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7.12.07

"L'ultima tentazione di Cristo" (1988)

di Marco Apolloni

L'ultima tentazione di Cristo è l'inspirata trasposizione cinematografica diretta da Martin Scorsese dell'omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis. D'altronde un film cristologico, per uno con il background italo-cattolico quale Scorsese, non ci sorprende più di tanto. A differenza dell'ultimo film-splatter sulla vita del Messia – ci riferiamo a The Passion di Mel Gibson – ne L'ultima tentazione ci si concentra di più sul Cristo spirituale, rispetto a quello carnale. Scontate e immeritate le critiche piovutegli addosso dal Vaticano, accompagnato dalla suggestiva colonna sonora targata Peter Gabriel – che ben s'intona con le scene a cui fa da sottofondo. Forse siamo davanti al più bel film sulla storia di Gesù. Si risentono gli echi della cristologia rock anni '70 e il modello implicito a cui si fa riferimento è senza dubbio Jesus Christ Superstar. L'azzeccato, e se vogliamo anche atipico, interprete di Gesù è Willem Dafoe, attore molto espressivo e dalla particolare fisionomia, tant'è che ogni piega del suo volto riesce a restituire adeguatamente tutta la complessità umana di quest'uomo-dio, il cui avvento è stato talmente cruciale per la storia dell'Occidente da costituire un autentico spartiacque, per mezzo del quale si distinguono gli evi prima e quelli dopo la sua venuta...
Un dissidio interiore lacera questo Cristo di Scorsese, la cui natura divina risulta un fardello troppo pesante da dover sopportare da solo e di cui vorrebbe essere liberato. La sua più grande paura – tanto da confessare che la paura è il suo unico dio – è quella di non risultare all'altezza della missione salvifica assegnatagli dal Padre Onnipotente. Un fedele compagno di cammino, però, lo allevia almeno in parte del suo insopportabile fardello. Questi è Giuda Iscariota. Proprio lui, il più infimo traditore della storia secondo i vangeli canonici. Nell'operare questa rivalutazione della figura di Giuda, Scorsese sembra prestar fede alla canzone dylaniana With God on his side. Effettivamente alla luce della sconvolgente e recente scoperta del Vangelo di Giuda pare che l'Iscariota, nel tradire il suo Maestro, avesse davvero Dio Padre dalla sua. A pensarci bene, in effetti, pure senza la scoperta di questo vangelo appartenente alla tradizione gnostica-sethiana, non si può certo negare come Giuda abbia svolto un ruolo stranamente decisivo nell'economia della salvezza. Senza di lui, difatti, nessun Cristo avrebbe potuto lavare i peccati dell'umanità e redimerla una volta per tutte. In un dialogo chiarificatore Cristo rivela a Giuda: «Di tutti i miei discepoli, tu sei il più forte» e poi aggiunge «senza di te non ci sarà la redenzione». Giuda sbalordito prova ad obiettare che non vuole tradire il suo Maestro e gli domanda: se al suo posto farebbe altrettanto e Gesù gli risponde di no, che non lo farebbe, precisando poi: «Per questo Dio mi ha dato il compito più facile». Dunque, rivisto sotto questa diversa ottica, Giuda più che il traditore sembrerebbe proprio il compitore delle Scritture. Disquisizioni teologiche a parte, Giuda nel film – interpretato da un coriaceo Harvey Keitel – si rivela l'unico vero amico di Cristo, colui che cerca in tutti i modi di farlo sentire meno solo nel suo cammino di ascesi spirituale. Per questo si può dire che se Gesù è stato la mente, Giuda è stato il braccio armato grazie al quale si è resa possibile la prassi, ovvero la teoria-in-azione cristiana che ha saputo operare una genuina rivoluzione d'amore.
Altro personaggio-chiave del film è senz'altro Maria Maddalena, l'amante di Gesù, divenuta prostituta solo in seguito al continuo ritrarsi di quest'ultimo. In fin dei conti l'Ultima Tentazione di Cristo crocefisso consiste appunto nel rinunciare a sacrificarsi per il genere umano, in cambio di una semplice vita da uomo, vissuta nel porto-franco di una casa accogliente e al sicuro fra le braccia di una moglie amorevole, la Maddalena appunto. La sola parte del film a discostarsi in maniera eclatante dai vangeli dell'ortodossia è proprio quando nel finale Gesù acconsente a scendere dalla croce, rinfrancato dalla rivelazione fattagli da uno strano angelo, il quale gli assicura di non essere lui il Messia tanto atteso. Quindi ecco che l'angelo lo inizia ad una nuova vita: una vita da piccolo-uomo. Questa, però, gli riserva delle spiacevoli sorprese: fra tutte la morte inaspettata di Maria Maddalena. Colui che si spaccia per suo angelo custode, altri non è che Satana, il quale lo consola dicendogli: «Esiste una sola donna al mondo, una donna con innumerevoli volti». Così Gesù passa dalla braccia della Maddalena a quelle di un'altra Maria, la quale gli dà dei figli e che ha una sorella, Marta, la quale anch'ella si concede al cognato.
Intanto il film seguita, Gesù invecchia e assiste sbalordito alla creazione del suo mito di Salvatore dell'umanità. S'indigna ascoltando i vaneggiamenti di Paolo di Tarso, che racconta come Gesù abbia sconfitto la morte e sia risorto – eliminando così la paura più atavica degli uomini. (Del resto la resurrezione è il pilastro su cui si fonda l'intera dottrina cristiana.) Perciò Gesù prende da parte Paolo, gli rivela la sua vera identità e lo prega di non mentire oltre ai suoi adepti. Paolo però, con un moto istintuale di ribellione, gli dà del bugiardo e gli confessa che ormai è troppo tardi: la sua menzogna ha messo radici nei cuori degli uomini, dando loro qualcosa in cui vale la pena credere. Infine eccolo sul suo letto di morte visitato dai discepoli, tra cui il più inseparabile di tutti – Giuda stesso – che lo disconosce come Maestro tant'è la repulsa nei suoi confronti per non essersi immolato sulla croce. Giuda gli dice: «Non c'è salvezza, senza sacrificio», poi continua dandogli del «traditore»1, del «codardo». Con una nota di disprezzo nella voce Giuda rammenta ancora al suo Maestro: «Io ti amavo così tanto, così tanto che ti ho tradito» e inoltre «ciò che è bene per un uomo, non è bene per un dio». Le parole al vetriolo dell'indomito discepolo hanno l'effetto di risvegliare in Cristo la scintilla sopita del divino ridonandogli la consapevolezza che non nel letto di vecchiaia deve morire il Messia, bensì sulla croce per il bene dell'umanità.
Qui il viaggio allucinatorio di Cristo s'interrompe e riappare lui crocefisso sul Golgota. Si scopre così che si è trattato solamente di un sogno, fuorviante e menzognero. Eccolo lì, allora, il Salvatore dell'umanità, mentre adempie al compito assegnatogli dal Padre, dall'alto della sua Onniscienza. Anche Gesù, infatti, nonostante il divino che abita in lui, si rivela per quel che è: una pedina mossa dalle sapienti dita paterne nello scacchiere del mondo. Così egli, dopo aver finalmente domato le sue paure, spira ridendo e pronunciando le sue ultime parole: «Tutto si è compiuto». Del resto il suo sacrificio non è poi per lui così drammatico come si voglia far credere, vista la sua celestiale ricompensa: sedere alla Destra del Padre nei secoli dei secoli amen!
1 Giuda che dà del «traditore» a Gesù ci sembra una scena davvero imperdibile, tant'è ironica e si scontra contro tutto quello che ci è stato insegnato sulla complessa figura del Messia.

1.1.07

Il sacrificio fondativo

di Marco Apolloni

L'elemento che hanno in comune le società umane è il sacrificio fondativo[1]. Si tratta di un omicidio collettivo di una vittima esemplare, un cosiddetto capro espiatorio, atto a spezzare il cerchio della ritualità e a placare così il circolo vizioso innescatosi con la violenza primigenia. Proprio tale meccanismo sacrificale rende possibile il salto qualitativo dal mito alla religione, ovvero dal rito al culto. All'origine infatti – in ciascuna società umana – vi è il mito, ossia quella fitta e intricata rete di storie che non sono altro che spiegazioni fantastiche di accadimenti reali. Ai primordi dell'umanità – quando cioè non si disponeva ancora degli attuali strumenti conoscitivi – le spiegazioni mitiche venivano credute, in mancanza di ragioni migliori a cui credere. Da sempre la curiosità insita nella natura umana ha fatto sì che l'uomo avesse bisogno di spiegazioni o suoi surrogati. Con l'avvento della filosofia, quindi della razionalità, il mito è passato automaticamente in secondo piano. La filosofia – che al pari della religione è da intendersi come un discorso sul logos[2] – ha privato di valore il mito. In sostanza, si potrebbe raffigurare lo stato pre-filosofico e pre-religioso come momento di ottenebramento per l'umanità, che ha cominciato a vedere solo con l'avvento messianico della filosofia e vuoi anche della religione. Il discorso sia filosofico che religioso si poggia infatti su fondamenti razionali, a differenza del discorso mitico che è altresì totalmente irrazionale. Ciononostante un periodo culturale pieno di fermenti, quale il Romanticismo, ha rivalutato l'esigenza di teorizzare una «nuova mitologia»[3]. A proposito del mito, occorre distinguere due diversi approcci: uno appunto romantico, che dà al mito un'importanza basilare e lo riconduce all'originario (origine che è la meta); e un altro invece illuministico, che rintraccia nel mito una spiegazione piuttosto rozza ai fenomeni naturali e ascrivibile a un'età umana di minorità, ovvero quando ancora il Medioevo della ragione oscurava le menti superstiziose di popolazioni perlopiù barbare. Malgrado questi due differenti approcci, una cosa almeno su cui sia romantici che illuministi concordavano era che la fase mitica fosse stata la prima per tutte le società umane.
Rimanendo entro l'ambito ristretto della civiltà occidentale, due sacrifici cruciali ne hanno gettato le fondamenta, e cioè: in ambito cristiano – dunque religioso – il sacrificio di Cristo; in ambito filosofico, invece, il sacrificio di Socrate. Tali sacrifici hanno infranto le catene che tenevano avvinta questa civiltà al mito e ai suoi meccanismi rituali, in cui la violenza veniva addotta a motivo di ricongiungimento con il divino offeso. Nella tradizione semitica, appunto, il sacrificio svolgeva questa funzione riconciliatoria. Basti sfogliare le pagine dell'Antico Testamento per appurare la ricorrenza di episodi sacrificali. In un simile scenario di violenza si erse mastodontico un falegname palestinese, Cristo appunto, che versando il suo sangue per una Nuova Alleanza pose fine al meccanismo rituale-sacrificale. Ma già prima di lui, ad Atene – culla della civiltà occidentale –, venne immolato un uomo di nome Socrate, che dedicò la sua vita ad interrogare i suoi concittadini alla ricerca di chi poteva dirsi “sapiente”. Così facendo, però, egli non fece altro che smascherare l'ignoranza altrui, non trovandone nemmeno uno degno di sì lusinghiero appellativo. Se uno poteva dirsi “sapiente”, secondo la Pizia – sacerdotessa di Apollo, che parlava per bocca del dio –, questi era Socrate stesso. Perciò il sapere di non sapere socratico divenne l'unica vera forma di sapienza. Ad ogni modo, l'umiltà sfacciata di Socrate non poteva risultare cosa gradita a quei suoi concittadini più meschini. Proprio la malignità di certi suoi concittadini segnò la sua irrefutabile condanna, che lui poté decidere di scontare o con l'esilio o con la pena capitale. Socrate, per non venire meno a tutti quei valori in cui aveva sempre creduto, scelse la morte piuttosto che la fuga dalla sua polis. Da questo nobile sacrificio Platone trasse lo spunto per teorizzare la sua Repubblica ideale, in cui nessun uomo giusto sarebbe più dovuto morire per colpa di leggi ingiuste. In estrema sintesi, esiste un nesso inscindibile che lega l'evento sacrificale alla fondazione della civiltà occidentale e come essa, d'altronde, anche di ogni altra civiltà umana.
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[1] Sull'importanza del tema sacrificale si rimanda alla lettura dell'opera omnia di R. Girard, autore che ha più indagato le implicazioni del sacrificio come momento fondativo delle civiltà umane.
[2] Parola questa dalle mille accezioni, tra cui: parola, discorso, ragione; tutti attributi questi della teologia cristiana, legati cioè alla divinità.
[3] Hölderlin, F., Scritti di estetica, Milano, 1996, p. 162.