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29.3.08

Le origini dell’androgino

di Marco Apolloni

Nel Simposio, il discorso di Aristofane è forse – per molti versi – il più celebre di tutto il dialogo platonico. È qui, infatti, che viene enunciato il mito dell'androgino. Originariamente il genere umano era distinto in tre classi: uomini, donne e, appunto, androgini (ovvero creature per metà di un sesso e per metà dell'altro). Ciascun genere aveva una forma sferica e nutriva «propositi arroganti» verso gli dèi. Perciò questi ultimi, sentendosi minacciati, presero seri provvedimenti. Zeus decise di tagliarli in due estremità così da diminuirne la forza e l'arroganza. Furono posti in posizione eretta. Ad Apollo venne affidato il compito di rovesciare la faccia delle singole metà sezionate dalla parte recisa, di modo che ciascuna – rimirando il proprio ombelico, punto dove una volta era congiunta l'altra estremità – si sarebbe comportata con più moderazione, memore «dell'antico evento». Lo stratagemma, però, fu un vero disastro.
Ciascuna metà cercava la sua metà mancante e quando esse si trovavano tentavano disperate di stringersi in un abbraccio amoroso, pur non riuscendovi affatto – visto che i loro organi genitali erano stati posti, crudelmente, ai lati dei loro corpi amputati. Così, abbandonandosi sconsolate all'inazione, le metà separate morivano di fame, straziate dall'irreparabile perdita subita. Finché Zeus «mosso da pietà» escogitò un sistema più funzionale ai suoi scopi; spostò al centro gli organi genitali e permise in tal modo una congiunzione, seppur provvisoria, delle due metà disgiunte.
Questi, in preda alla nostalgia dell'Uno, si sforzarono «[..] di fare, di due, uno, e di guarire la natura umana», poiché ciascuna metà riconosceva nell'altra il proprio «completamento». Da ciò scaturì l'attuale suddivisione delle singole metà, in base all'unità originaria a cui ciascuna apparteneva.
I cosiddetti adulteri e adultere apparterrebbero all'antico androgino, perciò: gli uni sono spinti verso le donne e le altre sono spinte viceversa verso gli uomini. Di conseguenza: la metà della donna originaria cerca la propria metà gemella in un'altra donna ed, invece, la metà dell'uomo originario cerca la propria metà gemella in quella di un uomo.
La funzione paidetica del mito dell'androgino – come del resto di ogni altro mito costellante l'opera omnia platonica – cela un profondo insegnamento: il desiderio di ricostituire l'Uno originario, ovvero la Misura autentica di tutte le cose.
Noi umani bramiamo di riconquistare la mitica interezza perduta, sì da ricongiungerci con la nostra metà originaria, di cui proviamo sin dal giorno in cui siamo venuti al mondo: un'incomparabile nostalgia.
Il deus ex machina o intervento divino ci ha permesso quindi di saziare pienamente la nostra sete – altrimenti insaziabile – d'immortalità mediante l'atto della procreazione, in cui il due ridiviene nuovamente uno; ottenendo il cosiddetto due in uno, che altri non è se non il frutto della progenie.
Come poi approfondirà nel suo discorso maieutico Socrate/Diotima: assicurandoci degna progenie è come se noi evitassimo l'invecchiamento e continuassimo a perdurare del tutto rinnovati in essa, sostituendo al vecchio che è in noi il giovane che è fuori di noi...

1.1.07

Il sacrificio fondativo

di Marco Apolloni

L'elemento che hanno in comune le società umane è il sacrificio fondativo[1]. Si tratta di un omicidio collettivo di una vittima esemplare, un cosiddetto capro espiatorio, atto a spezzare il cerchio della ritualità e a placare così il circolo vizioso innescatosi con la violenza primigenia. Proprio tale meccanismo sacrificale rende possibile il salto qualitativo dal mito alla religione, ovvero dal rito al culto. All'origine infatti – in ciascuna società umana – vi è il mito, ossia quella fitta e intricata rete di storie che non sono altro che spiegazioni fantastiche di accadimenti reali. Ai primordi dell'umanità – quando cioè non si disponeva ancora degli attuali strumenti conoscitivi – le spiegazioni mitiche venivano credute, in mancanza di ragioni migliori a cui credere. Da sempre la curiosità insita nella natura umana ha fatto sì che l'uomo avesse bisogno di spiegazioni o suoi surrogati. Con l'avvento della filosofia, quindi della razionalità, il mito è passato automaticamente in secondo piano. La filosofia – che al pari della religione è da intendersi come un discorso sul logos[2] – ha privato di valore il mito. In sostanza, si potrebbe raffigurare lo stato pre-filosofico e pre-religioso come momento di ottenebramento per l'umanità, che ha cominciato a vedere solo con l'avvento messianico della filosofia e vuoi anche della religione. Il discorso sia filosofico che religioso si poggia infatti su fondamenti razionali, a differenza del discorso mitico che è altresì totalmente irrazionale. Ciononostante un periodo culturale pieno di fermenti, quale il Romanticismo, ha rivalutato l'esigenza di teorizzare una «nuova mitologia»[3]. A proposito del mito, occorre distinguere due diversi approcci: uno appunto romantico, che dà al mito un'importanza basilare e lo riconduce all'originario (origine che è la meta); e un altro invece illuministico, che rintraccia nel mito una spiegazione piuttosto rozza ai fenomeni naturali e ascrivibile a un'età umana di minorità, ovvero quando ancora il Medioevo della ragione oscurava le menti superstiziose di popolazioni perlopiù barbare. Malgrado questi due differenti approcci, una cosa almeno su cui sia romantici che illuministi concordavano era che la fase mitica fosse stata la prima per tutte le società umane.
Rimanendo entro l'ambito ristretto della civiltà occidentale, due sacrifici cruciali ne hanno gettato le fondamenta, e cioè: in ambito cristiano – dunque religioso – il sacrificio di Cristo; in ambito filosofico, invece, il sacrificio di Socrate. Tali sacrifici hanno infranto le catene che tenevano avvinta questa civiltà al mito e ai suoi meccanismi rituali, in cui la violenza veniva addotta a motivo di ricongiungimento con il divino offeso. Nella tradizione semitica, appunto, il sacrificio svolgeva questa funzione riconciliatoria. Basti sfogliare le pagine dell'Antico Testamento per appurare la ricorrenza di episodi sacrificali. In un simile scenario di violenza si erse mastodontico un falegname palestinese, Cristo appunto, che versando il suo sangue per una Nuova Alleanza pose fine al meccanismo rituale-sacrificale. Ma già prima di lui, ad Atene – culla della civiltà occidentale –, venne immolato un uomo di nome Socrate, che dedicò la sua vita ad interrogare i suoi concittadini alla ricerca di chi poteva dirsi “sapiente”. Così facendo, però, egli non fece altro che smascherare l'ignoranza altrui, non trovandone nemmeno uno degno di sì lusinghiero appellativo. Se uno poteva dirsi “sapiente”, secondo la Pizia – sacerdotessa di Apollo, che parlava per bocca del dio –, questi era Socrate stesso. Perciò il sapere di non sapere socratico divenne l'unica vera forma di sapienza. Ad ogni modo, l'umiltà sfacciata di Socrate non poteva risultare cosa gradita a quei suoi concittadini più meschini. Proprio la malignità di certi suoi concittadini segnò la sua irrefutabile condanna, che lui poté decidere di scontare o con l'esilio o con la pena capitale. Socrate, per non venire meno a tutti quei valori in cui aveva sempre creduto, scelse la morte piuttosto che la fuga dalla sua polis. Da questo nobile sacrificio Platone trasse lo spunto per teorizzare la sua Repubblica ideale, in cui nessun uomo giusto sarebbe più dovuto morire per colpa di leggi ingiuste. In estrema sintesi, esiste un nesso inscindibile che lega l'evento sacrificale alla fondazione della civiltà occidentale e come essa, d'altronde, anche di ogni altra civiltà umana.
***

[1] Sull'importanza del tema sacrificale si rimanda alla lettura dell'opera omnia di R. Girard, autore che ha più indagato le implicazioni del sacrificio come momento fondativo delle civiltà umane.
[2] Parola questa dalle mille accezioni, tra cui: parola, discorso, ragione; tutti attributi questi della teologia cristiana, legati cioè alla divinità.
[3] Hölderlin, F., Scritti di estetica, Milano, 1996, p. 162.