24.7.07

Amore eterno? Eterna bugia...

di Marco Apolloni

Amori eterni come quello di Tristano e Isotta, che trovano proprio nella morte degli amanti la sublimazione finale del loro amore malato, sono un'infelice rarità. La norma, molto meno romantica, c'insegna pragmaticamente che molti amori finiscono. Dunque l'amore non è eterno, ma l''eterna bugia che ci fa credere il contrario è dura a morire. Molta colpa della cristallizzazione dell'inganno secondo cui gli amori non finiscono e anzi sembrerebbero sublimarsi, per chissà quale strana alchimia, nella morte di uno dei due amanti o di tutti e due insieme, va data al romanticismo. I poeti romantici con le loro tragiche e tribolate storie d'amore ci hanno lasciato una pesante eredità: la morte è il viatico per accedere all'etereo e iperuranico paradiso degli amanti. Che si tratti del giovane Werther o dello Jacopo Ortis, la sostanza non cambia: un amante fedele compie con il proprio suicidio un estremo e inconfutabile gesto di devozione alla propria amata. Poco importa se questa amata, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, è soltanto un fantasma della mente, o meglio è l'immagine – in bianco e nero – della propria amata, filtrata come si suol dire: con gli occhi del cuore. Ancora prima del romanticismo, nel Medioevo numerosi letterati ci hanno tramandato l'idea dell'amore disincarnato, quindi per meglio dire dell'amore mentale – poiché, innanzitutto, prodotto eminente della propria mente. Da Dante che ha escogitato la sua donna angelica, Beatrice, ad Abelardo che ha trasposto su di un piano superiore – oseremmo dire trascendentale – l'amore carnale che c'era stato tra lui e la sua allieva Eloisa – quest'ultima si era addirittura definita in una lettera all'amato: la sua «puttana».
Dunque da questo quadro perfettamente organico emergerebbe il ruolo marginale avuto dall'eresia catara e dalla lirica trobadorica sull'affermazione del mito romantico degli amanti infelici. A contestare la tesi rougemontiana ci ha pensato il filologo Corrado Bologna, che viene ripreso e argomentato nel saggio dell'antropologo Franco La Cecla dal titolo emblematico Lasciami. Secondo entrambi il ruolo dominante nell'affermazione del nefando amor-passione declinato da Stendhal, l'hanno avuto sia gli umanisti medievali che poi, in un secondo momento, i poeti romantici – in particolare del romanticismo tedesco. Questi ultimi hanno avuto come loro bersaglio polemico la Francia illuminista, che con la livella della ragione ha voluto appiattire quel «di più» – per dirlo con il sommo Goethe – costituito dal sentimento e in special modo dal sentimento più nobile e autentico che vi sia: l'Amore! Filosoficamente si potrebbe obiettare, reduci dell'insegnamento aristotelico, che la verità sia confinata nel mezzo, ovvero: il più saggio degli amori – anche se saggezza e amore difficilmente possono venire abbinati insieme – o perlomeno il più equilibrato, dev'essere né troppo razionale e nemmeno troppo irrazionale. Spesso e volentieri, però, le risposte che ci dà la filosofia – compresa quella, seppur lungimirante, aristotelica – risultano alla prova dei fatti non del tutto soddisfacenti. Difatti è statisticamente provato quanto sia più probabile aspettarsi una seconda venuta del Messia che ottenere un amore saggio o equilibrato che sia. Eppure una corretta prassi – ossia la filosofia che si fa pratica – nei casi d'amore c'invita a non disperare totalmente e a credere che sia ancora possibile un galateo nei rapporti amorosi, ivi compreso in quel crudele quanto inevitabile atto del lasciarsi. Questa teoria fa da coda all'interessante saggio già menzionato, Lasciami (La Cecla, 2003).

Sembra assurdo, con tutti i problemi che ci sono al mondo, che un nuovo galateo degli addii e delle uscite (un galateo che ne preveda le sfumature e che distingua i cordogli dai passaggi, i lutti da morte dai lutti da piccole morti e resurrezioni necessarie) debba essere considerato urgente. Può sembrare assurdo però solo a chi è convinto che l'amore sia un valore da tenere nascosto dentro i serial televisivi e nella rubrica della posta del cuore [...] La «posta» che il cuore mette in ballo, invece, è una posta ben più alta. Sono in gioco tutte le vibrazioni, la costellazione delle emozioni e delle compassioni. Speriamo che un nuovo Signore o un nuovo Buddha della Compassione ci protegga e ci insegni daccapo ad amare.[1]

Un filosofo che può qui venirci in aiuto è Eraclito, con il suo felice motto: Panta rei, Tutto passa. Chissà, se Tristano e Isotta avessero prestato fede all’insegnamento eracliteo a quest'ora probabilmente non si starebbe qui a discutere e meditare sul loro travagliato amore, di cui tanti – forse anche troppi – hanno cantato le lodi e le infamie, a seconda. In definitiva noi non sappiamo se De Rougemont abbia avuto ragione o meno nel rintracciare nell'infausta vicenda dei due amanti infelici, il mito fondatore della letteratura amorosa in Occidente. Quel che sappiamo, però, è che in una maniera o nell'altra tale mito ha influito e tuttora influisce sulle mille pieghe della nostra società occidentale e come puntualizza l'antropologo La Cecla anche in quella orientale, portando l'esempio di altri due sfortunati amanti quali Leyla e Majnun (la cui vicenda è stata riportata dal grande Nezãmî nel 1188). Perciò, visti e soppesati gli esiti dello sconvolgente amor-passione, non resta che augurarci un avvenire meno turbolento e più raffreddato per gli amori. Parlare di raffreddamento, però, induce a pensare ad un'estinzione della fiammella della passione. Se questo appare il prezzo da pagare ai mali d'amore, non resta che interrogarci se sia troppo – o meno – un simile sacrificio. Ai posteri l'ardua sentenza…

[1] La Cecla, F., Lasciami, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.

18.7.07

Il matrimonio: panacea di tutti i mali?

di Marco Apolloni

Denis de Rougemont in conclusione al suo saggio L'amour et l'occident rintraccia proprio nella vecchia e desueta istituzione del matrimonio la sola panacea di tutti i mali d'amore, che da sempre affliggono la nostra mentalità occitanica. Ma come – verrebbe da chiedersi – proprio il matrimonio, che è all'origine della sollevazione dell'amor-passione, può davvero essere la risposta più efficace al problema? Secondo de Rougemont parrebbe di sì. L'Eros pagano trova per lui il solo auto-regolamento nell'Agape cristiana, ovvero l'amor-passione deve essere convertito in amore-razionale, poiché da solo il sentimento può fare ben poco se non è sorretto dalla solida guida della ragione umana. A nostro avviso, de Rougemont qui compie un vero e proprio salto all'indietro. Ci voleva un Jean-Jacques Rousseau per liberare il sentimento dalla schiavitù della ragione e quindi non ci voleva proprio un de Rougemont per rimettere in catene il sentimento esaltando l'asettica ragione...
Il Ginevrino ha approfondito, a modo suo, il tema dell'amor-passione nella Nouvelle Héloïse: nome che riecheggia l'eroina del celebre carteggio del filosofo e teologo francese Pietro Abelardo (1079-1142). Il Tristano e l'Isotta di turno sono rispettivamente: St. Preux e Julie. In breve, la tresca amorosa si basa anche qui sul consueto schema del ménage à trois: St. Preux, Julie e suo marito Wolmar. L'“occhio vivente” di Wolmar scruta e osserva i sentimenti dei due giovani, tentando un'encomiabile opera di manipolazione e conversione degli stessi sentimenti in semi – ben più edificanti – di ragionevolezza. All'inizio il saggio Wolmar sembra quasi riuscire nel suo intento, ma in un colpo di scena finale l'amor-passione consumerà la sua vendetta: trascinando la dolce Julie giù nel baratro sprofondante del maelstrom. La storia contiene in sé una precisa morale: nonostante tutta la buona volontà che ci si può mettere, non si può combattere la potenza oscura dell'amor-passione con l'arma inefficace della ragione. La triste vicenda di Julie c'insegna, dunque, come Eros trionfi su Agape, per l'ennesima volta.
Il pensiero di Rousseau è tutto incentrato sul voler ricondurre la ragione al sentimento e non viceversa. Proprio in ciò è consistita la sua straordinaria dote rabdomantica per il suo tempo, l'età dei lumi, che aveva esasperato a tal punto il concetto di ragione, fintanto da produrre di lì a poco il naturale e inevitabile iato del romanticismo – che esasperò a sua volta il concetto di passione. La grande innovazione introdotta dal Ginevrino è stata l'ideazione di una sorta di naturalismo o disciplina delle passioni, capace di distinguere una passione nociva da una, altresì, più genuina. In ciò consiste la differenza da lui individuata tra un “sentimento convenzionale”, sbagliato poiché innaturale, e un “sentimento naturale”, tanto più giusto proprio perché naturale. La naturalità secondo Jean-Jacques è la sola discriminante plausibile per disciplinare, ossia separare, ciò che in amore è soltanto convenzione da ciò che è invece puro istinto.
Secondo quest'ottica rousseauiana potrebbe sì andar bene il matrimonio come rimedio alle degenerazioni dell'amor-passione, purché però esso si basi su un sentimento autentico e non meramente convenzionale. Beh, a dire il vero, anche quest'ottica si trova a dover fronteggiare un male ben più insidioso dello stesso amor-passione, che è la noia – male prettamente dell'era moderna e che ha in Tristano il suo assoluto precursore. La noia – sulla quale non a caso hanno molto insistito scrittori e filosofi dell'esistenzialismo, da Kafka a Sartre – è la vera e propria “bestia nera” del nostro tempo. Essa si basa su una concezione tutta passiva della temporalità umana e si contrappone all'attesa messianica. Prendiamo due romanzi di quello che potremmo definire “esistenzialismo italiano”: La noia di Moravia e Il deserto dei tartari di Buzzati.
Nel primo si raccontano le vicende di Dino, un artista spiantato che dipinge quadri astratti e vive in uno studio di via Margutta, in pieno centro di Roma, dove la sua vita sembra crogiolarsi in una monotonia esasperante; finché a spezzare la sua ripetitività quotidiana arriva Cecilia, una ragazza molto giovane ma anche molto distaccata, che sembra vivere in una sua irrealtà parallela; proprio il suo carattere chimerico e sfuggevole attrae irresistibilmente Dino in un vortice auto-distruttivo che lo spinge fino a tentare un improbabile suicidio. Nel secondo, invece, si narrano le vicende di Giovanni Drogo, che un giorno parte da casa e in un viaggio quasi onirico fino ai confini del mondo giunge alla fortezza Bastiani; in questo avamposto per un oltre imprecisato, completamente abbandonato in mezzo al deserto, attendendo chissà quali audaci imprese intrappolato nel grigiore dell'ambiente militaresco, il protagonista consuma i suoi giorni in un'attesa surreale; alla fine qualcosa si muove dal deserto, ma Giovanni non fa in tempo a prendervi parte, poiché solo come un cane trova la morte in una locanda mentre è sulla via di ritorno verso casa.
Il tempo, sempre e solo esso, è l'ossessione nonché il Tiranno degli uomini. Nessun uomo può fare a meno d'interrogarsi sul senso ultimo di ogni suo agire, prescindendo dalla propria inaccettabile condizione di finitezza, che pur dev'essere accettata. In questo senso, la noia e l'attesa non sono che le due facce della stessa medaglia. Sia che si trascorra il tempo in un'interminabile noia come Dino nel suo studio di via Margutta, o sia che lo si trascorra in una paziente attesa come Giovanni nella fortezza Bastiani, il risultato è sempre lo stesso: l'inadeguatezza a vivere la propria temporalità! Chi è il malinconico, del resto, se non colui che avverte più di ogni altro una nostalgia verso qualcosa che lui sa essere irrimediabilmente perduto, ma che tuttavia non può fare a meno di vagheggiare?! Tristano non prova nostalgia per la sua Isotta, o meglio lei è solo l'incarnazione del suo scollamento. Infatti ciò che rode Tristano è un “tarlo”, che gli ricorda incessantemente il suo essere limitato e questa sua limitatezza insopportabile è ciò che lo distrugge e lo divora, a poco a poco. Proprio per questo Tristano può venire usato come paradigma per spiegare l'insanabile lacerazione di fondo che contraddistingue l'uomo moderno: malato di noia, che si sente continuamente inadeguato, qualunque cosa faccia. Cosa volete che sia una misera vita umana nell'arco dell'eternità? Un nonnulla insignificante!
L'uomo-moderno, il Tristano che è in ognuno di noi, spesso ci impedisce di vivere e apprezzare a pieno quell'insondabile mistero che è la vita umana, la quale va vissuta malgrado la sua insensatezza. Del resto il senso è l'impronta che noi diamo alle nostre vite; solo facendo delle scelte, grandi o piccole che siano, noi acconsentiamo a dar loro un senso o un'impronta. Non ci è dato sapere se dopo questa vita terrena ci attende davvero una ben più radiosa e felice vita ultraterrena, quel che sappiamo però è che scegliendo la Vita contro la Morte – titolo di un celebre saggio di Norman Brown – potremo rendere altrettanto radiosa e felice la nostra limitata, ma pur sempre certa, esistenza terrena. Contributo fondamentale al raggiungimento di quest'insperata condizione di felicità è l'amore inteso come Agape, che non va però confuso come qualcosa di totalmente svincolato da Eros. Essi, infatti, formano un tutt'uno inscindibile laddove Eros è giusto il primo livello necessario per accedere al livello superiore costituito da Agape. Tuttavia senza l'uno non ci è dato neppure l'altro: la ragione è nulla senza la passione, o per meglio dire essa non è che una passione soltanto più ragionata. In definitiva poco importa se ci si sposi o meno, l'importante è che ci si ami davvero in uno degli innumerevoli modi con cui ci è dato amare. Miglior cosa ancora sarebbe potersi amare memori dell'insegnamento del mito di Tristano e Isotta, i quali non seppero andare oltre i “fantasmi di Eros”...

10.7.07

Il male dell'Occidente

di Marco Apolloni

La semplice-presenza, diremmo con Heidegger, è nemica degli amanti. Cosa vuol dire questo? L'amore o meglio la malattia d'amore per eccellenza, la melanconia, può realizzarsi soltanto nell'assenza dell'oggetto amato. Poiché il desiderio non è più tale se viene consumato, deve protrarsi il più a lungo possibile, solo rimandandolo di continuo si può provare tanto più piacere. Tristano e Isotta, d'altronde, non si amano per il semplice fatto di possedersi; o meglio il loro possedersi non è legato tanto a un mero atto di congiunzione carnale, bensì proprio perché questo è insoddisfacente loro cercano un possesso superiore e oseremmo dire trascendentale, poiché trascende dalla materia fisica. Perciò il loro amore metafisico può in un certo senso essere il paradigma stesso della metafisica occidentale.
Come ha mirabilmente evidenziato Giorgio Agamben nel suo saggio Stanze: la fantasmagoria è l'elemento predominante dell'Eros unita anche alla componente pneumatica – da pneuma: soffio caldo proveniente dall'anima, che si manifesta durante il coito nello sperma. Per fantasmagoria, in particolare, s'intende quel continuo ritrarsi dell'oggetto amato, che per questo viene tanto più vagheggiato, nonostante il suo essere totalmente irreale. I due casi emblematici in questo senso sono: Narciso, che desidera ardentemente tuffarsi nella sua immagine riflessa nell'acqua, e Pigmalione, che vorrebbe stringersi in un abbraccio amoroso con la nuda statua di pietra da lui plasmata. Dunque: sottrazione, negazione, infelicità sembrerebbero essere le costanti dell'equazione costituente l'amore occidentale. Invece che essere un qualcosa di più, l'amore è propriamente un qualcosa di meno; negandosi si rende accessibile pur nella sua inaccessibilità di fondo; la sua sola eterna condizione può essere l'infelicità. Se da questa preferenza masochistica per l'infelicità si dovesse leggere il futuro dell'Occidente, temiamo che esso avrebbe ben poche possibilità di rigenerazione e comprensibile sarebbe a questo proposito il perenne stato di guerra – poiché la guerra è soltanto una delle innumerevoli manifestazioni del distruttivo amor-passione, vedi De Rougemont – che ha condizionato gli ultimi secoli della nostra storia.
La storia dell'amore, dunque, sembrerebbe ripercorrere per intero la storia dell'Occidente; tanto che queste due storie comparate sembrerebbero come intrecciarsi in un connubio inestricabile. La brillante intuizione di Denis de Rougemont nella sua opera L'amore e l'occidente è stata precisamente quella di aver saputo scovare, nel mito di Tristano e Isotta, la fondazione della metafisica occidentale. Il mito, originariamente custodito nel segreto, in realtà è un lascito del mondo pagano originatosi come reazione e perciò, in opposizione, all'istituzione artificiale del matrimonio cristiano. Nel secolo decimosecondo sia i trovatori, con la loro lirica cortese professante il culto della Dama, che i catari – detti poi anche albigesi –, con la loro eresia che riportò in voga altre due potenti e precedenti eresie – quali quella manichea e quella gnostica –, s'impossessarono del mito dei due amanti sfortunati e lo diffusero in tutti gli ambiti della società. Tant'è che la loro opera di consolidamento del mito tuttora sopravvive nella produzione artistica-letteraria contemporanea, come scadimento del mito originario stesso. La concezione catara, recuperando quella già appartenuta alla gnosi, è che un Dio sommamente buono non avrebbe potuto creare questo infimo mondo, attraversato e dominato dalle forze del maligno. Di conseguenza, quest'opera degradata è stata prodotta da un Arconte – divinità inferiore, vendicativa e sanguinaria. Da questa particolare concezione religiosa – nota a molti come sorta di marcionismo culturale – ha avuto origine il deprezzamento del corpo e la successiva elevazione dell'anima, nella quale sarebbe contenuta la scintilla divina che è il segno distintivo con cui ci ha marchiato la divinità superiore. Di riflesso la poesia medievale, soprattutto – come già detto – la lirica cortese, ha contribuito a svilire la componente carnale dell'atto amoroso, nobilitando l'omaggio del cavaliere verso la sua Dama – promettendole eterna fedeltà –, anche se questo spesso significava un amore viziato in partenza dall'infelicità propria di ogni spossessamento – già, perché, vagheggiando il possesso della persona amata, nell'individuo si produce un inevitabile frattura che lo conduce ad un graduale spossessamento di sé.
Una tipica prova alla quale si sottoponevano gli amanti dell'epoca era giacere a letto completamente nudi senza tuttavia sfiorarsi in alcun modo, resistendo agli impulsi più irrefrenabili della loro debole carne, che veniva pertanto mortificata. Questi comportamenti ci rimandano ad una certa concezione orientale dell'amore nota come tantrismo che consiste, appunto, nel rimandare interminabilmente il godimento per accrescere a dismisura il paradisiaco piacere finale. Oppure ai precetti dati dal grande legislatore spartano, Licurgo, ai giovani amanti di Sparta, cioè di contenere il più a lungo possibile il piacere in modo tale da ricavare un'intensità maggiore nel momento del concepimento e ottenere così una prole più vigorosa. Emblematica è la scena nel romanzo di Bédier in cui i due amanti si trovano a giacere nudi e divisi da una spada nella foresta del Morois. Re Marco, sopraggiunto nel luogo, non riesce a non provare tenerezza per quei due e per questo li perdona – vedi la spada posta fra due corpi: simbolo di castità.
La struttura del mito di Tristano e Isotta è servita da capostipite per tutta la letteratura occitanica di stampo amoroso. Il ménage à trois, ovvero il desiderio mimetico girardiano è ciò che caratterizza tutta la produzione letteraria e non solo d'Occidente. Esso consiste nel fatto che un soggetto A desidera un altro soggetto B solo perché quest'ultimo è desiderato da un altro soggetto C. Rifacendoci al mito: Tristano è attratto da Isotta proprio perché re Marco è anch'egli attratto da lei. Più che il filtro d'amore, usato solo come pretesto, è il desiderio mimetico a far desiderare Isotta la Bionda a Tristano. Essi, infatti, non amano per amarsi ma amano per poter amare. Parafrasando potremmo dire: l'amour pour l'amour! Il loro amore non è azione, bensì è agito. È il prodotto di una suggestione – seppur amorosa, glielo concediamo –, però prodottasi unicamente nella loro mente. E in ciò almeno hanno ragione a dar la colpa al filtro, solo che esso non è la bevanda magica da loro scolata in un momento di arsura. Ciò che loro inseguono e non potranno mai raggiungere è il fantasma della loro mente. Proprio in questo consiste il ruolo giocato dalla fantasmagoria in amore. Infatti il loro amore, per chissà quali strane combinazioni alchemiche, si accende maggiormente proprio con l'assenza dell'oggetto amato. Già, perché solo quando esso non c'è il soggetto innamorato lo desidera e vagheggia tanto più ardentemente.
Aveva capito questo intricato meccanismo Sigmund Freud, argomentandolo da par suo nel saggio Lutto e malinconia. Qui lui rintraccia nel soggetto malinconico la medesima inclinazione comportamentale di un soggetto vittima di un lutto. A pensarci bene, infatti, anche per il malinconico si produce quel sentimento pervasivo noto come mancanza, con l'unica eccezione che costui non ha la benché minima intenzione di elaborare la propria malinconia – solo il lutto può venire elaborato, cioè superato consapevolmente dopo un ragionevole lasso di tempo. Sempre Freud in questo suo breve saggio evidenzia come nel soggetto malinconico non vi sia più alcuna spinta all'auto-conservazione. Appunto per questo il malinconico può essere considerato un nichilista viscerale, che desidera sopra ogni altra cosa il nulla, ovvero il totale annichilimento del proprio essere. La morte luminosa è il faro che intravede all'orizzonte Tristano prima di esalare il suo ultimo respiro. Il trionfo della Morte sulla Vita è dunque il nichilistico manifesto del mito di Tristano e Isotta. Tale trionfo è ben testimoniato, d'altronde, dal rovo sepolcrale che unisce i due tormentati amanti, che sembrano aver trovato pace giusto nell'ora della loro morte.
Il desiderio di morte, l'abisso vertiginoso che tutto inghiotte, questa sembrerebbe essere la più autentica natura dell'Amore e di conseguenza dell'Occidente. Al desiderio del nulla di Tristano si oppone unicamente il contraltare di Don Giovanni. Tuttavia per entrambi non si può parlare di un amore sano ed equilibrato. Se per l'uno vi è l'amore infinito per una sola donna, per l'altro non vi può che essere un affannarsi disperato di donna in donna per ricercare un amore mai del tutto appagante. Poi ancora se nel primo vi è un'eccessiva idealizzazione della donna amata, nel secondo, invece, vi è una altrettanto eccessiva strumentalizzazione della donna nelle sue molteplici manifestazioni. Comunque la si rigiri, il centro e il fulcro di tutto è sempre e solo lei: la Donna esaltata o screditata. Per il cristianesimo è il simbolo del peccato originale e del successivo declassamento della razza umana agli occhi di Dio. Per la gnosi è la Pistis Sophia, l'unica speranza di spiritualità e di salvezza per l'intero genere umano. Come uscire da questo circolo vizioso? Semplice: impossibile! Ci viviamo dentro, perciò, non esiste alcuna via di fuga...

4.7.07

La vicenda romanzata di Tristano e Isotta

di Marco Apolloni

Esistono numerose fonti che celebrano le gesta dei due amanti più famosi d'Occidente: Tristano e Isotta. Tuttavia qui prenderemo in considerazione la summa di tutta la leggenda compiuta dal filologo francese Joseph Bédier intitolata appunto Il romanzo di Tristano e Isotta, che ha saputo miscelare le tre versioni classiche di Béroul, Tommaso e Goffredo.
Già la venuta al mondo di Tristano lascia presagire un'esistenza tribolata, il suo nome infatti gli viene dato dalla sua morente madre Biancofiore. Orfano sia di madre che di padre (il re Rivalen di Leonis, ucciso dal feroce Morgano), Tristano viene cresciuto da Roalto: fedele vassallo di suo padre. Questi a sua volta lo affida alle cure del saggio scudiero Governale, che lo inizia ai segreti della cavalleria e della cortesia.
Le avventure di Tristano iniziano con il suo rapimento ad opera di pirati norvegesi, i quali però lo abbandonano ai flutti per paura di attirarsi la malevolenza divina. Miracolosamente il prode Tristano riesce a trarsi in salvo e sbarca su una costa a lui sconosciuta. Qui, durante una battuta di caccia – arte di cui lui è un fine conoscitore –, s'imbatte negli uomini di re Marco di Cornovaglia, che è oltretutto suo zio in quanto fratello della sua defunta madre Biancofiore.
Re Marco accoglie Tristano nella sua reggia di Tintoille e pur non conoscendone la vera identità nutre ugualmente per lui, sin da subito, una speciale venerazione. Infine, una volta scoperta la verità sul conto di Tristano, lo abbraccia definitivamente come suo legittimo nipote. Tristano si guadagna in breve tempo l'amicizia del siniscalco di corte, Dinasso di Lidan, e dalla sua terra, Leonis, fa richiamare al suo servizio il fido Governale.
Tuttavia la vita di corte per lui è piena d'insidie: quattro baroni – Andretto, Ganelone, Gondoino e Denoalen – non lo vedono di buon occhio, anzi scorgono in lui una vera e propria minaccia per la futura successione al trono di re Marco, ancora senza prole.
Un giorno approda in Cornovaglia un gigantesco cavaliere per reclamare, da parte del suo re, il tributo dovutogli di cinquecento tra giovanetti e giovanette indigene. Nessuno osa levare la propria voce contro l'ingiusta pretesa dell'Amoroldo – questo è il suo nome –, tranne il coraggioso Tristano, il quale sprezzante del pericolo lo sfida a singolar tenzone. Il caso vuole che nell'isola di San Sansone – luogo destinato alla sfida – Tristano abbia la meglio sul campione d'Irlanda. Ferito da una punta di spiedo avvelenata, egli fa ritorno presso la corte di re Marco. Nessuno pare in grado di poter curare la sua ferita, così dopo aver molto insistito, Tristano prega lo zio di lasciarlo fluttuare nel vasto mare, con la speranza – ultima a morire – di trovare un luogo dove poter ricevere le cure necessarie.
In simili pietose condizioni lui approda nel porto irlandese di Weisefort, dove ottiene le cure miracolose della “maestra di filtri”: Isotta la Bionda, principessa d'Irlanda. Tristano per non farsi riconoscere da tutti come l'uccisore dell'Amoroldo, nonostante sia già sufficientemente irriconoscibile a causa del veleno, usa tutta la sua astuzia spacciandosi per un giullare naufragato in quei lidi.
Una volta ritornato in patria, Tristano si trova a dover fronteggiare l'ostilità dei soliti quattro baroni, che gettano discredito sulla sua persona. Addirittura essi insinuano il dubbio che lui sia una specie di stregone, perché solo così sarebbe riuscito a curare la sua altrimenti letale ferita. Costoro inoltre, timorosi che, una volta morto il re suo zio, Tristano salga sul trono di Cornovaglia, si premuniscono come possono: consigliano al re di prender moglie e di assicurarsi degna progenie. Re Marco sulle prime si mostra restio all’idea, poi però un giorno due rondini conducono alla sua finestra un sottile capello biondo. Sicché re Marco, cambiando parere, rivela ai suoi cortigiani che avrebbe sposato soltanto colei a cui apparteneva quel luccicante capello biondo.
Tristano, per affetto verso suo zio, si mette quindi alla ricerca della sua futura regina: arma una flotta e nuovamente approda nelle coste irlandesi. Qui dimostra ancora una volta tutto il suo valore, uccidendo il drago che flagella questa terra – analogie con il Beowulf –, per ottenere la lauta ricompensa: la mano della principessa Isotta la Bionda. Come prova del suo eroismo Tristano strappa la lingua del drago e se la infila nel suo calzare. Tuttavia Aguingherrando, il siniscalco di corte, quando apprende la notizia dell'uccisione del drago – con il quale lui per codardia non era mai riuscito a battersi – lo decapita e ritorna presso la corte per chiedere la mano d'Isotta la Bionda, fingendosi uccisore dello sputafuoco. La principessa, che detesta Aguingherrando, si fa accompagnare fino alla tana del drago dal suo fedele valletto Perinis e dalla sua serva di fiducia Brangiana. Qui Isotta scopre la verità, rinvenendo il vero eroe: Tristano.
Di nuovo ferito in combattimento il valoroso cavaliere viene per la seconda volta curato da costei, che però stavolta non si lascia ingannare e riconosce la lama dell'uccisore dell'Amoroldo. Infuriata Isotta tenta di ottenere vendetta con la stessa lama, ma l'abile-oratore Tristano riesce a persuadere la principessa dal suo intento omicida.
Il giorno dell'assemblea dei baroni, Tristano fa valere i suoi diritti su Isotta la Bionda, come vero uccisore del drago. Per codardia Aguingherrando si fa indietro e riconosce di non essere lui a meritare la mano della bella principessa. Ed è così che Tristano propone un accordo al re d'Irlanda: ovvero combinare un matrimonio tra il re di Cornovaglia e la principessa d'Irlanda, in modo tale da sancire una duratura pace tra i due regni a lungo in conflitto. Isotta, sentendosi tradita, detesta sinceramente Tristano, che la conduce come prezioso bottino in Cornovaglia per darla in sposa a suo zio.
È durante il viaggio di ritorno, in alto mare, che si compie il destino di Tristano e Isotta. La madre-regina di costei, infatti, ha lasciato l’incarico alla serva Brangiana di far bere ai due novelli sposi un filtro magico, che sarebbe servito a legarli per sempre. Il caso vuole, però, che Brangiana distraendosi non si accorge che Tristano e la stessa Isotta bevono sciaguratamente il filtro, credendolo bevanda dissetante. Questo tragico malinteso è all'origine della tragedia dei due, che da quel momento in avanti diventano segreti amanti e vengono, a poco a poco, consumati dal divorante fuoco della passione. Combattuto tra la lealtà incondizionata per il suo re e l’amor-passione per la sua Isotta, Tristano si tormenta continuamente e trova consolazione solo nel fatto che un artifizio – il filtro appunto – è la causa del suo indicibile travaglio.
Intanto i baroni spiano i due amanti e decidono d’incastrarli avvalendosi delle doti profetiche del nano Frocin. Questi tende un’astuta trappola con la farina, nella quale Tristano cade grondante di sangue da una ferita, facendo così scoprire la tresca amorosa all’incredulo re Marco. Il re infuriato con la moglie e il nipote, senza nemmeno dar loro la possibilità di difendersi equamente, ordina che vengano giustiziati. Tristano con l’aiuto della Provvidenza, riesce a scampare al rogo per lui allestito dal re, saltando da una cappella diroccata. Isotta invece viene condotta innanzi alle fiamme e nonostante l’intercessione di Dinasso di Lidan in favore dei due amanti, che a suo dire non possono venire giustiziati senza un equo processo, la sorte della giovane principessa sembra ormai segnata. Finché una schiera di lebbrosi, capitanati da un certo Ivano, non persuade re Marco che una morte immediata per la regina sarebbe troppo poco, piuttosto ella meriterebbe una lenta agonia stretta fra le loro piaghe purulente. Il re, accecato dalla rabbia, acconsente e gliela affida. I lebbrosi trionfanti si allontanano con la loro ambita preda, ma non possono prevedere due ostacoli che si frappongono al loro cammino: Tristano e Governale. I due riescono a togliere Isotta dalle grinfie dei lebbrosi e durante il combattimento Governale frantuma il cranio dell’abnorme Ivano.
È qui che ha inizio un periodo relativamente felice per i due amanti, nella foresta del Morois, dove rei del loro tradimento cercano e trovano riparo dalla loro innocente colpa. Qui i due incontrano Frate Ogrin, a cui raccontano la loro innocenza di fronte all’Onnipotente, poiché è a causa del filtro se il loro amore è sbocciato. Successivamente Tristano e Isotta vengono scovati nel sonno da un boscaiolo, che corre subito ad avvertire il re. Questi accorso sul posto nota che i due dormono separati da una “spada nuda” – simbolo di castità – posta tra i loro corpi e senza toccarsi con le labbra, fintanto che non sembrano affatto degli amanti. Così decide di graziarli e sostituisce la sua spada a quella di Tristano, per testimoniare il suo passaggio e il suo ripensamento. Al loro risveglio i due si accorgono del mutamento di sentimenti nell’animo travagliato del re e grazie all’intercessione di Frate Ogrin si ricongiungono finalmente con il loro amato sovrano, non più in collera con loro. Tuttavia la riconciliazione finale tra Tristano e re Marco viene procrastinata ancora una volta dai baroni, che temono la ripicca del principe e lo fanno esiliare dal reame di Cornovaglia. Nel frattempo Isotta viene ristabilita come legittima sovrana.
Un giorno il re torna furibondo da una battuta di caccia e rivela ad Isotta che ha scacciato dalla sua corte i baroni traditori, perché ancora una volta essi hanno osato infangare l'onorata reputazione della sua sposa. A questo punto Isotta per fugare qualunque insinuazione, decide di sottoporsi di sua spontanea iniziativa alla prova del ferro rovente e chiede a re Marco di avere come garante nientemeno che re Artù. Venuto a conoscenza del coraggio della regina, Tristano, segretamente ospitato dall'amico Dinasso, corre in suo soccorso e l'aiuta a sostenere la prova. La regina, al cospetto dei due sovrani, promette solennemente davanti a Dio che nessuno l'ha mai cinta fra le braccia all'infuori di suo marito, il re, e del mendicante (Tristano travestito) che l'ha appena sorretta durante la traversata del fiume – per impedirle di bagnarsi le vesti. Il trucco funziona a meraviglia e Isotta supera immune la prova.
Dopo varie vicissitudini avventurose Tristano si trova in Bretagna e qui partecipa attivamente alla difesa del castello di Carhaix, assediato dal conte Riol. Questi si era ribellato al duca di Hoel poiché in precedenza costui si era rifiutato di dargli in sposa sua figlia Isotta dalle Bianche Mani. Qui Tristano stringe una proficua amicizia con il principe Caerdino, figlio del duca e fratello dell'altra Isotta decantata come “la semplice, la bella”. Al solo sentire il nome “Isotta” Tristano si figura che si tratti della sua amata perduta e perciò acconsente a sposarla. Queste nozze non serviranno, tuttavia, a placare il vortice auto-distruttivo che l'amor-passione riserva per Tristano. Egli si tormenta per aver sposato Isotta dalle Bianche Mani, a tal punto che a letto non le si concede inventandosi una fasulla scusa. Durante una battuta di caccia nei boschi alla sposa di Tristano sfugge una maliziosa battuta riguardante uno schizzo d'acqua dello stagno, che a detta sua sarebbe assai più audace del suo sposo. Suo fratello Caerdino insospettito, la interroga finché non viene a sapere del matrimonio non consumato fra l'amico e la sorella. Questi, poi, infuriato chiede di riscattare l'onore della sorella in duello. Tristano non solo non acconsente, ma gli racconta la sua sfortunata vicenda amorosa. Caerdino commosso dall'appassionata – dunque sofferente – storia d'amore tra Tristano e Isotta la Bionda, non solo perdona l'amico ma pure si presta ad accompagnarlo in patria, a rivedere la sua Dama tanto sospirata – che, intanto, non lo ha per nulla dimenticato.
Proprio mentre i due amanti si rinnovano giuramenti d'eterna fedeltà, il loro amore disperato – nel senso che è “senza speranza” – si approssima alla Fine, irrefutabile e drammatica. D'altronde, con una storia come la loro, non poteva succedere altrimenti. Tristano, infatti, agonizzante – a causa di una ferita prodottasi in combattimento – chiede un ultimo favore all'amico Caerdino: andare a Tintoille a chiedere il soccorso della regina, l'unica in grado di rimarginare ogni tipo di ferita. Caerdino e Tristano si accordano che se il primo farà ritorno in Bretagna con la regina, navigherà con una vela bianca o altrimenti, se lei non ci sarà, con una vela nera. Isotta dalle Bianche Mani, moglie di Tristano, origliando la conversazione tra i due dapprima si sconcerta e poi decide di vendicarsi. Vendetta la sua che trova compimento quando lei, mentendo, dice a Tristano di vedere all'orizzonte una barca che ha issata una vela nera. Lui, credendosi perduto, si lascia morire. Di lì a poco la stessa sorte beffarda tocca a Isotta e così il vortice distruttivo, innescato dalla loro passione, trova proprio nell'im-possibilità della morte la sua unica possibilità...
Nel testo di Bédier si legge il commovente epilogo della loro storia:


Quando il re Marco apprese la morte dei due amanti, passò il mare e, venuto in Bretagna, fece lavorar due bare, una di calcedonio per Isotta, l'altra di berillo per Tristano. Egli portò sulla sua nave verso Tintoille i loro cari corpi. Presso una cappella, a sinistra e a destra dell'abside, li seppellì in due tombe. Ma, durante la notte, dal sepolcro di Tristano germogliò un rovo verde e fronzuto, dai forti rami, dai fiori odoranti, che, innalzandosi sopra la cappella, s'insinuò nel sepolcro d'Isotta. La gente del paese tagliò il rovo: il dì appresso esso rinacque, altrettanto verde, altrettanto fiorito, altrettanto vivace e di nuovo s'immerse nel letto d'Isotta la Bionda. Tre volte vollero distruggerlo; invano. Infine, essi riferirono il prodigio a re Marco: il re vietò di tagliare il rovo.1


***


1 Bédier, J., Il romanzo di Tristano e Isotta, TEA, Milano, 1988.

1.7.07

"Palomar" di Italo Calvino

di Paolo Musano

Allora, da dove cominciare. Ho appena bevuto una tazzina di caffè, leggendo qualche capitolo di "Palomar". Il libro di Calvino, inaspettatamente, mi sta facendo mettere in discussione molti miei atteggiamenti. Una volta facevo delle mie letture ricercate e solitarie un vanto e una virtù e non davo troppo peso al fatto che a rimetterci erano altri aspetti della mia vita non meno importanti, come gli affetti e le relazioni sociali. Avevo un'idea sbagliata della profondità e della saggezza che era nutrita della mia presunzione e dei miei pregiudizi, il più delle volte inconsapevoli. Adesso, alla luce anche di cose che mi sono successe e che prima o poi racconterò, ho capito che la conoscenza, anche se assunta per via intuitiva, deve essere sempre frutto di un processo, deve essere elaborata, masticata, digerita e solo dopo assimilata. Credendomi chissà perchè quale raffinatissima intelligenza, tendevo ad abbuffarmi di concetti, saltando tappe fondamentali, nell'illusione di avere delle solide fondamenta. Beh, ho capito che quelle fondamenta non erano solide affatto ed anzi il terreno nel quale affondavano era pure franoso. Il rendersi conto di questo significa pesare bene i propri passi e soprattutto essere umili. Soltanto adesso ho capito che la corazza di mio padre non è nè superficialità nè insensibilità, ma una forma speciale di carattere che chiamare "ottimismo" sarebbe riduttivo. E capisco anche cosa vuol dire Wayne Dyer quando afferma che l'intelligenza è "la capacità di essere felici". Tempo fa mi sembrava una frase scontata: avevo le mie definizioni astratte, ma ora trovo che la sua sia la migliore definizione. Tutto il succo di questo discorso lo si trova in "Palomar" di Calvino: il protagonista apparentemente è freddo e superficiale. E' uno che si limita a osservare gli oggetti alla ricerca di chissà che cosa. Andando avanti nella lettura la nostra visione stereotipata si capovolge, e ci accorgiamo che Palomar è un individuo estremamente sensibile che nel suo modo particolare di rapportarsi al mondo cerca la via migliore per arrivare alla saggezza, all'essenza ultima. Più o meno consapevolmente si rende conto che non si può conoscere l'interno delle cose se non si è esaurita prima la loro superficie, ma la superficie è inesauribile. E' una verità paradossale (e per questo molto sensata) che si chiarisce nel passo che dice: l'universo è lo specchio in cui possiamo contemplare solo ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi.