seppure egli sia un pagano e non un circonciso. L'episodio ha una funzione simbolica ben precisa, ossia delinea già le mire universaliste della religione cristiana che vuole prefigurarsi come culto, rivolto a tutti coloro i quali ripongono le loro speranze salvifiche in Cristo! Come si suol dire, in simili casi, Paolo tiene il piede in due staffe, e cioè: pur nascendo ebreo, egli fu anche cittadino romano – fatto dovuto, secondo le fonti storiche a nostra disposizione, al ruolo importante svolto dalla sua famiglia come appaltatrice di tende per l'esercito romano. Se si pensa, quindi, che il ruolo di evangelizzare i pagani venne affidato ad un pagano stesso, ecco che il disegno divino non può che apparirci di una logica inoppugnabile, ossia: chi meglio Paolo poteva convertire i pagani, lui intellettuale di prim'ordine oltre che fine conoscitore della cultura ellenica – non solo scriveva in greco, ma pensava pure con la stessa sottigliezza di un greco. Dunque, appare evidente come il solo uomo-ponte che poteva edificare un terreno fertile d'incontro tra due civiltà, quella ebraica e quella greco-romana – da sempre in perenne scontro fra di loro –, poteva essere solo lui. Paolo, per le succitate ragioni, cominciò così quell'opera minatoria che avrebbe poi portato secoli dopo a ribaltare le fondamenta dell'Impero romano, facendo pertanto del cristianesimo: inizialmente una religione bandita, successivamente una religione dominante.
L'episodio del centurione ci porta così alla controversia di Antiochia (capitolo 15) in cui Paolo si fa portavoce del diritto alla salvezza dei pagani che credono in Cristo. L'argomento all'ordine del giorno – poi mirabilmente ripreso in alcuni passaggi della Lettera ai romani – è quello della giustificazione della salvezza per mezzo della fede nel Salvatore, contrapposta invece alla giustificazione per mezzo delle opere. Qui si produce una netta spaccatura rispetto alle strette osservanze della legge mosaica, che viene appunto minimizzata da Paolo finanche subordinata alla venuta del Cristo, banditore della stessa legge oramai superata. In sostanza, Cristo si fa legge a sé! Il fatto che i pagani non fossero circoncisi nella carne – anche se nulla vieta che lo fossero nel cuore – appare del tutto insussistente per l'apostolo. Si può dire che Paolo, in questo senso, sia nemico di ogni culto puramente esteriore e che il suo spirito ardente confidi esclusivamente sulla fede verace dei cuori. Se quella cristiana, non a caso, è ritenuta una delle religioni più liberali nonché meno vincolanti, gran parte del merito lo dobbiamo all'operazione di sganciamento dell'apostolo nei confronti della precedente tradizione ebraica. In definitiva, Paolo pone l'accento sugli aspetti concernenti la fede in Cristo nell'assolvimento del piano soteriologico, ridimensionando nettamente la legge. Un po' come se lui incitasse i fedeli a ribellarsi ad una legge decaduta, dopo l'avvento messianico del Cristo. Emerge così tumultuosa tutta la portata innovativa e – per ciò stesso – rivoluzionaria del messaggio paolino. Il kerygma, la predicazione di Paolo è tutta ammantata da una Luce nuova e rigenerante: Cristo!
Nei capitoli 9, 10, 11 della Lettera ai Romani Paolo mette in guardia il popolo “eletto” ebraico nel credersi erroneamente fin troppo intoccabile dalla giustizia divina, che altresì non fa sconti a nessuno. I piani dell'Onnipotente, infatti, sono imperscrutabili per tutti, perciò occorre riporre in essi una fiducia totale. Come vi è stato dato, può anche darsi che vi sarà tolto; questo, in soldoni, è il preciso monito che egli fa al suo popolo, che rischia di smarrire la via. L'apostolo ritiene una grave ottusità: quella di non riconoscere la grazia concessa da Dio ai pagani, che possono – come ogni altro – beneficiare della salvezza in Cristo. Conta un'unica cosa: credere. Tutto il resto è vacuità!
Nella Lettera ai Galati vi si trovano gli stessi temi. Qui Paolo dice: “Mediante la legge, io sono morto alla legge” (Gal 2, 19). Più avanti ci viene delineata la figura di Cristo come colui che disgrega la legge e apporta nuovi valori. Infatti “se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano”. Lui non è venuto in mezzo a noi per ristabilire la legge, semmai per porvi fine e rimettere tutto in discussione, capovolgendo una morale proibizionista. Le catene dell'obbligo e della costrizione non hanno mai apportato alcun giovamento all'agire umano. Con il divieto non si ottiene nulla, se non l'effetto contrario: la trasgressione. Ammesso si possa parlare di legge per Cristo, questa è senz'altro la Legge dello Spirito! Mosè non ha fatto altro che preparare il terreno all'avvento di Cristo, il cui compito non è stato tanto quello di legiferare quanto indicare la retta via da seguire. Nel Vangelo di Maria – testo gnostico rinvenuto a Nag Hammadi, in Egitto, nel '46 – si riporta il seguente insegnamento del Maestro:

[...] Andate, dunque, e predicate il Vangelo del Regno. Non ho emanato alcun precetto all’infuori di quello che vi ho stabilito. Né vi ho dato alcuna legge come un legislatore, affinché non avvenga che siate da essa costretti. [...]

Il solo precetto irrinunciabile è “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Tutto il resto vien da sé! L'interpretazione estrema di questo precetto ci viene data da Sant'Agostino – paolino fino alla radice nonché altro “folgorato”, per così dire – il quale ha adottato come regola di condotta morale questa potente massima: “Ama e fa ciò che vuoi!”.
Sempre nella summenzionata lettera paolina alla comunità di Galazia, l'apostolo riporta che l'eredità non è ottenuta mediante la legge, bensì grazie alla promessa originaria che tutto trascende. Fino all'avvento di Cristo, la legge mosaica ha svolto il ruolo come “pedagogo” del popolo; poi però essa ha cessato automaticamente il suo regolare corso. Per Paolo occorre recidere il cordone ombelicale con la legge, poiché per salvarsi è sufficiente avere fede in Cristo. Grazie a ciò il cristianesimo si pone come alternativa religiosa all'ebraismo, circoscritto ad un solo popolo, poiché nella visione universalistica cristiana – per usare le parole di Paolo: “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).
Nei suoi scritti l'apostolo si rifà spesso a diversi episodi dell'Antico Testamento per rendere più convincenti e rafforzare i propri esempi. Come quando per discernere la funzione della legge e quella invece della fede, riporta l'esempio di Abramo il quale, proprio quando non ci sperava più, ottenne due figli: uno dalla schiava Agar, Ismaele, frutto della carne e della legge, che simboleggia la Gerusalemme terrena, cioè soggetta agli “elementi del mondo”; l'altro dalla moglie Sara, Isacco, frutto della promessa e della fede nella Parusia o Seconda Venuta del Cristo, simboleggiante invece la Gerusalemme celeste, dell'escatologia finale. In definitiva, si può dire che: chi vive nello Spirito, cammini anche secondo lo Spirito (Gal 5, 19), cosicché non inciampi nei desideri e nelle passioni biecamente carnali.
Paolo fu davvero un ebreo illuminato, sui generis, e passò come una folata di vento tra la sua gente, creando consensi ma anche dissensi – come spesso capita ai pensatori radicali come lui –, pur senza nulla togliere al ruolo cruciale da lui svolto per l'affermazione dell'intera cristianità. La sua figura infatti, all'interno della galassia cristiana, fu seconda solo a quella del suo Maestro-fondatore: Gesù Cristo!

14.3.06

“Teologia della liberazione” di Gustavo Gutierrez

di Marco Apolloni

Gutierrez è un marxista? Forse, se consideriamo la sua “teologia della storia” come qualcosa che cerca di trasformare la società. Ma, in effetti, questa ipotesi non regge completamente. Gutierrez ha un differente approccio, più spiccatamente idealista, rispetto alla ben più realista filosofia marxiana.
Tuttavia, preferiamo non esprimerci subito su questi due diversi aspetti e intendiamo pertanto procedere per gradi, elaborando entrambe le ipotesi…

Prima ipotesi: Gutierrez è un marxista?

Gutierrez scrive:

Questo libro è un tentativo di riflessione, basata sul vangelo e sulle esperienze di uomini e donne impegnati nel processo di liberazione della terra, oppressa e sfruttata, dell’America Latina. È una riflessione teologica, nata dall’esperienza di sforzi comuni per abolire l’ingiusta situazione corrente e per costruire una società diversa, più libera e più umana.

Per comprendere meglio quanto appena affermato da Gutierrez, occorre analizzare un aspetto nascosto della Chiesa latino-americana, ovvero la sua corruzione e la povertà intrinseca, esaminando anche lo sporco e oscuro potere dei suoi governi nazionali.
La situazione di povertà nell’America Latina è veramente drammatica. Lo schema che segue mostra con chiarezza il livello di disuguaglianza che vige nella suddetta società: élite 5%; ceto medio 10%; ceto povero 85 %. A fronte di questi dati, risulta chiaro ammettere che, prima di una totale trasformazione della società, la popolazione latino-americana necessita più che altro di una trasformazione radicale della sua chiesa, corrotta.
Al riguardo, la cinematografia internazionale offre un bellissimo film diretto dal regista brasiliano Walter Salles e intitolato “I diari della motocicletta”. La pellicola racconta la vera storia del noto rivoluzionario argentino, Ernesto “Che” Guevara, prima che diventasse l’uomo-simbolo della rivoluzione cubana condotta da Fidel Castro. Nello specifico, la suddetta opera cinematografica è estremamente interessante perché narra il viaggio mistico del “Che” attraverso l’America Latina, in cui egli vide il grado di eccezionale povertà in cui versava tale popolazione. Ma più di tutto, intravide la fiamma lucente della rivoluzione ardere dentro le pupille scintillanti di questa gente. Non a caso, l’esclamazione finale che Ernesto rivolge ad Alberto Granado, suo fedele amico nonché compagno di quel memorabile viaggio avventuroso, fu: «C’è troppa ingiustizia a questo mondo».
A tal proposito, si può riprendere la seguente osservazione di Gutierrez:

In un continente come l’America Latina non si ha a che fare con dei non-credenti, bensì con delle non-persone. […] Perciò la questione non sarà come parlare di Dio in un mondo adulto, bensì come annunciarlo, in quanto Padre, in un mondo non-umano.

Un’altra tesi indiretta, che ci porta a definire Gutierrez un marxista, è legata al fatto che nel pensiero moderno non possiamo parlare di una dottrina specifica senza tenere conto del fenomeno culturale marxista.
Già altri pensatori, infatti, su tutti lo spiritualista Henri Bergson (teorico della “evoluzione creatrice”), possono venire collocati in quest’orbita marxista. Non a caso il grande pensatore italiano Antonio Gramsci concepì l’evoluzione creatrice bergsoniana come qualcosa di inscindibile dall’anello storico mancante del marxismo.
Esiste anche un illuminante poema, nel quale l’anima viene unita alla materia. Stiamo parlando di “Foglie d’Erba”, scritto dal famoso autore americano Walt Whitman, influenzato dalla lettura delle Sacre Scritture:

Farò i poemi della materia, poiché credo che siano i più spirituali poemi, e farò i poemi del mio corpo e della mortalità, poiché credo che così otterrò i poemi dell’immortalità e dell’anima.

Di conseguenza, se per Whitman è possibile unire questi due estremi opposti, perchè considerarlo inammissibile nel caso di Gutierrez? Il teologo peruviano, infatti, traspone il messaggio evangelico nella quotidiana situazione di oppressione dei popoli latino-americani. Quindi le sue argomentazioni riescono nel difficile intento – troppo spesso mancato dalla Chiesa ufficiale romana – di portare esempi concreti per combattere la povertà dilagante nello sfruttato continente sudamericano.

Come già espresso, la nostra intenzione è quella di indagare le invisibili connessioni fra la Moderna Teologia e il Marxismo, perché ciascuno è basilare per la sussistenza dell’altro. Infatti, mentre la prima intende studiare e possibilmente capire lo spirito assoluto, la seconda invece cerca di approfondire la materia assoluta. Questa è la loro principale ed essenziale distinzione.
Per usare le stesse parole di Gutierrez:

La teologia contemporanea in effetti si trova nel confronto diretto e fruttuoso con il marxismo e ciò è in larga misura dovuto all’influenza marxiana, secondo la quale il pensiero teologico, che cerca le proprie fonti, ha cominciato a riflettere sul significato della trasformazione di questo mondo e dell’azione umana nella storia.

Se leggiamo con attenzione il pensiero sopra citato, possiamo riconoscere che Gutierrez per molti aspetti viaggia sulla stessa lunghezza d’onda della weltanschuung marxista.
In un mondo moderno dove molti valori sono stati dimenticati, dunque, la metafora più appropriata corrisponde all’immagine evocata dal poeta Thomas Sterns Eliot nel suo capolavoro “La terra desolata”, che descrive un mondo privato dell’essenziale senso del sacro e in cui ogni cosa sembra ammessa.
In quest’opera vengono riscoperti molti preziosi valori religiosi che, anche per un ateo pensatore umanista, possono rappresentare un elemento indiscutibilmente prezioso. Parliamo anche di non-credenti perché pensiamo che chiunque creda, se non in Dio, almeno in una vita religiosa. Del resto, che cos’è la vita se non un misterioso dono, datoci dall’invisibile potere che governa le nostre esistenze, quale il Fato per gli antichi Greci o Dio per la teologia cristiana? A differenza delle filosofie neo-positiviste, noi crediamo nel progresso scientifico, indispensabile per uno corretto sviluppo del genere umano; ma non crediamo altresì in una scienza senza etica, necessaria per vivere in pienezza e in tranquillità le nostre responsabilità, in quanto uomini. Per questo motivo è importante credere in un’etica, cristiana o marxista che sia, per avere comunque qualche fondamento spirituale che guidi le nostre esistenze. Per quel che può valere, noi crediamo che un certo materialismo sia niente meno che uno spiritualismo sotterraneo. Ne è un esempio il sopra citato Walt Whitman.

Per capire meglio, ora, i collegamenti esistenti fra la filosofia di Marx e la teologia di Gutierrez, occorre però indagare anche il concetto marxiano di “escatologia”, che prevede una visione finalistica della storia, derivante dagli sviluppi della lotta di classe. È possibile paragonare infatti la redenzione cristiana del genere umano, nella storia, al sopra citato concetto escatologico.
Secondo la concezione messianica benjaminiana, vi è un Messia che infrange il continuum della storia, oltrepassando così le barriere dell’eterno ritorno dell’uguale nietzschiano ma prima di tutto cristiano. Basti pensare all’anomala filosofia di Basilide d’Alessandria, pensatore gnostico sconosciuto ai più. Il Messia, secondo la visione di Benjamin, è la figura catalizzatrice della lotta di classe; infatti, è proprio colui il quale permetterà l’insperata redenzione degli oppressi sugli oppressori. Le rivoluzioni per questo sono il “balzo di tigre” nonché il “freno d’emergenza” azionato per arrestare il cammino verso lo sfacelo della locomotiva umana. L’attimo in cui viene infranto il continuum della storia corrisponde al momento di avveramento della prassi marxiana, che da mera teoria si tramuta in pura azione.
Crediamo, quindi, che sia necessario costruire daccapo le fondamenta dell’intero apparato sociale, a fronte di un fattore basilare: se sei povero, assetato e affamato, puoi rubare e uccidere soltanto per un pezzo di pane o di carne. Infatti la povertà, in un certo senso, implica necessariamente la criminalità, e viceversa.
Sempre in merito al concetto di prassi, per dirlo con Gramsci, non conta tanto la sua definizione quanto il suo processo. Per capirci meglio, occorre comprendere il complesso e reversibile meccanismo della storia umana. Infatti, non dimentichiamoci che Marx è stato il degno continuatore del pensiero di Hegel ed ha ereditato da lui alcune importanti idee, tra cui il ruolo della storia sull’agire umano.
Lo storicismo hegeliano, però, con lui è diventato materialismo storico: in questo Marx fu ispirato dall’altro suo maestro, Feuerbach, autore controverso de “L’essenza del Cristianesimo”, un libro che mise a nudo un certo cristianesimo snaturato.
Nell’articolo “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”, Marx sostiene:

L’uomo crea la religione, non la religione l’uomo.

Qui e in altri scritti lui si distacca dalle tenui argomentazioni contro la religione cristiana adoperate da Feuerbach, accusato di non aver risolto la questione religiosa e – addirittura – di aver fatto sfociare la sua filosofia nella religione stessa. Il materialismo di Feuerbach viene amplificato all’ennesima potenza da Marx, la cui filosofia si propone di cambiare la società, con la discesa in campo dei filosofi nelle questioni concrete riguardanti il genere umano.
A conferma di quanto appena detto, nell’Undicesima Tesi su Feuerbach, Marx recita: «I filosofi hanno soltanto provato a capire il mondo; ora, però, occorre cambiarlo». Attraverso un messaggio “subliminale”, l’autore vuole comunicarci che è giunto il tempo dei cambiamenti: un tempo in cui tutto può diventare possibile; un tempo in cui i filosofi devono prendere parte al gioco e non solo osservarlo impassibili, magari cercando anche di lottare per raggiungere la vittoria.
Ritornando alla visione messianica, esiste l’ulteriore rischio di incorrere in terribili episodi sanguinari, quale fu il nazismo hitleriano che causò l’immane sciagura dell’Olocausto, in cui morirono milioni di persone: non solo ebrei, ma anche altre minoranze, come zingari, oppositori politici, handicappati e omosessuali.

Fra la concezione marxista della storia e quella esposta da Gutierrez esistono altri evidenti parallelismi, come in questo caso:

Riflettere (teologicamente) sulle basi della prassi storica della liberazione […] significa riflettere guardando all’azione che trasforma il presente. Ma non significa fare questo da una poltrona; piuttosto significa ricercare le radici in cui pulsa il battito della storia e illuminare la storia con le parole del Signore della Storia, che irreversibilmente è impegnato per condurre l’umanità verso il proprio adempimento.

E di nuovo Gutierrez:

Il Peccato compare, quindi, come l’alienazione fondamentale, la radice della situazione dell’ingiustizia e dello sfruttamento.

Il “peccato” è un impedimento per ottenere la vita eterna. Ma che cos’è esattamente la vita presente, se non un tipo di qualificazione ulteriore per la vita futura?
La Salvezza comincia proprio con la Creazione – sinonimo curioso con cui Gutierrez chiama la prassi marxiana –, ovvero la ri-costruzione di un mondo nuovo e possibilmente migliore. Ciò giustifica il collegamento intrinseco che esiste per Gutierrez fra il concetto di Salvezza e quello di Creazione, o meglio di Ri-Creazione; ma per ri-creare qualcosa occorre un’azione immediata, che attui il concetto cruciale di prassi.
A tal proposito, Gutierrez sostiene:

La salvezza non è qualcosa di sopramondano, rispetto a cui la vita attuale è soltanto una prova. La salvezza – la comunione degli esseri umani con Dio e con se stessi – è qualcosa che abbraccia tutta la realtà umana, la trasforma e la conduce alla relativa pienezza in Cristo.

La cosiddetta “teologia dell’evento” – o degli “atti della liberazione” – di Gutierrez è basata su questi due fondamentali presupposti teologici: il primo consiste nella singola vocazione alla Salvezza, secondo cui tutta la vita umana ha dei valori religiosi; il secondo consiste nella Salvezza stessa, che incorre direttamente nella Storia.
La priorità della prassi è un’idea cruciale nella filosofia di Marx così come nella teologia di Gutierrez. In questo senso l’irruzione dei poveri nella storia, predetta in tempi non sospetti dal filosofo tedesco, è stata una sorta di teologia dei “segni dei tempi” – così definita da Giovani XXIII e dal Consiglio Vaticano II –, significante la richiesta indispensabile della gente per soddisfare i propri bisogni basilari. La prassi della liberazione per Gutierrez significa: scuole, acqua pulita, sindacati, riforme agrarie, eccetera… Poiché, infatti, la trasformazione radicale della società implica che dobbiamo concretizzare le nostre vite a immagine e somiglianza dei nostri sogni.
Infatti, come disse il poeta beat Delmore Schwartz: «Nei sogni cominciano le responsabilità». Se combattiamo uniti per i nostri sogni, forse abbiamo qualche possibilità di creare e, allo stesso tempo, di salvare il nostro oppresso mondo, troppo spesso sottovalutato e trascurato.
Esiste anche un fantastico libro del filosofo tedesco Hans Jonas, intitolato “Il principio della responsabilità”, che tratta questo delicato argomento ed è un ottimo spunto per l’acquisizione della coscienza individuale, fondamentale per la vita quotidiana del singolo.
In merito alla liberazione, poi, Gutierrez afferma:

[…] La liberazione umana e lo sviluppo del regno sono entrambi orientati verso la completa comunione degli esseri umani, con Dio e con se stessi. Essi hanno lo stesso obiettivo, ma non seguono strade parallele e neppure convergenti. Lo sviluppo del regno è un processo che si presenta storicamente nella liberazione, nella misura in cui liberazione significa un adempimento umano più grande. Inoltre, possiamo dire che l’evento storico e politico della liberazione segna lo sviluppo del regno, non di tutta la salvezza.

Non sappiamo se nel suo lavoro Gutierrez sia colpevole o meno di far confluire il Regno di Dio in quello dell’azione umana. Ma la vera questione è riuscire a capire se la lotta per questo mondo prepari o no il terreno per il superiore messianico avvento del Regno dei Cieli. Teologicamente è giusto combattere: prima per guadagnarsi un posto nel mondo, poi per conquistare la propria salvezza celeste. In questo senso, se la teologia e la filosofia cominciassero a combattere unite per rendere migliore questo mondo, ciò sarebbe un buon segno per l’intero genere umano. O se non altro, esse potrebbero collaborare alla costruzione della “società perfetta” marxiana: più giusta, equanime e dignitosa per tutte le persone.
Perciò pensiamo che non sia così importante se alcuni pensatori marxisti, diversamente dalla teologia, non credono in un altro mondo metafisico. Purché però, nel frattempo, essi combattano tenacemente per questo mondo fisico, contro le differenze e contro le ingiustizie sociali. Ma la cosa più importante è che questi pensatori siano convinti delle infinite possibilità di miglioramento della propria perfettibile società.
Redenzione o lotta di classe: dunque, qual è la differenza? Noi non riusciamo a intravedere alcuna discrepanza effettiva, poiché infatti i loro scopi sono pressoché identici.

Seconda ipotesi: Gutierrez non è un marxista?

È impensabile non tener conto del fatto che Marx è essenzialmente un pensatore ateo, realista. Di conseguenza, nella sua visione, la natura divina è assolutamente assente, poiché per lui la dottrina religiosa si fonda tutta nella natura umana: per questo motivo, quando parliamo di dottrina marxista potremmo benissimo definirla una sorta di nuovo umanesimo.
In una famosa affermazione, Karl Barth dichiara: «L’uomo è la misura di tutte le cose, dacché Dio si è fatto uomo». Secondo la filosofia marxiana ciò è del tutto insussistente, perché la resurrezione di Gesù Cristo non è un processo che può essere storicamente dimostrato.
Credere o non credere a Cristo come un’entità ultraterrena è solamente “un atto di fede”. Infatti chi era Gesù se non un profeta, un uomo, con grandi ideali e un combattente per la nobile causa dell’umanità, morto per questo sulla croce?
A differenza del realismo marxiano, Gutierrez invece difende la sua posizione ecclesiastica e crede fermamente in Cristo in quanto divinità.

Oltre a ciò, esiste un secondo motivo per definire Gutierrez un pensatore non-marxista.
Ne “L’ideologia tedesca”, Marx scrive:

Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.

Non crediamo che Gutierrez possa acconsentire completamente a tale presupposto: ovvero, che il cervello sia il vero luogo in cui risiede l’anima e che entrambi, allora, corrispondano allo stesso materiale organico umano. Per il teologo, infatti, la vita partecipa al rafforzamento della coscienza.
Quanto affermiamo è abbastanza intuitivo, leggendo il seguente passaggio tratto da “Teologia della liberazione”:

La liberazione dell’Egitto, collegata e coincidente con la creazione, aggiunge un elemento di importanza capitale: il bisogno ed il posto di partecipazione attiva umana nella costruzione della società assume il suo destino nella storia, e così il genere umano forgia se stesso.

In seguito, il teologo peruviano si sofferma sul fatto che l’uomo non è solo ma è compartecipe della natura divina nella sua propria creazione. Diversamente per Marx, l’uomo è il solo e unico artefice di se stesso.
Oltre a ciò, però, c’è un altro motivo che ci impedisce di definire Gutierrez un “marxista ortodosso”. L’idealismo di un teologo, qual è lui, è lontano anni luce dal realismo pragmatico della filosofia di Marx, il quale si è più volte espresso con toni sprezzanti sull’idealismo.
Perciò, a ben guardare, se consideriamo questa loro indiscutibile diversità di fondo, non potremmo definire Gutierrez un marxista. Tuttavia la forte portata innovatrice della sua “teologia della liberazione” – tralasciando alcuni dettagli meramente dottrinari – è indubbiamente influenzata dal pensiero di Marx e ripropone infatti, seppur in chiave teologica, delle importanti acquisizioni filosofiche marxiane. Perciò, ammettendo il paragone tra un’idealista-teologo e un realista-filosofo, allora sì potremmo dire che Gutierrez sia il massimo paladino di una certa, per così dire, “teologia marxista”…


(Questo scritto è stato originariamente compilato in lingua inglese, dunque, qui si è voluto opportunamente evitare d’infarcire il testo, con inesatte indicazioni bibliografiche e altrettanto inesatti riferimenti a piè pagina).