L'opera di Platone è costellata da miti. In particolare nel Fedro, dopo il mito dell'auriga e delle cicale, si accenna al mito di Theuth: corrispondente al nome della divinità egizia, fra le altre cose inventrice della scrittura. Si narra che Theuth si sia recata da re Thamus per presentargli le sue originali invenzioni. Sicché il re abbia espresso liberamente il proprio parere su ognuna di esse. Quando è stato il turno della scrittura, presentata da Theuth come l'arte del ricordare e del curare i mali che affliggono la memoria, Thamus fa notare come lui non dica il vero accecato dalla paternità della sua invenzione. Infatti il re sostiene che la scrittura non sia altro che una forma di dimenticanza e un invito alla pigrizia per i discepoli, piuttosto che essere una medicina per la loro memoria. Tali discepoli, a quel punto, invece che diventare «sapienti» diventeranno «saccenti». Diversi studiosi, tra cui Giovanni Reale, hanno veduto in questo passo un oscuro rimando alle dottrine non scritte di Platone. Da ciò si può dedurre la maggior preminenza da lui affidata all'oralità rispetto alla scrittura. Poiché la vera sapienza, a suo dire, si tramanda oralmente. In definitiva, la trasmissione di un sapere scritto ha un carattere assolutamente secondario rispetto alla vividezza della trasmissione orale e non può che restituirci soltanto uno sbiadito ricordo della realtà extra-corporea della nostra anima. Inoltre la scrittura ha in comune con la pittura la stessa incapacità di non rispondere se interrogata. Inutile perciò provare a interrogare uno scritto, che non gode del dono della parola – essa è lettera morta per dirlo con il filosofo francese Jacques Derrida. Dunque lo scritto così come il quadro ha sempre bisogno del suo autore, incapace com'è di aiutarsi da solo per difendere le proprie ragioni. A questo punto Platone tramite il suo alter ego, Socrate, propone un tipo di discorso pienamente auto-sufficiente, che si giustifica da sé e «che viene scritto nell'anima di chi apprende, che è capace di difendere se stesso, e che sa con chi deve parlare e con chi tacere.». Compito del vero sapiente è quello di scrivere nell'anima, in quanto solo in essa germoglieranno i semi della conoscenza. Per questo la scrittura svolge un ruolo prettamente ancillare ed è da considerarsi niente più di uno svago per i vecchi. Essi, appunto, si eserciteranno nei «giardini della scrittura» unicamente per dilettarsi nella fase tramontante della loro vita e al solo fine di rimembrare con dolce nostalgia i bei tempi andati, sì da poter riprovare l'antico brivido della giovinezza.
Il libro della settimana : “Il circolo dei nichilisti”.
Un romanzo sui “beati” anni universitari. Di Marco Apolloni.
27.11.08
«I giardini della scrittura» – Riflessioni sul mito di Theuth del "Fedro" platonico
L'opera di Platone è costellata da miti. In particolare nel Fedro, dopo il mito dell'auriga e delle cicale, si accenna al mito di Theuth: corrispondente al nome della divinità egizia, fra le altre cose inventrice della scrittura. Si narra che Theuth si sia recata da re Thamus per presentargli le sue originali invenzioni. Sicché il re abbia espresso liberamente il proprio parere su ognuna di esse. Quando è stato il turno della scrittura, presentata da Theuth come l'arte del ricordare e del curare i mali che affliggono la memoria, Thamus fa notare come lui non dica il vero accecato dalla paternità della sua invenzione. Infatti il re sostiene che la scrittura non sia altro che una forma di dimenticanza e un invito alla pigrizia per i discepoli, piuttosto che essere una medicina per la loro memoria. Tali discepoli, a quel punto, invece che diventare «sapienti» diventeranno «saccenti». Diversi studiosi, tra cui Giovanni Reale, hanno veduto in questo passo un oscuro rimando alle dottrine non scritte di Platone. Da ciò si può dedurre la maggior preminenza da lui affidata all'oralità rispetto alla scrittura. Poiché la vera sapienza, a suo dire, si tramanda oralmente. In definitiva, la trasmissione di un sapere scritto ha un carattere assolutamente secondario rispetto alla vividezza della trasmissione orale e non può che restituirci soltanto uno sbiadito ricordo della realtà extra-corporea della nostra anima. Inoltre la scrittura ha in comune con la pittura la stessa incapacità di non rispondere se interrogata. Inutile perciò provare a interrogare uno scritto, che non gode del dono della parola – essa è lettera morta per dirlo con il filosofo francese Jacques Derrida. Dunque lo scritto così come il quadro ha sempre bisogno del suo autore, incapace com'è di aiutarsi da solo per difendere le proprie ragioni. A questo punto Platone tramite il suo alter ego, Socrate, propone un tipo di discorso pienamente auto-sufficiente, che si giustifica da sé e «che viene scritto nell'anima di chi apprende, che è capace di difendere se stesso, e che sa con chi deve parlare e con chi tacere.». Compito del vero sapiente è quello di scrivere nell'anima, in quanto solo in essa germoglieranno i semi della conoscenza. Per questo la scrittura svolge un ruolo prettamente ancillare ed è da considerarsi niente più di uno svago per i vecchi. Essi, appunto, si eserciteranno nei «giardini della scrittura» unicamente per dilettarsi nella fase tramontante della loro vita e al solo fine di rimembrare con dolce nostalgia i bei tempi andati, sì da poter riprovare l'antico brivido della giovinezza.
14.11.08
"Diario di uno scandalo" (2006)
Judi Dench e Cate Blanchett danno vita ad un dramma dalle tinte torbide. Barbara – la Dench – è un’insegnate attempata ed estremamente arcigna. Le sue uniche occupazioni consistono in prendersi cura di Porzia, la sua gatta, e redigere un meticoloso diario quotidiano: nel quale tiene il conto delle sue frustrazioni e degli episodi insignificanti che le succedono. La sua monotona routine viene spezzata un giorno quando nella sua scuola entra un’insegnante inesperta e molto più giovane di lei: Sheba – la Blanchett. Barbara dopo le iniziali incomprensioni sarà sempre più morbosamente attratta dalla liberale e fresca collega, tanto che le due diverranno presto amiche. Un episodio, però, catalizza la loro amicizia squilibrata: Barbara scopre Sheba intenta ad avere rapporti sessuali con un suo alunno quindicenne. Per lei l’episodio costituisce un ulteriore incentivo per spingersi ancora più in là nell’amicizia con la collega, facendo leva sul timore della sua vittima di venire esposta al pubblico dispregio. Sheba, infatti, teme si scateni un putiferio sulla sua apparentemente normale vita familiare. Lei è madre di due figli, di cui uno affetto dalla sindrome di down, e moglie di un marito più anziano e di vedute progressiste. Senza stare a raccontare il finale che – comunque – tiene bene la suspense, ciò che mi ha spinto a recensire questa pellicola è la sua indubbia originalità. Temo di non ricordare pellicole analoghe che indaghino così a fondo gli intricati meccanismi della psiche femminile. Nella fattispecie che trattino di omosessualità e pedofilia al femminile. A Barbara si addice a pennello l’identikit dell’insegnante bacchettona, che tuttavia scopre un’intimità assai tormentata. Le sue rigide convenzioni nascondono delle pulsioni viscerali latenti e proprio per questo potenzialmente più esplosive. La sua ruvidezza esteriore cela un’inusitata fragilità interiore. Del resto lei si accontenterebbe di poco, una manciata di carezze e un briciolo di compagnia per non trascorrere sola i giorni che le rimangono da vivere sulla terra. Anche Sheba presenta i connotati di un personaggio a dir poco complesso. La sua moderna pedofilia può essere rapportata a quella dell’antica Grecia, quando le mogli trascurate non si tiravano indietro nel rivaleggiare coi loro mariti libertini per assicurarsi le grazie e i favori dei bei giovinetti. Ma la pedofilia al femminile non ha nulla a che vedere con quella maschile. Sarà per il ruolo di passività occupato dalle donne nell’atto amoroso – esse, infatti, si lasciano penetrare e dunque fungono da ricettacolo per il membro maschile; sarà perché la sessualità femminile è un abisso ancora tutto da scoprire; sarà insomma per la dolcezza insita nel modo di fare l’amore delle donne; fatto sta che l’opinione pubblica tende di solito ad essere più conciliante quando si verificano casi di pedofilia al femminile, forse data anche la loro scarsa rilevanza statistica, e a mantenere un atteggiamento seppur ugualmente indignato, tuttavia più tollerante rispetto alla barbara pratica della pedofilia al maschile. Si potrebbe persino congetturare che le attenzioni di Sheba per un imberbe quindicenne siano da attribuire ad un suo perlopiù inconsapevole atto di ribellione nei confronti di una Natura matrigna che le ha donato un figlio anormale. In conclusione, a mio avviso, due sono i punti a favore del regista Richard Eyre: il primo, l’aver affidato il dipanarsi dell’intera vicenda filmica alla bravura di due attrici superlative – provenienti da due scuole di recitazione diverse: più minimale la Dench e più espressiva la Blanchett; il secondo, l’essersi affidato ad una sottile e psicologica sceneggiatura ad opera di Patrick Marber – già noto al grande pubblico per essere autore della pièce teatrale Closer, da lui poi riadattata in chiave cinematografica. Un consiglio a tutti gli amanti del cinema d’autore: Notes on a Scandal è un film assolutamente imperdibile. Potrebbe piacervi o meno, ma garantisco che al termine dell’ora e mezza di visione della pellicola avrete l’impressione di non aver sprecato il vostro tempo e di esservi arricchiti di ulteriori spunti per decifrare alcuni aspetti troppo spesso dimenticati o occultati della torbida natura umana.
5.11.08
Mercoledì 5 Novembre - NO FEAR!
Oggi è un gran giorno per l'umanità! Barack Hussein Obama è il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d'America. Un afroamericano alla Casa Bianca. La realtà ha superato di gran lunga la fantasia hollywoodiana. Onore delle armi all'ex combattente ufficiale di marina, candidato repubblicano, John McCain. (Ora posso dirlo: per il suo passato eroico mi stava pure simpatico. Normalmente, se non ci fosse stato Obama, sono convinto che McCain sarebbe stato un buon Presidente degli Stati Uniti d'America.) Che Obama vincesse ci speravo proprio, lo confesso. Anche se, in fondo, temevo due cose: 1) che non sarebbe arrivato tutto intero al fatidico giorno; 2) che molti bianchi americani non l'avrebbero votato. Per fortuna i miei timori sono risultati infondati. Qualcosa è cambiato in America. Un vento democratico ha pervaso quello che è forse il paese più conservatore al mondo. Siamo realisti, la sinistra americana non è uguale a quella europea. Il professor Angelo Panebianco, celebre editorialista del Corsera, nelle sue illuminanti lezioni mi ha convinto di questo. Tuttavia, credo che il mio esimio professore non obietterebbe nulla se si dicesse che Barack Obama è un progressista. Tirando le somme, se quella di questa lunga e interminabile tornata elettorale – era dagli anni d'oro in cui lavoravo nelle discoteche che non tiravo le cinque di mattina – non può reputarsi una vittoria a tutti gli effetti delle sinistre europee, certamente però il fatto rappresenterà una dura batosta, a lungo andare, per tutte le destre conservatrici europee.
Del resto, con un Presidente così outsider e improbabile – come lui stesso ha voluto definirsi –, che ha saputo trionfare – la sua infatti non è stata una semplice vittoria, ma un autentico trionfo – grazie ad una campagna elettorale tutta basatasi sulla parola cambiamento, me ne aspetto delle belle. Una cosa è certa, il neo-eletto Presidente turberà, e non poco, le coscienze di non pochi lobbisti sia americani che non. Nei suoi splendidi discorsi, che ritengo studieranno i nostri figli un giorno e che sono già entrati nel nostro immaginario collettivo, Obama ha proclamato quella che sarà la sua guerra non al terrore – come il suo infantile predecessore seriamente convinto dell'esistenza del male assoluto –, bensì al privilegio in tutte le sue forme più abiette. Con Obama la nostra speranza, e quella anche evidentemente della stragrande maggioranza degli americani, che il divario fra ricchi e poveri si assottiglierà sempre più acquista una sua fondatezza. Dal mio canto, mi rendo perfettamente conto che il suo tanto agognato cambiamento avverrà per gradi, con grande lentezza e non senza dover scavalcare gigantesche barriere che gli si frapporranno nel suo difficile cammino da mister President. So molto bene, inoltre, che questo cambiamento non potrà avvenire se non mediante un estenuante processo di riforme. Ma dopo gli otto anni di buio profondo con Giorgino Bush, finalmente con Obama s'inizia ad intravedere una fioca luce in fondo al tunnel.
Il sogno del reverendo Martin Luther King ha preso corpo e anima con quest'uomo e ora si è finalmente realizzato. Ricordiamo le sue profetiche parole: “Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!” (discorso pronunciato a Washington il 28 agosto 1963). Per festeggiare ho sparato nel mio stereo, a tutto volume, una canzone degli U2 a lui dedicata: Pride – In the name of love, da quel fine sperimentatore di sogni che è stato. Passeggiando per strada ieri e sentendo alcuni discorsi nei bar, ho avvertito tutt'intorno a me un'aria strana. Dentro di me ho pensato: “Forse è tutta qua l'essenza del cambiamento, in quest'aria diversa!”. Gente a cui non è mai importato un fico secco della politica nazionale, figuriamoci internazionale, ha iniziato per la prima volta a scaldarsi per un argomento non concernente il calcio, un rigore regalato ad una squadra, oppure una punizione assegnata ingiustamente da un arbitro. Da ciò ho avuto la precisa sensazione ieri di vivere un momento storico. Per la prima volta da quando sono nato mi sono sentito parte integrante della storia, che non può prescindere da una sola parola: cambiamento. Senza cambiamenti il nostro genere umano non sarebbe progredito, anche se in certi casi è regredito – si veda il periodo delle due guerre/carneficine mondiali del secolo scorso –, fino a diventare quello che è oggi. Per attuare dei cambiamenti a volte ci sono volute le rivoluzioni cruente; a volte, come questa, basta semplicemente un uomo coraggioso, il quale pur tenendo presente la fine fatta da altri due sognatori come lui, John e Bob Kennedy, ha voluto lo stesso andare avanti. In un commovente discorso a sostegno del marito, la nuova first lady Michelle Obama si è detta stanca di darla vinta alla paura. Come stanchi sono tutti gli americani di vedersi ammazzare chiunque voglia introdurre all'interno della loro società la benché minima forma di cambiamento. L'America ha già avuto fin troppi martiri per la sua nobile causa, troppi omicidi politici, neanche fosse una Repubblica delle banane qualsiasi. Fino ad oggi, e spero mai più in futuro, quella americana è stata una democrazia tenuta sotto scacco da assassini psicopatici. L'augurio che tutti gli americani, oggi, credo si staranno facendo è quello di vedere interrompersi quest'insensata striscia di sangue. Proprio per ciò mi sento d'augurare al nuovo Presidente americano di: sbagliare vivendo...
NO FEAR!