Che – L'argentino e Che – Guerriglia sono in realtà un unico film spezzato in due per esigenze più commerciali che altro (presumo). Si tratta di una pellicola complessa, non per tutti, che ha il piglio lento e citazionista di un documentario. Rende bene l'idea di mostrare il precipitare degli eventi rivoluzionari con in sottofondo la voce fuori campo dei Diari e degli Scritti del Che. Manca però un nucleo narrativo centrale e forte. A tratti, inoltre, difetta di lacunosità. Nel senso che dà per presupposte troppe cose e non bastano alcuni flashback messi qua e là per riempire dei significativi buchi biografici. Va bene il pout-pourri di azione condito da realistiche immagini dei combattimenti – nella prima parte a Cuba e nella seconda, invece, in Bolivia –, però il salto temporale che va dalla presa di Santa Clara all'estrema avventura nella giungla boliviana appare francamente troppo forzato. Secondo me sarebbe stato più logico e anche più apprezzato dalla platea sviluppare la storia del suo secondo matrimonio con l'agguerrita rivoluzionaria Aleida March. Il Che di Steven Soderbergh non ha tempo per smancerie e passa da un'azione all'altra quasi quanto il Che storico. Tuttavia nell'economia della trama del film un pizzico di vita bucolica non avrebbe guastato. Ne sapeva qualcosa il buon Tolstoj, liberamente citato durante la prima parte della pellicola (sotto riporto la citazione in questione), che nell'architettare il suo più universale capolavoro Guerra e pace ha saputo miscelare alla crudezza delle gesta pugnaci, la dolcezza delle scene idilliache di vita familiare. Molto più romantico in questo senso è il giovanilistico e donchisciottesco Diari della motocicletta (2004) di Walter Salles. In poche parole alle quattro ore e passa dell'epopea guevariana diretta da Soderbergh manca quel “di più” che ci si aspetta dai grandi film, pur rimanendo sempre degnamente un po' sopra la media – grazie anche alla maiuscola interpretazione di Benicio Del Toro, favorito soprattutto da una somiglianza fisica davvero impressionante. Più che l'utopia rivoluzionaria vera e propria – citata a sprazzi, in maniera disomogenea e quasi a casaccio – del guerrigliero Guevara, Soderbergh ci ha mostrato – volutamente o meno chiedetelo a lui – l'avventura umana di uomo sicuramente non comune, capace di grandi scelte e come tale degno di rispetto persino da chi non ne condivide le idee politiche. Sono uscito dalla sala con la non ben definita impressione di aver ammirato un dipinto ben fatto nell'insieme, ma privo di uno “sfondo” incisivo. É proprio questo “sfondo” mancante che non permette al film, secondo me, di spiccare il volo. Anche se, a sua evidente discolpa, va detto che di fronte ad un soggetto talmente carismatico nella realtà è quasi fisiologico che la sua trasposizione nella fiction sia nettamente svantaggiata. In quest'impresa che oserei definire “titanica” di mettere in piedi un Che in celluloide, il “duo” Soderbergh e Del Toro perlomeno non ne esce con le ossa rotte. E visto il soggetto, non è poco...
“Nel campo della guerra, la forza delle truppe è [...] il prodotto della massa per qualcosa d'altro, per non si sa quale incognita x. […] È, questa x, lo spirito delle truppe, vale a dire il maggiore o minor desiderio di battersi e di esporre se stessi al pericolo, sentito da tutti gli uomini che compongono quelle truppe, indipendentemente dal fatto che questi uomini si trovino a battersi sotto il comando di genii o di non genii, in tre o in due linee di schieramento, armati di randelli o fucili che sparino trenta colpi al minuto. Gli uomini che sentiranno maggiore il desiderio di battersi, sempre riusciranno a porsi nelle condizioni migliori, più favorevoli alla lotta. (L., Tolstoj, Guerra e pace, Milano, 2008, p. 1237)”
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