di Marco Apolloni
Amori eterni come quello di Tristano e Isotta, che trovano proprio nella morte degli amanti la sublimazione finale del loro amore malato, sono un'infelice rarità. La norma, molto meno romantica, c'insegna pragmaticamente che molti amori finiscono. Dunque l'amore non è eterno, ma l''eterna bugia che ci fa credere il contrario è dura a morire. Molta colpa della cristallizzazione dell'inganno secondo cui gli amori non finiscono e anzi sembrerebbero sublimarsi, per chissà quale strana alchimia, nella morte di uno dei due amanti o di tutti e due insieme, va data al romanticismo. I poeti romantici con le loro tragiche e tribolate storie d'amore ci hanno lasciato una pesante eredità: la morte è il viatico per accedere all'etereo e iperuranico paradiso degli amanti. Che si tratti del giovane Werther o dello Jacopo Ortis, la sostanza non cambia: un amante fedele compie con il proprio suicidio un estremo e inconfutabile gesto di devozione alla propria amata. Poco importa se questa amata, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, è soltanto un fantasma della mente, o meglio è l'immagine – in bianco e nero – della propria amata, filtrata come si suol dire: con gli occhi del cuore. Ancora prima del romanticismo, nel Medioevo numerosi letterati ci hanno tramandato l'idea dell'amore disincarnato, quindi per meglio dire dell'amore mentale – poiché, innanzitutto, prodotto eminente della propria mente. Da Dante che ha escogitato la sua donna angelica, Beatrice, ad Abelardo che ha trasposto su di un piano superiore – oseremmo dire trascendentale – l'amore carnale che c'era stato tra lui e la sua allieva Eloisa – quest'ultima si era addirittura definita in una lettera all'amato: la sua «puttana».
Dunque da questo quadro perfettamente organico emergerebbe il ruolo marginale avuto dall'eresia catara e dalla lirica trobadorica sull'affermazione del mito romantico degli amanti infelici. A contestare la tesi rougemontiana ci ha pensato il filologo Corrado Bologna, che viene ripreso e argomentato nel saggio dell'antropologo Franco La Cecla dal titolo emblematico Lasciami. Secondo entrambi il ruolo dominante nell'affermazione del nefando amor-passione declinato da Stendhal, l'hanno avuto sia gli umanisti medievali che poi, in un secondo momento, i poeti romantici – in particolare del romanticismo tedesco. Questi ultimi hanno avuto come loro bersaglio polemico la Francia illuminista, che con la livella della ragione ha voluto appiattire quel «di più» – per dirlo con il sommo Goethe – costituito dal sentimento e in special modo dal sentimento più nobile e autentico che vi sia: l'Amore! Filosoficamente si potrebbe obiettare, reduci dell'insegnamento aristotelico, che la verità sia confinata nel mezzo, ovvero: il più saggio degli amori – anche se saggezza e amore difficilmente possono venire abbinati insieme – o perlomeno il più equilibrato, dev'essere né troppo razionale e nemmeno troppo irrazionale. Spesso e volentieri, però, le risposte che ci dà la filosofia – compresa quella, seppur lungimirante, aristotelica – risultano alla prova dei fatti non del tutto soddisfacenti. Difatti è statisticamente provato quanto sia più probabile aspettarsi una seconda venuta del Messia che ottenere un amore saggio o equilibrato che sia. Eppure una corretta prassi – ossia la filosofia che si fa pratica – nei casi d'amore c'invita a non disperare totalmente e a credere che sia ancora possibile un galateo nei rapporti amorosi, ivi compreso in quel crudele quanto inevitabile atto del lasciarsi. Questa teoria fa da coda all'interessante saggio già menzionato, Lasciami (La Cecla, 2003).
Sembra assurdo, con tutti i problemi che ci sono al mondo, che un nuovo galateo degli addii e delle uscite (un galateo che ne preveda le sfumature e che distingua i cordogli dai passaggi, i lutti da morte dai lutti da piccole morti e resurrezioni necessarie) debba essere considerato urgente. Può sembrare assurdo però solo a chi è convinto che l'amore sia un valore da tenere nascosto dentro i serial televisivi e nella rubrica della posta del cuore [...] La «posta» che il cuore mette in ballo, invece, è una posta ben più alta. Sono in gioco tutte le vibrazioni, la costellazione delle emozioni e delle compassioni. Speriamo che un nuovo Signore o un nuovo Buddha della Compassione ci protegga e ci insegni daccapo ad amare.[1]
Un filosofo che può qui venirci in aiuto è Eraclito, con il suo felice motto: Panta rei, Tutto passa. Chissà, se Tristano e Isotta avessero prestato fede all’insegnamento eracliteo a quest'ora probabilmente non si starebbe qui a discutere e meditare sul loro travagliato amore, di cui tanti – forse anche troppi – hanno cantato le lodi e le infamie, a seconda. In definitiva noi non sappiamo se De Rougemont abbia avuto ragione o meno nel rintracciare nell'infausta vicenda dei due amanti infelici, il mito fondatore della letteratura amorosa in Occidente. Quel che sappiamo, però, è che in una maniera o nell'altra tale mito ha influito e tuttora influisce sulle mille pieghe della nostra società occidentale e come puntualizza l'antropologo La Cecla anche in quella orientale, portando l'esempio di altri due sfortunati amanti quali Leyla e Majnun (la cui vicenda è stata riportata dal grande Nezãmî nel 1188). Perciò, visti e soppesati gli esiti dello sconvolgente amor-passione, non resta che augurarci un avvenire meno turbolento e più raffreddato per gli amori. Parlare di raffreddamento, però, induce a pensare ad un'estinzione della fiammella della passione. Se questo appare il prezzo da pagare ai mali d'amore, non resta che interrogarci se sia troppo – o meno – un simile sacrificio. Ai posteri l'ardua sentenza…
[1] La Cecla, F., Lasciami, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.
Amori eterni come quello di Tristano e Isotta, che trovano proprio nella morte degli amanti la sublimazione finale del loro amore malato, sono un'infelice rarità. La norma, molto meno romantica, c'insegna pragmaticamente che molti amori finiscono. Dunque l'amore non è eterno, ma l''eterna bugia che ci fa credere il contrario è dura a morire. Molta colpa della cristallizzazione dell'inganno secondo cui gli amori non finiscono e anzi sembrerebbero sublimarsi, per chissà quale strana alchimia, nella morte di uno dei due amanti o di tutti e due insieme, va data al romanticismo. I poeti romantici con le loro tragiche e tribolate storie d'amore ci hanno lasciato una pesante eredità: la morte è il viatico per accedere all'etereo e iperuranico paradiso degli amanti. Che si tratti del giovane Werther o dello Jacopo Ortis, la sostanza non cambia: un amante fedele compie con il proprio suicidio un estremo e inconfutabile gesto di devozione alla propria amata. Poco importa se questa amata, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, è soltanto un fantasma della mente, o meglio è l'immagine – in bianco e nero – della propria amata, filtrata come si suol dire: con gli occhi del cuore. Ancora prima del romanticismo, nel Medioevo numerosi letterati ci hanno tramandato l'idea dell'amore disincarnato, quindi per meglio dire dell'amore mentale – poiché, innanzitutto, prodotto eminente della propria mente. Da Dante che ha escogitato la sua donna angelica, Beatrice, ad Abelardo che ha trasposto su di un piano superiore – oseremmo dire trascendentale – l'amore carnale che c'era stato tra lui e la sua allieva Eloisa – quest'ultima si era addirittura definita in una lettera all'amato: la sua «puttana».
Dunque da questo quadro perfettamente organico emergerebbe il ruolo marginale avuto dall'eresia catara e dalla lirica trobadorica sull'affermazione del mito romantico degli amanti infelici. A contestare la tesi rougemontiana ci ha pensato il filologo Corrado Bologna, che viene ripreso e argomentato nel saggio dell'antropologo Franco La Cecla dal titolo emblematico Lasciami. Secondo entrambi il ruolo dominante nell'affermazione del nefando amor-passione declinato da Stendhal, l'hanno avuto sia gli umanisti medievali che poi, in un secondo momento, i poeti romantici – in particolare del romanticismo tedesco. Questi ultimi hanno avuto come loro bersaglio polemico la Francia illuminista, che con la livella della ragione ha voluto appiattire quel «di più» – per dirlo con il sommo Goethe – costituito dal sentimento e in special modo dal sentimento più nobile e autentico che vi sia: l'Amore! Filosoficamente si potrebbe obiettare, reduci dell'insegnamento aristotelico, che la verità sia confinata nel mezzo, ovvero: il più saggio degli amori – anche se saggezza e amore difficilmente possono venire abbinati insieme – o perlomeno il più equilibrato, dev'essere né troppo razionale e nemmeno troppo irrazionale. Spesso e volentieri, però, le risposte che ci dà la filosofia – compresa quella, seppur lungimirante, aristotelica – risultano alla prova dei fatti non del tutto soddisfacenti. Difatti è statisticamente provato quanto sia più probabile aspettarsi una seconda venuta del Messia che ottenere un amore saggio o equilibrato che sia. Eppure una corretta prassi – ossia la filosofia che si fa pratica – nei casi d'amore c'invita a non disperare totalmente e a credere che sia ancora possibile un galateo nei rapporti amorosi, ivi compreso in quel crudele quanto inevitabile atto del lasciarsi. Questa teoria fa da coda all'interessante saggio già menzionato, Lasciami (La Cecla, 2003).
Sembra assurdo, con tutti i problemi che ci sono al mondo, che un nuovo galateo degli addii e delle uscite (un galateo che ne preveda le sfumature e che distingua i cordogli dai passaggi, i lutti da morte dai lutti da piccole morti e resurrezioni necessarie) debba essere considerato urgente. Può sembrare assurdo però solo a chi è convinto che l'amore sia un valore da tenere nascosto dentro i serial televisivi e nella rubrica della posta del cuore [...] La «posta» che il cuore mette in ballo, invece, è una posta ben più alta. Sono in gioco tutte le vibrazioni, la costellazione delle emozioni e delle compassioni. Speriamo che un nuovo Signore o un nuovo Buddha della Compassione ci protegga e ci insegni daccapo ad amare.[1]
Un filosofo che può qui venirci in aiuto è Eraclito, con il suo felice motto: Panta rei, Tutto passa. Chissà, se Tristano e Isotta avessero prestato fede all’insegnamento eracliteo a quest'ora probabilmente non si starebbe qui a discutere e meditare sul loro travagliato amore, di cui tanti – forse anche troppi – hanno cantato le lodi e le infamie, a seconda. In definitiva noi non sappiamo se De Rougemont abbia avuto ragione o meno nel rintracciare nell'infausta vicenda dei due amanti infelici, il mito fondatore della letteratura amorosa in Occidente. Quel che sappiamo, però, è che in una maniera o nell'altra tale mito ha influito e tuttora influisce sulle mille pieghe della nostra società occidentale e come puntualizza l'antropologo La Cecla anche in quella orientale, portando l'esempio di altri due sfortunati amanti quali Leyla e Majnun (la cui vicenda è stata riportata dal grande Nezãmî nel 1188). Perciò, visti e soppesati gli esiti dello sconvolgente amor-passione, non resta che augurarci un avvenire meno turbolento e più raffreddato per gli amori. Parlare di raffreddamento, però, induce a pensare ad un'estinzione della fiammella della passione. Se questo appare il prezzo da pagare ai mali d'amore, non resta che interrogarci se sia troppo – o meno – un simile sacrificio. Ai posteri l'ardua sentenza…
[1] La Cecla, F., Lasciami, Ponte alle Grazie, Milano, 2003.