3.5.06

La macchina dei discorsi

di Marco Apolloni
La domenica è il giorno della settimana che più si presta all’ozio, ossia al dolce far nulla. Durante tutto l’arco della settimana non facciamo altro che rincorrere i nostri sogni e le nostre illusioni, per poi trovare nell’agognata pace domenicale un surreale ma meritato riposo. Tra l’altro nel mio immaginario questo giorno ha sempre trasmesso una sorta d’indefinita malinconia. Questo è infatti, oltretutto, il giorno in cui muore la settimana, pienamente vissuta. L’immagine scolorita di una vita che sta per giungere al termine, ecco cosa mi riecheggia in mente questo giorno dolente. Comunque, bando alle note tristi, una caratteristica peculiare della mia famiglia è: 1) l’abbondante pranzo domenicale della mamma con un sugo vecchia-maniera, fatto con carne macinata, salsicce, involtini di mortadella e quant’altro un essere umano possa ficcare dentro un sugo del genere; 2) la consueta passeggiata con mio padre in riva al mare, disquisendo attorno ai massimi sistemi.

Questa perlomeno è la scaletta che contraddistingue la mia domenica reale, anche se ad essere sincero la mia domenica ideale è ben altra. Infatti mi piacerebbe starmene tutto il tempo stravaccato sul mio sprofondante divano, in mezzo ad una montagna di morbidi guanciali ed abbandonarmi alle più deliziose fantasticherie di viaggi mozzafiato, magari tra le dune sabbiose del Sahara seguendo le orme del mitico Lawrence d’Arabia, oppure balenante in burrasca in mezzo agli oceani tempestosi, arruolato in qualche vascello pirata in compagnia del leggendario Sindbad “il marinaio” e co-protagonista delle sue avventure mirabolanti tra principesse dall’esotica bellezza e mostri marini dalle fauci spalancate… Il tutto naturalmente avvolto da conturbanti melodie che sanno di paesi lontani che mai ho visitato e che forse mai visiterò, dalle tinte torbide e trasognate rinverdenti oniriche visioni provenienti dal mio lontano passato, che pare star lì mite ad aspettarmi e a dirmi “guarda come hai ben vissuto fin qui, continua così ragazzo mio…”. La musica è un balsamo per le nostre anime martoriate da mille affanni, non c’è nulla al mondo come le canzoni che ti fa associare i più bei ricordi della tua vita passata. Più volte ho pensato e ripensato di scrivere la mia biografia personale, in modo da ripercorrere ogni singolo momento speciale della mia vita, accordandolo alle note suadenti di qualche bella canzone, che abbia per me dei profondi significati. Come potrei mai dimenticarmi di Pride (In the name of love) degli inossidabili U2, una canzone che, ogniqualvolta l’ascolto, mi fa venire i brividi e mi rende felice come un bambino la prima volta che sale sulle montagne russe al luna park. Oppure Un monton de estrellas dello scomparso artista sudamericano Polo Montanez, che rievoca la prima volta che conobbi colei alla quale ho consacrato interamente la mia devota anima e di quel “galeotto” ballo che di lei mi fece perdere la testa, ma che con tutta probabilità mi riconciliò con il mondo intero dopo aver attraversato un lungo momento di “crisi mistica”, contrassegnato da una sconfinata tristezza e da una prematura disillusione. Beh, questa sarebbe la mia domenica ideale, anche se un mio amico di altri tempi di nome Ernesto direbbe: “Siamo realisti, vogliamo l’impossibile!”

Quindi dopo esserci abbuffati nel ben-di-dio del buonissimo pranzetto materno, io e mio padre – entrambi con una più che vistosa pancia alla budda – ci avviammo in direzione mare a fare quattro passi all’aria aperta e a smaltire quanto appena ingozzato. Al ché, appena arrivati nel posto, parcheggiammo comodamente nel solito ampio spazio nei pressi della banchina portuale. Dopodiché ci mettemmo in marcia di buona lena, visto che tra andata e ritorno il nostro tragitto si sarebbe snodato per ben sei chilometri. Mi vergogno a dirlo ma quasi che quel “ganzo” di mio padre se la viaggiava ad una velocità di crociera molto più sostenuta della mia, dato che lui se la faceva a piedi quasi ogni giorno e perciò era decisamente più allenato di me, che oramai al massimo me la sarei potuta cavare soltanto nel picchiettare i tasti della mia tastiera, per coronare il mio sogno di scribacchino.

Un clima spettrale e nebbioso si spargeva denso tutt’intorno a noi. I marciapiedi erano semi-deserti e una brezza tonificante spirava dal mare, che a piccoli gorghi si rotolava stancamente lungo la battigia formando la caratteristica schiuma, che profumava l’aria di un sensuale e avvolgente odore di salsedine. Per finire il cielo azzurro era dello stesso colore del mare incontaminato di Numana – questo è il nome della località delle nostre “meditabonde” passeggiate. Tra padre e figlio, da che mondo è mondo, si riscontra sempre una certa incomunicabilità di fondo; per fortuna però un problema simile non ha mai riguardato noi due, dati i miei trascorsi tennistici. Difatti mio padre mi ha sempre fatto da chauffeur per i tornei del circuito giovanile italiano, dei quali io fui un onesto comprimario. Mentre oggi sono passato dalla racchetta alla penna, ovvero dai campi da tennis alla scrivania…

Il primo a rompere gli indugi fui io. Così da lì in poi ci avventurammo in un’eclettica conversazione, che toccò i più svariati temi e che vale la pena vi racconti fin nei minimi dettagli…
«Ti gira storto oggi, non hai aperto bocca da quando siamo partiti», dissi io giusto per gettare l’amo della conversazione.
«Tua madre come al solito mi ha fatto incazzare…», mi rispose lui in tono complice, cercando di farmi prender partito a suo favore, a cui risposi svicolando in pieno il suo tentativo abbozzato di cameratismo maschile…
«Scusa se te lo dico, ma non è una gran novità. A sentire lei è quasi sempre il contrario.»
«Eh le donne, sai come sono fatte…». Anche qui, cercò di trovare una certa complicità, che io rispedii direttamente al mittente…
«No che non lo so. So soltanto che meno male ci sono loro, che si prendono cura delle nostre stranezze. Saranno sì una costola nel fianco, nel vero senso biblico del termine, però almeno sono una buona spalla su cui piangere.»
«Dai tempo al tempo, figliolo. Ora parli così, fra un po’ chissà se non la penserai diversamente… Comunque stavo scherzando prima, se non ti ho parlato è per colpa di quel figlio di una buona donna del dentista. Ieri sera mi ha sventrato tutta la bocca, manco fossi una nigeriana…». Effettivamente notai una strana protuberanza nella sua faccia sinistra, mentre quella destra sembrava piuttosto normale.
«Brutta razza quella dei dentisti, per fortuna io non sono ancora finito sotto la loro mannaia!». Ci sarò andato sì e no una volta o due, per fare una generica pulizia dei denti, tutt’al più…
«Soltanto i commercialisti sono una razza più infima della loro! Se potessero spremerti come un limone, lo farebbero in un battito di ciglia senza neanche indugiare. Dai retta a me finché sei in tempo, stai alla larga da certi coccodrilli e soprattutto non ti fidare mai dei loro finti pianti. Studia e sii un uomo onesto: tuo nonno, ovvero mio padre, sarebbe stato fiero di un nipote simile. Non fare come me, che non avevo voglia di studiare. Sopra i libri cerca di rimanerci più a lungo che puoi…». Sagge parole, che mi avrà ripetuto, non so, forse qualche decina di migliaia di volte dai tempi della culla…
«Anche a me avrebbe fatto piacere conoscere un uomo tutto d’un pezzo come mio nonno. Dovrebbe essere stato un gran padre! Con me puoi pure star tranquillo pa’, lo sai quanto sono allergico ai lavori manuali. Sopra i libri ho intenzione di passarci il resto dei miei giorni s’è per questo, con buona pace per i tuoi risparmi. Mettetevi già in testa, tu e mamma, che se va tutto bene dovrete mantenermi fino trent’anni. Per ora posso solo dirti ch’io sono il miglior investimento che voi abbiate mai fatto…», glielo ribadisco fino alla nausea!
«Sono contento che sei sicuro di te e che hai delle specie di certezze, per quel che un uomo può averne di questi tempi… Non vorrei essere nei panni di voialtri giovani, con un mercato del lavoro talmente precario c’è il rischio che domani vi assumano e dopodomani vi licenzino… Sai qual è il problema di voi studenti italiani? È che non avete le “palle” dei francesi, loro sì che sono maestri della rivoluzione e sanno mobilitarsi quando serve!». Qui emerse ancora una volta, il lato “giacobino” di mio padre.
«Mi sembri peggio di quel maoista del mio professore all’università, ma te lo vuoi ficcare bene in testa che il popolo italiano è un popolo essenzialmente reazionario?! La più grande rivoluzione che abbia saputo fare è stata la marcia su Roma da parte di un manipolo di manigoldi fascisti, nonché cesaropapisti!». Difatti io penso, come Gobetti, che il fascismo sia stato non un episodio casuale della nostra giovane democrazia, una specie di “anomalia” per dirlo con Benedetto Croce, bensì l’autobiografia di una nazione fondamentalmente “piccina”, trasformista e parruccona, che si è unificata soltanto a parole e tra l’altro adesso con la devolution messa in opera dai secessionisti padani, è ritornata a prima dei gloriosi anni di Mazzini e di Garibaldi: ancora tra guelfi e ghibellini ci scanniamo a vicenda, come ai tempi del “divin poeta” Dante…
«Ci manca solo che tu mi dica che Mao non ha fatto bene a fare quel che ha fatto!? Ma si può sapere cosa ti passa per la mente? Spiegamelo… Come diceva sempre il mio babbo, che sarebbe stato tuo nonno se il fumo non ce l’avesse strappato via prima del tempo, il problema dell’Italia sappiamo tutti qual è: solo ci vergogniamo a dirlo per quegli ipocriti che siamo», disse lui in tono risoluto, di chi s’illudeva di saperla lunga…
«Forza, sentiamo quale sarebbe… Non so perché, ma il mio intuito mi dice che lo so già». “Udite e udite” pensai tra me e me…
«Il Vaticano!» disse concludendo la frase precedente e non senza un ghigno trionfante, che trapelava dai suoi baffoni staliniani.
«Bingo! Finalmente l’hai sganciata ‘sta stronzata. E che diamine! Mi meraviglio di te, che non l’hai detta subito. Se potevi dire una banalità, sappi che ci sei appena riuscito. Lo sa pure mia nonna fra poco… Il fatto è che ogni popolo ha quel che si merita. Così anche noi, evidentemente, ci meritiamo ciò che abbiamo! Con me sai di sfondare una porta già spalancata e sai quanto io sia anticlericale convinto, però io credo che questo tuo vittimismo catto-comunista non aiuti granché a cambiare le cose. Mentre fare della sana autocritica ci aiuterebbe eccome. So che non sai chi è, ma c’è stato un signore russo, che era uno scrittore niente male, il quale in una sua opera scrisse che “il Papato romano è la continuazione dell’Impero romano d’Occidente”», il riferimento a Dostoevskij sicuramente non potrà sfuggire al lettore più smaliziato.
«Non so chi sia, ma già a pelle sento che mi sta simpatico ‘sto tizio. Poi magari una volta mi dici come si chiama. Ma ritorniamo a Mao, di lui che mi racconti…». Sempre ‘sto Mao, manco ci fosse andato a letto insieme e manco fosse stato una bella signorina, lo nominava sempre in continuazione!
«Ascoltami bene, io non biasimo le scelte di Mao, dico solo che da quell’umanista che sono, quelle scelte che lui ha fatto, politicamente sacrosante, mi hanno dato fastidio. Io sono più un erede della Beat Generation, che significa Generazione Beata secondo la definizione del suo stesso profeta Jack Kerouac. E nel mio essere beat, che vuol dire appunto beato, non posso approvare ammazzatine di monaci tibetani pacifisti, che come unico passatempo nella vita hanno quello di suonare il Gong e recitare l’Om trattenendo il fiato. Mi dovresti spiegare che bisogno c’era di farli secchi, e non mi venire a dire che la religione è una seria minaccia per il socialismo reale perché non me la daresti a bere. Devi sapere, infatti, che la religione serve all’instaurazione del Paradiso in Terra tanto quanto, se non di più pure, l’applicazione del socialismo reale stesso…». Dicendo ciò, mi prevenni da una scontata contro-argomentazione…
«Voi studenti scansafatiche, saprei io di cos’avreste bisogno… Ha fatto bene Mao a mettervi la vanga in una mano e a spedirvi nei campi di riso a lavorare. Con dei bambini che morivano di fame, la sua fu la miglior soluzione possibile per il popolo affamato. Volete studiare? Bene, però almeno sperimentate per un certo periodo quel che significa “sudarsi duramente la pagnotta”, con il sudore della propria fronte».
Al ché mi snervò il suo populismo spicciolo, quello di chi è in difficoltà e non sa come giustificarsi, che si rivolge al popolo come Giudice infallibile e insindacabile delle proprie decisioni politiche.
«Ma che c’entra, quando fai così ti darei il “libretto rosso” in testa. Chi ti dice niente! Lui avrà avute le sue ragioni nel svuotare le università e mettere gli studenti nei campi. Sta di fatto che in una società civile e matura c’è bisogno sia dei zappatori che dei sapientoni, poiché se gli uni ci regalano le primizie della Terra è altresì vero che gli altri ci regalano il più inestimabile dei doni: la cultura! Che è la “forza motrice” di un popolo ed è ciò che lo fa progredire da uno stato di barbarie ad un massimo grado di civilizzazione.»
«Voi intellettuali – con tono sprezzante – dovreste spiegarmi a cosa servite?! Siete sempre stati la dannazione della sinistra, non sapete far altro che criticare le scelte di chi vi governa, anzi a dirla tutta non sapete affatto scegliere. La politica è scelta, lì non funzionano i vostri teoremi astratti e c’è bisogno di concretezza: “Fatti e non pugnette”, come dice quel comico alla televisione.»
«Sarà come dici tu, cioè che la politica è scelta e la mia di scelta, francamente, è quella di starne alla larga il più possibile. Ammiro e rispetto chi fa politica e compie delle scelte basilari per l’intera società civile, però ti dico che se non ci fosse il filosofo a tirare per le orecchie il politico quando occorre, quest’ultimo farebbe soltanto gli sporchi comodi propri e si dimenticherebbe di essere non tanto un uomo del popolo, quanto un uomo per il popolo… Dal mio punto di vista è meglio se il filosofo, in genere, si tenga alla larga dalla politica ma non per questo rinunci a fare della politica a modo suo. Semplicemente dovrà farla dall’esterno, esponendo garbatamente la propria opinione e lasciando che i politici di mestiere si scannino tranquillamente in Parlamento».

Dopodichè la conversazione si placò placidamente e rimanemmo entrambi muti fino al termine del nostro tragitto. C’è un’annotazione che vorrei farvi prima di chiudere, e cioè: non so perché, ma ogni volta che discuto con mio padre ho la netta impressione sì di pensarla come lui, solo che il nostro differente modo di esprimerci ci porta inevitabilmente a fraintenderci su alcuni punti. In particolare ogni volta che affrontiamo la questione politica, in cui, pur pensandola allo stesso modo, non posso divergere di una virgola che subito, secondo lui, la penso in maniera diversa. Trovo quest’aspetto a dir poco curioso. Il bello delle discussioni, in generale, è che non si esauriscono mai e lasciano sempre qualcosa in sospeso, cosicché le conclusioni sfuggono irrimediabilmente. In esse non c’è mai un inizio e una fine, cominciano così per puro caso per poi non esaurirsi più! Nel prosieguo degli anni, gira e rigira, ritorniamo sempre a discutere delle stesse cose. Certamente fra i due sono io quello che studia filosofia, ma credo che entrambi, a modo nostro, siamo filosofi. In questo do ragione ad Antonio Gramsci, quando affermò che chiunque abbia un sistema di pensiero sia da considerarsi un filosofo in piena regola, perché questi ha indubbiamente una propria filosofia di vita! La filosofia, già… È davvero una magnifica macchina per fare discorsi. E che discorsi, dico io…

4 commenti:

Anonimo ha detto...

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Anonimo ha detto...

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Anonimo ha detto...

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Sono i classici discorsi che faccio anch'io quando ho la pancia piena.Personalmente non me ne preoccupo più di tanto.L'importante almeno per me è saperlo...ne cerco di evitarli
Per quanto vale questo consiglio potresti provare a cambiare menù ..forse.. con qualcosa di più frugale..eheh!!
Non dici come continua di solito domenica..provo ad indovinare tv con il solito menù di calcio e/o fiction.
ciauz
Omonero