di Marco Apolloni

L'unico indizio che può in qualche modo farci dubitare dell'autenticità della seconda lettera può essere l'eccessiva premura con cui Paolo fa sapere che è stata scritta di suo pugno. D'altronde, però, a pensarci bene l'apostolo scrive questa lettera per distogliere i credenti della comunità di Tessalonica dal depistaggio attuato da taluni, che darebbero appunto per imminente la resa dei conti finale. Motivo che giustifica l'agitazione di molti fedeli, che s'interrogano su che senso abbia allora perseverare in un incessante operosità quotidiana se la Fine dei tempi è ormai prossima. In tal caso potrebbe sembrare più che plausibile la premura con cui l'apostolo attesta la paternità della lettera, per paura di risultare alla stessa stregua di molti altri falsificatori, i quali coi loro fasulli scritti sviarono diversi credenti. Ad ogni modo, pur facendo delle fantasiose ipotesi, risulta evidente l'impronta paolina del testo, comunque ascrivibile alla tradizione dell'apostolo, se non altro per le tematiche ivi affrontate. Occorre non dimenticarsi, inoltre, del fertile humus culturale da cui Paolo proveniva, ossia dalla tradizione messianica ebraica. Paolo fu innanzitutto un gran mistico, prova ne fu la sua misteriosa folgorazione sulla via di Damasco. Sicché da persecutore dei cristiani questi divenne l'evangelizzatore prescelto. A lui, prima che a ogni altro, dobbiamo l'opera di evangelizzazione che comportò la diffusione a macchia d'olio del cristianesimo, grazie ai suoi innumerevoli viaggi fino al cuore dell'Impero – cioè Roma. Qui lui innescò la miccia che poi avrebbe fatto auto-implodere l'Impero stesso, già minato al suo interno da vizi inverecondi e dalla mollezza dei suoi costumi – per dirlo con Rousseau. Lo spiccato universalismo della religione cristiana fu proprio ciò che sconvolse maggiormente i romani, abituati com'erano alle singole religioni di ciascun popolo conquistato. Mentre la scelta dei cristiani – non facilmente allineabili tra le fila di un popolo delimitato –, che predicavano ovunque i principi della loro religione, risultò essere tanto più una minaccia concreta per l'Impero romano. Oltretutto la Storia c'insegna che se ci sono persone da temere di più quelle sono senza dubbio: coloro che non hanno niente da perdere. E tali furono i cristiani, che non considerandosi creature mondane – cioè non di questo mondo – già se ne chiamarono al di fuori. Secondo costoro questa vita terrena era solo il viatico per conquistarsi la maggior gloria di una vita ultra-terrena. Dunque si capisce bene come per costoro il vivere e il non-vivere su questa terra apparisse come una questione del tutto superflua e sicuramente non decisiva. Ecco perché molti di loro preferirono farsi sbranare dai leoni nelle arene romane, piuttosto che rinnegare apertamente il loro Dio iper-cosmico. Nel Vangelo di Filippo – scritto gnostico pervenutoci nel corpus ritrovato casualmente a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945 – vi è un magnifico brano che attesta la potenza deflagrante costituita dai cristiani, e cioè:
[...] Se dici: «Sono ebreo», nessuno si commuove; se dici: «Sono romano», nessuno trema; se dici: «Sono greco, barbaro, schiavo, libero», nessuno si agita. Se dici: «Sono cristiano», trema il mondo. Riceva io questo segno che gli arconti non possono sopportare, allorché odono il suo nome [...]
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