Saranno trascorsi almeno quindici anni da quando, in vacanza sul lungomare pugliese, costruivo castelli di sabbia insieme a mia madre e mio padre. Forse anche qualche anno di più. Poco importa. Ho nei ricordi la vivida immagine di quei giorni, “quando la vita era più facile e si potevano mangiare anche le fragole”, canta Vasco Rossi. Quando un secchiello diventava nelle mie mani una gru precisa, affidabile, impeccabile. E la sabbia era la mia calce, il mio cemento armato col quale realizzavo splendidi, a miei occhi, castelli di sabbia che poi, la notte, il mare si sarebbe portato via. Io costruivo, lui distruggeva. Io ricostruivo e lui ridistruggeva. Per me era un gioco. La sabbia intendo. Mi divertivo a realizzare forme diverse: sirene, angeli, piramidi. Nelle mie mani la sabbia prendeva vita e sul lungomare nascevano forme nuove, costruzioni mai viste che nei miei occhi di bambina apparivano incrollabili ma che poi, in fondo, a mia insaputa, non avrebbero visto l’alba del giorno succesivo. Oggi, quindici anni più tardi, qualcuno ha ancora l’ardire di costruire castelli di sabbia, nelle città, nelle cosiddette metropoli italiane. Ma anche nei piccoli borghi storici. Come l’Aquila, recentemente colpita da violente scosse sismiche, che hanno messo a nudo la città, mostrandone le fragilità. Case, più che castelli, fatte di sabbia. E dietro ad esse, “burattini edili” di cartapesta mossi dal solo denaro. L’Italia si è mossa. L’Italia si è sentita viva e solidale. Ecco l’Italia che vogliamo. Nei volontari della protezione civile, nei soccorritori della Croce Rossa, nelle migliaia di angeli italiani che - come nel film Il cielo sopra Berlino - hanno vigilato e tuttora continuano a vigilare sui terremotati abruzzesi. La storia si ripete, dunque. Dopo l’Umbria, di qualche anno fa, ora è toccato all’Abruzzo. Una tragedia che si poteva risparmiare? Forse sì. E non tanto per le avvisaglie che il geologo aveva lanciato. Forse sarebbe stato meglio fermare le mani di quei costruttori che, in maniera conscia, hanno eretto nelle città quegli stessi castelli di sabbia che io formavo sulla spiaggia. In barba a quelli che vi sarebbero poi andati andati ad abitare. In barba all’onestà. Oggi quei castelli non sono più castelli di sabbia, ma sono castelli di rabbia. La rabbia e lo sgomento di persone che non hanno più niente. La rabbia e lo sgomento di persone che, sperano, soffrono, sognano e si disperano ma tutto sommato continuano a vivere. Nel bene e nel male.
Dentro i colpevoli, fuori i nomi / o' terremoto' ... / 'fanculo l'onore e l'omertà”. (“Dimmi il nome”, Litfiba)
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