1.12.06

Commento alla "Lettera agli Ebrei"

di Marco Apolloni
La Lettera agli ebrei – ascrivibile alla tradizione paolina – è uno dei capolavori della letteratura neotestamentaria. Qui viene fatto un magnifico sunto del pensiero cristiano – in generale – e del pensiero paolino – in particolare. I tre punti cruciali che si possono facilmente individuare sono: 1) si ottiene la salvezza per mezzo della fede – e con il concorso della grazia, non già mediante le “opere morte”; 2) Cristo è il fautore di una Nuova Alleanza ben più salda della precedente, perché ancorata su promesse migliori – quali la vita e la beatitudine eterna; 3) i cristiani si considerano stranieri a questo mondo – per questo esistono delle similitudini tra il paolinismo e lo gnosticismo cristiano, vuoi per il disprezzo del corpo e vuoi anche per la svalutazione di questo mondo.
Cristo è innanzitutto (c 3): apostolo e sommo sacerdote, dunque nunzio e custode della fede professata fin dagli antichi padri e profeti d'Israele. Con la sola eccezione però che, a differenza di Mosè stimato a rango di fedele servitore, lui è invece il figlio della casata di Dio. Nel dir ciò, l'autore della lettera ricorre al seguente esempio: il costruttore della casa è superiore al padrone della stessa, in quanto è stato colui che l'ha progettata. Superiore a tutti è Dio (il quale è naturalmente: il Sommo Architetto!). Inoltre, qui viene detto come la casa è costituita da tutti coloro che perseverano nella fede. Di questi ne è stato fulgido esempio Abramo (c 11), il quale credendo ciecamente alla promessa divina si tuffò nell'ignoto, raccogliendone poi il frutto con Abramo, concepito insieme alla moglie Sara e appunto detto: “figlio della promessa”.
Si diceva della salvezza che viene attuata dalla fede – quindi si può dire come questa scenda “dall'alto”, per intercessione della grazia. L'autore della lettera si esprime in questi termini: “[...] È dunque riservato ancora un riposo sabatico per il popolo di Dio. Chi è entrato infatti nel suo riposo, riposa anch'egli dalle sue opere, come Dio dalle proprie. [...]” (Eb 4, 9-10). Il riposo sabatico che qui viene sotteso altro non è che il riposo di Dio il settimo giorno della sua creazione mondana – episodio questo riportato nella Genesi. Allo stesso modo coloro i quali avranno fede verrano esonerati dalle opere – queste ultime infatti da sole non bastano, la salvezza appunto non può venire procurata “dal basso” senza il requisito indispensabile: la fede stessa. Al Dio onniveggente nulla può sfuggire, egli è Occhio Vivente che tutto scruta e a cui, perciò, è inutile rendere conto, poiché sa scandagliare a fondo i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4, 12- 13).
Agli inizi del c 5 viene introdotta la netta distinzione tra i sacerdoti precedenti e Cristo – sommo sacerdote. Essi erano stati plasmati nell'ignoranza e nell'errore, in quanto rivestiti di debolezza (Eb 5, 2). Qui l'autore usa lo stesso linguaggio gnostico-cristiano, precisamente valentiniano. Infatti nella distinzione valentiniana vi erano tre classi umane: ilici (o somatici, da soma = corpo) i quali costituivano appunto il gradino inferiore della discendenza umana; psichici (classe intermedia, da psiche = anima); pneumatici (da pneuma = spirito). Questa distinzione viene poi ripresa e ampliata nel c 6, dove si legge verso la fine che Gesù viene dalla stirpe di Melchìsedek e quindi sarà anch'egli sommo sacerdote per sempre. Melchìsedek sarà un nome che ricorrerà spesso da qui in avanti, come parallelo per testimoniare il grado di sacerdozio superiore – perché eterno – di Gesù, che sancirà una Nuova Alleanza, infrangendo pertanto la precedente, purtroppo fallace. Inoltre l'autore precisa come persino Abramo pagò la decima a Melchìsedek – designato come “re di giustizia” nonché “re di Salem (che vuol dire: di pace)”. Infatti si era soliti pagare la decima ai ministri del culto per il loro ufficio cultuale. Il gesto di Abramo, dunque, sta a significare il riconoscimento della superiorità di Melchìsedek, il quale viene detto: “[...] Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno. [...]” (Eb 7,3). A tal proposito, l'autore intende ancorare alle antiche scritture, una volta di più, la venuta messianica del Figlio di Dio, come segno della nuova promessa escatologica, ossia: Gesù è venuto sì a lavare i peccati degli uomini, a patto che essi però abbiano fede in lui per essere salvati. Perciò Gesù fa legge a sé – alla maniera di Melchìsedek –, essendo lui il viatico alla nuova legge. Essa sancisce la Nuova Alleanza, che ci delinea la figura di un Dio non più vendicativo – come ci viene raffigurato nelle scritture veterotestamentarie –, bensì misericordioso: disposto a perdonare e a lavare la macchia indelebile del “peccato originale” che, fino al momento dell'estremo sacrificio compiuto da Gesù, pesò come un macigno nell'economia della salvezza umana. Per usare un linguaggio girardiano: Gesù, facendosi crocifiggere e morendo così per redimere gli uomini dai loro peccati, placa una volta per tutte l'immonda spirale della violenza dovuta al sacrificio rituale. Il suo sacrificio infatti, unico e definitivo, interrompe la ritualità dei sacrifici dell'Antica Alleanza, dove i sacerdoti – loro stessi imperfetti e per di più peccatori – cercavano invano di lavare i propri e altrui peccati sacrificando tori e capretti, poiché: “[...] Secondo la legge, infatti, quasi tutte le cose vengono purificate con il sangue e senza spargimento di sangue non esiste perdono. [...]” (Eb 9, 22). In virtù di ciò, la misericordia divina ha maturato il sacrificio catartico, cioè purificatorio, di Gesù. Questi segnò una decisiva linea di demarcazione, ovvero: prima di lui solo disperazione; dopo di lui, invece, solo la speranza di una vita ultraterrena – di gran lunga migliore di quella terrena.
Nel c 11 l'autore usa un'ulteriore immagine gnostica quando afferma: “[...] Per fede noi sappiamo che i mondi furono formati dalla parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine quello che non si vede. [...]” (Eb 11, 3). Quest'allusione infatti ritiene implicito che vi siano “altri mondi”. Con ciò afferma l'inferiorità di questa creazione mondana che è regno di Satana – il famigerato “angelo caduto” – oppure, secondo le oscure pagine del Vangelo di Giuda (di recente ritrovamento e ascrivibile alla tradizione gnostico-sethiana), frutto della creazione di un dio sanguinario-vendicativo e di un dio stolto, rispettivamente: Yaldaboath (riferimento, questo, non casuale al Dio ebraico: Yaweh) e Saklas. Sempre nel c 11 viene enunciato come i cristiani aspirino ad una patria celeste e perciò essi sono “stranieri e pellegrini sopra la terra” (Eb 11, 13). Seguendo questa linea di pensiero si arriva fino alla formulazione teorica della De civitate dei: opera questa, di un “paolinista radicale”, del calibro di Sant'Agostino, artefice del celebre motto “ama e fa ciò che vuoi”, che ci dà un'interpretazione a dir poco estremizzata del sacro comandamento “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Poi ancora in un altro prezioso passaggio del c 11 si afferma: “[...] Per fede Mosè, divenuto adulto, rifiutò di esser chiamato figlio della figlia del faraone, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio piuttosto che godere per breve tempo del peccato. Questo perché stimava l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori d'Egitto; guardava infatti alla ricompensa. [...]” (Eb 11, 24-26). Questa enunciazione presupporrebbe che l'autore fosse convinto della preesistenza divina di Cristo fin dalla fondazione del mondo – espressione questa che, peraltro, ricorre spesso in questa Lettera agli ebrei – e quindi anche fin dalla Luce della Genesi. In chiusura del c 11 vengono elencate tutte le tribolazioni e i maltrattamenti a cui dovettero soggiacere i paladini della fede dei quali “il mondo non era degno!” (Eb 11, 38). Nei vertiginosi cc finali 11-12 della Lettera l'autore sembra dare il meglio di sé e la retorica qui promanata è molto potente. L'aforisma che meglio racchiude la quintessenza di queste bellissime pagine – così ricche di pathos – è forse il seguente: “[...] Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! [...]” (Eb 13, 8). E così sia!

Nessun commento: