4.1.06

Il Gatto e la Volpe

Il mio nome è A.M. e, spinto da un naturale rigurgito di fascismo, mi sono deciso a farvi venire a conoscenza di alcuni fatti, che sono un cattivo spot per il nostro pulito sport. Tra l’Ottobre e il Novembre scorso ho frequentato un corso per diventare istruttore di tennis di secondo grado, in località “Paese dei Balocchi”, dove sono stato vittima di un’arbitrarietà davvero intollerabile per qualunque "uomo di sani principi" - quale mi definisco. Ora vorrei presentarvi i fatti così come la memoria me li detta in buona fede.
Durante la prima giornata di corso già avevo capito che le cose si mettevano male. Entrando nella sala dove si tenevano le lezioni teoriche, si respirava un’atmosfera di tensione indicibile: volti tesi, sguardi intimoriti… Sembrava di stare in una qualche specie di anticamera infernale. Poi subito mi sono voltato e ho scoperto il motivo di tale tensione: il sorrisino disinvolto del maestro “Gatto” e quello indecifrabile del maestro “Volpe”. Mi sono accomodato in un seggiolino in disparte, nella penultima fila, ben conscio che, visti i nostri famigerati educatori, sarebbe stato bene non dare troppo nell’occhio. Con costoro un minimo e impercettibile movimento delle sopracciglia avrebbe potuto trasformarmi in uno dei “capri espiatori” tanto ricercati da questi due "maestri scienziati", seguaci integerrimi del buon Galileo Galilei - che me lo figuro di già rivoltarsi nella tomba…
Per iniziare essi fecero una breve introduzione del corso, nella quale giustamente venne presentato quello che secondo loro era il prototipo del "maestro ideale", esprimendo opinioni condivisibili da noi astanti e non avrebbe potuto essere altrimenti (guai a manifestare il proprio dissenso a queste due “belve delle SS”). Mi ricordo ancora come il maestro “Gatto” abbia triturato e fatto a pezzettini la dignità di un maestro venuto addirittura dalla Sicilia in occasione del corso di primo grado a Roma, ingiuriandolo e dileggiandolo ripetutamente davanti a tutti, dopo che questo poveretto - non vi dico la pena che mi faceva - si era tradito da solo il primo giorno, facendosi beccare con il cellulare squillante in mano.
Una volta conclusa l’esauriente presentazione, ecco che i due “piccoli duce” passarono in rassegna noi sottomessi “cadetti”. Non vi dico i difetti che trovarono in ognuno di noi: chi aveva le occhiaie, chi le orecchie a sventola o il naso a proboscide, chi era frigida e sostanzialmente non “gliela dava”, chi troppo bacucco per sostenere l’esame - a detta loro -, chi con l’orecchino - dunque con tutta probabilità drogato, secondo alcune recenti ricerche sociologiche -, chi spettinato e stempiato stile “scienziato pazzo” - uno dei due predicatori peraltro, ironia della sorte, quella mattina aveva razzolato male. Mi riferisco maestro “Gatto”, che sembrava appena caduto dal letto. Ma poco importava dato che chiunque offuscava la “razza ariana” selezionata con premura dalla Scuola Nazionale Maestri - composta essenzialmente da begli uomini - meritava la fustigazione immediata.
Tra una tiritera e l’altra quella prima mattinata si avviò al termine, l’ora di pranzo stava infatti per scoccare e anche gli appetiti dei più strenui “torturatori” avevano ormai i minuti contati. Tuttavia essi, da veri marpioni, escogitarono un vecchio trucco che soleva usare la mia maestra cicciona delle elementari per spaventare noi poveri bambinetti, ossia ci dissero che nel pomeriggio ci avrebbero fatto delle domande random - cioè ad ordine sparso -, per verificare se avevamo recepito o meno i contenuti teorici del primo modulo - in teoria della serie “chi becchiamo becchiamo” e in pratica della serie “becchiamo chi diciamo noi”.
A pranzo nei tavoli non riuscivo a non sorridere orecchiando i discorsi allarmati dei miei colleghi-istruttori, la maggior parte dei quali perlopiù dalla memoria “a breve termine” e che perciò non riuscivano a ricordarsi alcuni concetti appiccicaticci e retrodatati imparati “a pappagallo” sì e no durante il primo corso.
Io tutto sommato, almeno in questo, ero abbastanza tranquillo: non mi avevano messo in difficoltà le domande di eminenti docenti universitari di filosofia, figuriamoci questi due maestri di tennis, pur coltissimi nel loro settore specifico. Fu così che scoccò l’ora fatidica del dopo pranzo. Già pronti a sondare le residuali conoscenze di noi spauriti “maestrini”, “Gatto” e “Volpe” in forma smagliante e coi denti scintillanti - da cui emanava un odore genuino di dentifricio - erano lì in tutta la loro stoica inflessibilità!
Io fui uno dei primi ad entrare. Nel frattempo avevo già avuto modo di origliare il malumore della platea, che come al solito in questi casi se la stava prendendo con la solita "Roma ladrona", che aveva delegato simili impietosi aguzzini a diffonderne il Verbo, costato a dire il vero la bellezza di “trecento testoni” circa cadauno (escluse, s'intende, le spese di vitto e alloggio, per non contare il proprio tempo prezioso). Perciò cambiai di posto, per paura di passare fra gli elementi più sobillatori, dato che la posizione in cui mi ero accomodato alla mattina, circondato da degli avvinazzati e troppo esuberanti piemontesi, non mi favoriva in tal senso. L’ultimo che chiuse la porta - che ve lo dico a fare - si prese la prima strigliata pomeridiana e venne già inserito nella lista di proscrizione dei due maestri “inquisitori”. Le ore volgevano velocemente al termine, ma gli dèi mi assistettero per tutto quel tempo interminabile. Sicché non venni chiamato all’appello. Con la sicurezza del “condannato a morte” uscii e salutai educatamente i miei colleghi, consapevole che se non mi era toccato quel pomeriggio, mi sarebbe toccato presto: senz’altro l’indomani mattina.
Casomai non l’aveste capito, sto volutamente mettendo questa storia in toni melodrammatici: per sbollire un po' la mia rabbia congenita a subire ingiustizie e comunque a vederle perpetrare ai danni di chicchessia. Francamente della vicenda di cui sono stato testimonio, m’interessa più la portata “collettiva” che la “mia individuale”. Sin da piccolo ho sempre avuto una predilezione per gli slanci altruistici stile: Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento! Poi, oltretutto, le mie ambizioni sono tali che - vista la mia carriera studentesca - preferisco di gran lunga la “virtuosa” carriera intellettuale, a quella altrettanto “virtuosa” seppur tennistica. Nondimeno considerando il mio successo coi bambini nell’insegnamento del tennis (sport al quale ho sacrificato la mia vita sino ad un’età tardo-puberale, diventando peraltro un ottimo agonista), non vi nego che un pensierino, a pagarmi gli studi compiendo l’onesto mestiere dell’insegnate di tennis, me lo sono fatto eccome. Certamente non ambisco a diventare un Nick Bollettieri. Infatti difficilmente potrei coltivare dei piccoli Agassi in fasce, però - se non altro - il mio piccolo contributo lo potrei senz’altro dare, per quel poco che ne so…
Ad ogni modo tornai lì il giorno dopo, spaccando il secondo peggio d'un orologio svizzero, onde evitare sgradite ramanzine. Mi sono messo seduto e, tempo un paio di minuti, è iniziata la roulette russa giornaliera. I primi a finire sotto le grinfie dei due “caimani” sono stati: un timidissimo ragazzetto dall’aria spaurita che non riusciva nemmeno a mettere insieme una frase di senso compiuto, tutto tremante com’era; una ragazza completamente svampita che più che un’istruttrice di tennis pareva un’ochetta starnazzante; un capellone con la faccia tutta butterata e la “r” moscia che faceva un sacco chic, fissato con le mamme dei suoi allievi che nominava in continuazione e con quell’aria tipicamente piacionesca di chi tira il rovescio a una mano guardandosi di fianco; infine, un signore un po’ attempato dalla camminata alla Penguin - celebre antagonista di Batman - e che sembrava la copia identica di Doc - lo scienziato fuori di testa protagonista di Ritorno al futuro. Tutti questi fecero una figura magrissima e vennero letteralmente sbranati dai due summenzionati “caimani”, com’era lecito attendersi d’altronde.
L’ultimo della schiera dei chiamati in causa della mattina, guarda caso, fui proprio io. La domanda che mi venne sottoposta - stile interrogatorio di un folle omicida - riguardava un certo tizio di nome Maslow, che c’entrava qualcosa con una piramide di non so bene che cosa. Naturalmente, come mio solito, pur di non fare scena muta tentai in tutti i modi un’impervia arrampicata sugli specchi. Ma dico? Come avrei potuto ricordarmi un concettino tanto insulso, per di più sentito forse una sola volta in vita mia, cinque minuti al volo e neanche, oltretutto ben due anni prima, visto che dentro la mia scatola cranica sono farcito di concetti piuttosto complessi concernenti la filosofia iperborea? E poi, in mia difesa, mi chiedo quando mai un istruttore di tennis abbia mai avuto modo di nominare ad un suo allievo - specialmente se si tratta di un paffutello frugoletto di appena sei anni - questo benedetto Maslow? Bah, lascio a voi che mi state leggendo l’ardua sentenza…
Sulle prime resistetti alle prese in giro di questi due maestri galileiani il cui motto era “spesso non si ha una seconda opportunità di fare una buona impressione”, perciò della serie: chi sbaglia una volta, lo stronchiamo tutte le volte! Poi, però, d'un tratto non riuscii più a trattenermi: il mio temperamento sanguigno e la mia franchezza tipicamente marchigiana, mi fece venire meno a quanto mi ero ripromesso, ossia resistere ad oltranza alle ingiurie di quei due. Cosicché mi presero "i cinque minuti" - come si suol dire - durante i quali, pur senza offendere alcuno, diedi libero sfogo a tutta la mia verve critica. Grazie ad essa sin da piccolino ho imparato a difendermi da solo con le parole, senza il bisogno di tirare pugni a destra e manca, come invece molti fanno per sfogare la loro frustrazione. Nel corso di questo mio sfogo, mi misi a criticare sia l’impertinenza di quei due e sia il clima di terrore che essi avevano creato per metterci in difficoltà, per non parlare delle loro petulanti minacce di bocciatura delle quali lì per lì me ne infischiai, poiché non sopporto che mi si tratti e si trattino - più in generale - le altre persone come delle “pezze da piedi”. Chi pretende rispetto, innanzitutto, dovrebbe esser disposto a concederlo agli altri; cosa questa che non erano disposti a fare costoro, i quali - non so per quale astruso motivo - si credevano “il padreterno in persona” e camminavano tre metri sopra terra, tanto lievitavano da quei "palloni gonfiati” che erano! Finita la mia sfuriata, scorsi negli occhi dei miei colleghi un senso diffuso di compiacimento, che stava a significare l'immensa gratitudine che essi provavano nei miei confronti, il più “pischello” del gruppo. Malgrado il fattore anagrafico a mio sfavore, io ebbi perlomeno il coraggio che era a loro mancato, cioè di sfidare quei due “mostri sacri” della Scuola Nazionale Maestri, dicendo loro di moderare i toni, visto e considerato che non era quello il modo di trattare le persone, applicando una simile assurda e immotivata “strategia del terrore”.
Con quell’intervento senza peli sulla lingua, col senno di poi, mi rendo conto di aver firmato la mia irrevocabile condanna a non superare l’esame finale. Questi signori, a dir poco ipocriti e vigliacchi, addirittura poi mi presero da parte e mi diedero la loro parola d’onore di non considerare nel loro giudizio finale quel "banale" - così si espressero - incidente diplomatico. Tuttavia il mio più grosso sbaglio è stato quello di non aver capito fin da subito che questi due vendicativi personaggi, non sapevano manco cosa fosse l’onore. Vuoi però per mia ingenuità e vuoi anche perché di solito credo nella buona fede delle persone, mi fidai delle loro rassicurazioni.
E feci male, dato che vigliaccamente ben sei mesi dopo, mi arrivò a casa la perentoria comunicazione di non aver superato l’esame di fine corso. Beffa della beffa, dal momento che l’esame che sostenni irregolarmente a “porte chiuse” - cosa questa inammissibile per qualunque esame pubblico e che voglia mantenere una qualche parvenza di serietà - fu davvero impeccabile da parte mia, risposi a tutte le domande, con una sicurezza disarmante. Il mio esaminatore, la “Volpe”, con quel suo muso da ornitorinco, non poté in alcun modo controbattermi anche perché mi fece, tra l’altro, tutte domande piuttosto generiche e pure - volendo - “filosofeggianti". Domande le quali, per uno smaliziato studioso di filosofia come me, non poterono che sembrarmi un autentico “invito a nozze”, come si suol definire. Forse sottoponendomi domande inerenti alcuni virtuosismi tecnici dell’arte tennistica, essendo lui di gran lunga più aggiornato di me in proposito, avrebbe in un certo senso potuto mettermi in difficoltà. Difficilmente venendomi a chiedere roba tipo “che cos’è l’empatia” e altre menate simili, modestia a parte, io credo di saperne un po’ più di lui. Difatti su questa roba ci faccio pure oltretutto corsi all’università, tutti di un certo livello peraltro. Inoltre cosa volete che ne sappia del sapersi mettere nei panni degli altri costui - definizione questa di “empatia” -, il quale dubito fortemente sappia mettersi persino nei panni di se stesso...
Comunque, ovviamente, le domande dell’esame furono soltanto l’ulteriore riprova della sfacciataggine di costoro, che sentendosi “intoccabili” vanno perpetrando arbitri per tutt’Italia (questa è la mia preoccupazione più grande). Quel che mi dà più fastidio, a pensarci bene, non è tanto la “bastardata” che mi è toccata subire, dato che, come vi ripeto, la mia più smisurata ambizione non è quella di fare il “maestro di tennis” - mestiere questo, oltretutto, visto come fumo negli occhi dalla maggior parte delle persone e che, inoltre, non ha nemmeno un riconoscimento giuridico. Piuttosto mi urta l’idea che il “Gatto” e la “Volpe” se ne vadano in giro a rovinare le vite lavorative di “poveri cristi”, che a differenza mia sono costretti a camparci col tennis e i quali devono farci campare anche le loro mogli, amanti e i loro figli. Questi due loschi figuri decidono delle sorti altrui, a seconda delle loro antipatie o simpatie (tralasciando loro medesimi, dato che sono sì simpatici ma come una bastonata in faccia) e non del merito effettivo delle persone come dovrebbe invece avvenire.
È questa la più grande accusa che muovo contro costoro e per la quale vi prego d’indignarvi insieme a me. Il mio augurio, dunque, è molto semplice: spero che episodi poco chiari, come il mio, non si ripetano mai più. Altrimenti mi troverei costretto a ripetere a questi due maestri “repubblichini” il seguente motto distillato dalla saggezza popolare: “Siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile”. Loro compresi, aggiungerei io. E con questo vi ho detto davvero tutto, non mi rimane che augurarmi che le cose cambino, prima o poi. Speriamo più prima che poi...

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