Com’era bello accarezzarlo… al tatto rimaneva soffice come un guanciale. Poi quant’era saputo… peggio della peggiore pettegola del mio paese. A dir la verità, gli diedi un nome maschile ma francamente non ebbi mai la certezza dell’autenticità del suo sesso. Non seppi mai se fosse un pappagallo o una pappagalla. Ma la smania di volerlo chiamare a tutti i costi come il mio eroe mundial mi sopraffece a tal punto, che non m’importò mai nulla di sapere se fosse un lui o una lei. Di certo non gli diedi mai possibilità di provare la sua mascolinità. Se ne restò sempre solo e in disparte nella sua gabbia, accessoriata come un hotel a quattro stelle. Aveva ogni tipo di comfort: dalla tavoletta a forma di surf per rifinirsi il becco, all’altalena mignon sulla quale si divertiva rimanendo a penzoloni per ore e ore davanti alla tv. Come mi avevano consigliato quelli del negozio di animali, gli cambiavo puntualmente l’acqua ogni settimana e il cibo ogni paio di giorni. Ecco, il cibo… se posso fare un rimprovero al mio Totò era la sua concezione, come dire, fin troppo libertina della pulizia. Spesso gli succedeva di defecare sul suo stesso mangime; sicché lui, noncurante, si mangiava ripetutamente i suoi stessi escrementi, senza nemmeno accorgersene.
Una volta rischiò persino di rompersi l’osso del collo. Avevo da poco finito di vedere l’ennesima puntata delle Tartarughe Ninja e, complice una strisciante sonnolenza dovuta all’abbondante pranzo, mi addormentai come un piombo sul divano. A un certo punto, non so in quale stadio della fase REM – non il gruppo musicale –, fui svegliato da un cinguettio che si stava facendo sempre più fioco, della serie “ip” neanche “cip”. Preoccupato mi precipitai da Totò per controllare cosa stesse combinando. Il furbo si era cacciato nei guai, da solo, e cadendo dalla sua altalena era rimasto incastrato nella griglia metallica che mia madre gli aveva posto, con tanto di carta da forno attaccata, per non sporcare la sua gabbia luccicante. Nel divincolarsi era pure riuscito a ferirsi una zampa.
Io lì per lì, vedendolo sanguinante, andai in panico. Poi un lampo di sensatezza m’illuminò sul da farsi. Corsi fuori a chiamare mio padre che stava facendo dei lavori in giardino, come ogni Domenica. Subito, vedendomi agitato e tremante, mi disse di calmarmi. Volle che gli spiegassi cosa mi avesse sconvolto tanto. Trovai la forza per raccontargli l’accaduto:
“Babbo, babbo… Totò è caduto. È rimasto impigliato in fondo alla gabbia ed ora sanguina. Ho tanta paura… corri corri!” strillai impazzito.
“Vedrai che tutto si sistemerà, ora però calmati. Andiamo a vedere cos’ha combinato stavolta la bestia…” mi rassicurò lui. Smontò dalla sua macchina-falciatrice e insieme salimmo le scale.
Con calma olimpica, alla sua maniera, mio padre risolse tutto. Prese delicatamente tra il suo indice e il pollice la zampetta incastrata del pappagallo e la fece passare sopra alle maglie della griglia, così da liberarlo del tutto. Cauterizzò bene la ferita, inumidendola con dell’acqua ossigenata e un pezzetto di cotone. Il contatto bruciante con quella sostanza gli fece emettere un “cip” più potente del solito ma da lì capimmo che Totò, nonostante l’incidente, aveva la pellaccia più dura del cuoio e se la sarebbe cavata. Poi, per stare più tranquilli, lo portammo ugualmente dal veterinario che richiuse la ferita con della penicillina e dimise il paziente senza troppe smancerie. Ma che spavento…
Ricordo come fosse ieri la prima volta che pronunciò il mio nome. Era la vigilia di Natale. C’eravamo io, babbo, mamma e nonna. Stavamo tutti e quattro seduti sul divano, davanti alla televisione. All’appello mancava solo nonno. All’epoca non capivo ancora perché lui adoperasse sempre la stessa scusa per non stare con noi la sera della vigilia. Nonna mi diceva sempre:
“È andato a giocare a carte con gli amici, sai com’è fatto. Che vuoi farci…”.
E io le credevo. Ingenuo. Del resto cosa si può pretendere da un bambino di sette anni, che crede tanto ciecamente nel Natale.
Quell’anno, però, il vecchio filibustiere lappone si fece attendere e non poco. A mezzanotte passata avevo quasi perso la speranza di vederlo varcare la soglia di casa. E pensare tutte quelle lettere che gli avevo scritto. Tutte rigorosamente senza francobollo, che nella mia credulità dovevano essere spedite in Finlandia, a Rovaniemi. A mezzanotte e due minuti cominciai a guardare sconsolato l’orologio a pendolo, che inesorabile – come al solito – segnava l’incedere del tempo, senza che del signor Babbo Natale si fosse vista traccia. A mezzanotte e cinque grondavo già lacrime. Al che mia nonna, preveggente, andò in cameretta con la scusa di fare una misteriosa telefonata ad un’amica per i consueti auguri natalizi. Miracolosamente, a mezzanotte e sette minuti sentii il campanello suonare. Feci una corsa a perdifiato per controllare chi fosse alla porta, seguito dal resto della famiglia.
“Oh oh oh, buon Natale!” disse lo sconosciuto vestito di rosso, con una lunga barba bianca e un sacco pieno di strenne gettato dietro la schiena, lievemente inarcata per sostenerne il peso.
Io con gli occhi ancora umidi, ma finalmente felice, morivo dalla voglia di ricevere il malloppo di doni promessi e fu così che abbracciai dalla contentezza le ginocchia scricchiolanti di quello strano Babbo Natale – seppur quello scricchiolio, non capivo bene perché, mi suonasse familiare. La scusa che accampò per il suo sensibile ritardo fu davvero memorabile. Disse, testuali parole:
“Non ho trovato posto per parcheggiare le mie renne. Poi ho tentato di passare per il caminetto, ma ormai l’età e la pancia – fece cenno toccandosela – non sembrano più permettermelo. Ora, però, eccomi qua a portare regali o carbone a Marco. Sei tu Marco, vero? Allora, ti sei comportato bene quest’anno? Dì la verità…”.
Io, all’udire la parola tanto temuta (: carbone), rimasi impietrito e provai ad addurre una qualche plausibile scusa, dicendo:
“Ho fatto il bravo, lo giuro! Lo chieda pure a loro…” e indicai i miei familiari.
Nel frattempo Babbo Natale – che stranamente non parlava finlandese, e non solo intendeva benissimo il nostro idioma ma lo parlava pure correntemente – entrò nel soggiorno e depositò sopra il tavolo il pesante fardello, pieno di chissà quali mercanzie.
“Allora, come si è comportato il ragazzo? È stato giudizioso?” chiese rivolto alla famiglia.
Tutti fecero “sì” con la testa e io potei tirare un sospiro di sollievo. La scampai bella pure quell’anno. Lui, a quel punto, estrasse un pacchetto gigantesco coperto da una sgargiante carta-regali color rosso natalizio e addobbato con un elegante nastro giallo dorato. Mentre me lo porgeva, come fosse la cosa più preziosa al mondo, mi disse:
“Tieni il tuo regalo. Sulla lettera, se ricordo bene, c’era scritto che volevi o tanti regali piccoli oppure uno solo però bello grosso. Io mi sono permesso di scegliere la seconda opzione e ti ho portato il regalo più grande. Gli altri sono andati ai bambini meno fortunati di te, come mi avevi scritto. Mi raccomando Marco, fai il bravo e vedi di non far arrabbiare il nonno…”.
Mia nonna subito andò a tappargli la bocca, prima che l’incauto Santa Claus si lasciasse scappar detto qualcos’altro di troppo. Lui per tutta risposta imprecò in una maniera a me familiare:
“Ma por la Madon…” ma si tappò la bocca da solo, accortosi dell’involontaria gaffe commessa. Quell’ultima frase, sfuggitagli, avrebbe dovuto insospettirmi ma Totò decise d’intromettersi a modo suo:
“Cip cip… Marco… cip cip… Marco…”.
Fu quanto riuscì a dire il mio pappagallo, ma bastò a ravvivare il sacro fuoco del Natale che arde segreto nel cuore d’ogni bambino. Totò quella sera salvò l’intera sceneggiata. Io, infatti, non m’insospettii minimamente e continuai a credere, ancora per qualche altro anno, alla magia del Natale. Fui talmente preso a far le feste al pappagallo, capace finalmente di pronunciare il mio nome, che non volli capire altro. Alla mia momentanea incapacità d’intendere, inoltre, contribuì anche il mio stato tale di euforia messomi addosso dal regalo appena ricevuto: un bellissimo elicottero d’assalto dei G.I. Joe, che montai e smontai più volte quella sera. Ci andai persino a dormire con quella miniatura d’elicottero, tanto non volevo staccarmene un solo istante. Quello fu, io credo, uno dei momenti più felici della mia infanzia e Totò ne fu il principale artefice.
Ma il ricordo di Totò per me non è solo legato a momenti belli e spensierati, come quel Natale. Pochi mesi dopo – era ancora inverno e il giardino appariva ricoperto da un solido strato di ghiaccio –, rientrando da scuola feci la mia prima esperienza con la morte. Trovai, infatti, Totò stecchito nella sua gabbia. Il suo temperamento tropicale, evidentemente, non ce l’aveva fatta ad uniformarsi ai gelidi venti dei Balcani, che d’inverno non danno requie alle città costiere bagnate dal Mar Adriatico, come la mia. È stata un’esperienza davvero travolgente, che di solito capita intorno ad una precisa età, ovvero: l’età dei primi anni di scuola. Anni in cui un barlume di ragione comincia ad insinuarsi nella coscienza dei bambini, che dolenti o nolenti prendono sempre maggiore confidenza con la vita e con il suo mistero ultimo. Questa presa di coscienza per ciascuno sancisce il taglio definitivo del cordone ombelicale che l’ha tenuto, in certo senso, avvinto all’utero materno. Con essa finisce l’età dell’oro, che dura ahimè troppo poco per tutti. L’età in cui non si vede più in là dei propri passi corti, che mano a mano s’allungano e ci fanno prendere coscienza della nostra meta finale, uguale per tutti. Dicesi: la “democrazia” della morte, o “’a livella” come disse il grande Principe Antonio De Curtis, il cui nome d’arte – guarda caso – era proprio Totò. Un nome, un destino – si direbbe. Altro che coincidenze: e chi ci crede più nelle coincidenze, nemmeno gli scienziati, immagino. Esistono solo quelle che lo psichiatra e psicanalista svizzero Carl Gustav Jung definì felicemente coincidenze significative. Totò, il calciatore; Totò, l’attore; Totò, il pappagallo. Uno splendido triangolo sincronico che, a distanza di così tanto tempo, mi fa meglio comprendere l’intricato mosaico della mia vita.
Feci un funerale in pompa magna, al mio caro ed estinto Totò. Ci mancava solo Elton John a far scorrere le sue dita formicolanti sul piano ed intonare Candle in the wind (all’epoca non ancora scritta) per definire regali quelle esequie. Lo seppellii in giardino, riponendo il suo esanime corpicino nella prima scatola vuota di scarpe che trovai in sgabuzzino. Presi la pala e scavai una buca profonda quanto bastò per adagiarvi la scatola e il suo prezioso contenuto. All’evento accorse tutto il vicinato, messo in allerta dai miei strani traffici con quella pala più alta di me. Rimasero a dir poco increduli, non appena s’avvidero che mi ero preso tutto quel disturbo per un piccolo pappagallo. Solo io potevo sapere ciò che stavo facendo. Quello non era un animale qualsiasi. Era il mio Totò, il mio primo amico vero. Non ci dicemmo mai granché, noi due. A pensarci bene lui mi chiamò una sola volta per nome: quella vigilia di Natale. Ma la nostra comunicazione era talmente intima da non aver bisogno delle parole, come si conviene solo ai più grandi amici. Goodbye, mio piccolo amico. Questa canzone è anche un po’ per te…
And it seems to me you lived your life
Like a candle in the wind
Never fading with the sunset
When the rain set in
[...]
Your candle's burned out long before
Your legend ever will