18.7.07

Il matrimonio: panacea di tutti i mali?

di Marco Apolloni

Denis de Rougemont in conclusione al suo saggio L'amour et l'occident rintraccia proprio nella vecchia e desueta istituzione del matrimonio la sola panacea di tutti i mali d'amore, che da sempre affliggono la nostra mentalità occitanica. Ma come – verrebbe da chiedersi – proprio il matrimonio, che è all'origine della sollevazione dell'amor-passione, può davvero essere la risposta più efficace al problema? Secondo de Rougemont parrebbe di sì. L'Eros pagano trova per lui il solo auto-regolamento nell'Agape cristiana, ovvero l'amor-passione deve essere convertito in amore-razionale, poiché da solo il sentimento può fare ben poco se non è sorretto dalla solida guida della ragione umana. A nostro avviso, de Rougemont qui compie un vero e proprio salto all'indietro. Ci voleva un Jean-Jacques Rousseau per liberare il sentimento dalla schiavitù della ragione e quindi non ci voleva proprio un de Rougemont per rimettere in catene il sentimento esaltando l'asettica ragione...
Il Ginevrino ha approfondito, a modo suo, il tema dell'amor-passione nella Nouvelle Héloïse: nome che riecheggia l'eroina del celebre carteggio del filosofo e teologo francese Pietro Abelardo (1079-1142). Il Tristano e l'Isotta di turno sono rispettivamente: St. Preux e Julie. In breve, la tresca amorosa si basa anche qui sul consueto schema del ménage à trois: St. Preux, Julie e suo marito Wolmar. L'“occhio vivente” di Wolmar scruta e osserva i sentimenti dei due giovani, tentando un'encomiabile opera di manipolazione e conversione degli stessi sentimenti in semi – ben più edificanti – di ragionevolezza. All'inizio il saggio Wolmar sembra quasi riuscire nel suo intento, ma in un colpo di scena finale l'amor-passione consumerà la sua vendetta: trascinando la dolce Julie giù nel baratro sprofondante del maelstrom. La storia contiene in sé una precisa morale: nonostante tutta la buona volontà che ci si può mettere, non si può combattere la potenza oscura dell'amor-passione con l'arma inefficace della ragione. La triste vicenda di Julie c'insegna, dunque, come Eros trionfi su Agape, per l'ennesima volta.
Il pensiero di Rousseau è tutto incentrato sul voler ricondurre la ragione al sentimento e non viceversa. Proprio in ciò è consistita la sua straordinaria dote rabdomantica per il suo tempo, l'età dei lumi, che aveva esasperato a tal punto il concetto di ragione, fintanto da produrre di lì a poco il naturale e inevitabile iato del romanticismo – che esasperò a sua volta il concetto di passione. La grande innovazione introdotta dal Ginevrino è stata l'ideazione di una sorta di naturalismo o disciplina delle passioni, capace di distinguere una passione nociva da una, altresì, più genuina. In ciò consiste la differenza da lui individuata tra un “sentimento convenzionale”, sbagliato poiché innaturale, e un “sentimento naturale”, tanto più giusto proprio perché naturale. La naturalità secondo Jean-Jacques è la sola discriminante plausibile per disciplinare, ossia separare, ciò che in amore è soltanto convenzione da ciò che è invece puro istinto.
Secondo quest'ottica rousseauiana potrebbe sì andar bene il matrimonio come rimedio alle degenerazioni dell'amor-passione, purché però esso si basi su un sentimento autentico e non meramente convenzionale. Beh, a dire il vero, anche quest'ottica si trova a dover fronteggiare un male ben più insidioso dello stesso amor-passione, che è la noia – male prettamente dell'era moderna e che ha in Tristano il suo assoluto precursore. La noia – sulla quale non a caso hanno molto insistito scrittori e filosofi dell'esistenzialismo, da Kafka a Sartre – è la vera e propria “bestia nera” del nostro tempo. Essa si basa su una concezione tutta passiva della temporalità umana e si contrappone all'attesa messianica. Prendiamo due romanzi di quello che potremmo definire “esistenzialismo italiano”: La noia di Moravia e Il deserto dei tartari di Buzzati.
Nel primo si raccontano le vicende di Dino, un artista spiantato che dipinge quadri astratti e vive in uno studio di via Margutta, in pieno centro di Roma, dove la sua vita sembra crogiolarsi in una monotonia esasperante; finché a spezzare la sua ripetitività quotidiana arriva Cecilia, una ragazza molto giovane ma anche molto distaccata, che sembra vivere in una sua irrealtà parallela; proprio il suo carattere chimerico e sfuggevole attrae irresistibilmente Dino in un vortice auto-distruttivo che lo spinge fino a tentare un improbabile suicidio. Nel secondo, invece, si narrano le vicende di Giovanni Drogo, che un giorno parte da casa e in un viaggio quasi onirico fino ai confini del mondo giunge alla fortezza Bastiani; in questo avamposto per un oltre imprecisato, completamente abbandonato in mezzo al deserto, attendendo chissà quali audaci imprese intrappolato nel grigiore dell'ambiente militaresco, il protagonista consuma i suoi giorni in un'attesa surreale; alla fine qualcosa si muove dal deserto, ma Giovanni non fa in tempo a prendervi parte, poiché solo come un cane trova la morte in una locanda mentre è sulla via di ritorno verso casa.
Il tempo, sempre e solo esso, è l'ossessione nonché il Tiranno degli uomini. Nessun uomo può fare a meno d'interrogarsi sul senso ultimo di ogni suo agire, prescindendo dalla propria inaccettabile condizione di finitezza, che pur dev'essere accettata. In questo senso, la noia e l'attesa non sono che le due facce della stessa medaglia. Sia che si trascorra il tempo in un'interminabile noia come Dino nel suo studio di via Margutta, o sia che lo si trascorra in una paziente attesa come Giovanni nella fortezza Bastiani, il risultato è sempre lo stesso: l'inadeguatezza a vivere la propria temporalità! Chi è il malinconico, del resto, se non colui che avverte più di ogni altro una nostalgia verso qualcosa che lui sa essere irrimediabilmente perduto, ma che tuttavia non può fare a meno di vagheggiare?! Tristano non prova nostalgia per la sua Isotta, o meglio lei è solo l'incarnazione del suo scollamento. Infatti ciò che rode Tristano è un “tarlo”, che gli ricorda incessantemente il suo essere limitato e questa sua limitatezza insopportabile è ciò che lo distrugge e lo divora, a poco a poco. Proprio per questo Tristano può venire usato come paradigma per spiegare l'insanabile lacerazione di fondo che contraddistingue l'uomo moderno: malato di noia, che si sente continuamente inadeguato, qualunque cosa faccia. Cosa volete che sia una misera vita umana nell'arco dell'eternità? Un nonnulla insignificante!
L'uomo-moderno, il Tristano che è in ognuno di noi, spesso ci impedisce di vivere e apprezzare a pieno quell'insondabile mistero che è la vita umana, la quale va vissuta malgrado la sua insensatezza. Del resto il senso è l'impronta che noi diamo alle nostre vite; solo facendo delle scelte, grandi o piccole che siano, noi acconsentiamo a dar loro un senso o un'impronta. Non ci è dato sapere se dopo questa vita terrena ci attende davvero una ben più radiosa e felice vita ultraterrena, quel che sappiamo però è che scegliendo la Vita contro la Morte – titolo di un celebre saggio di Norman Brown – potremo rendere altrettanto radiosa e felice la nostra limitata, ma pur sempre certa, esistenza terrena. Contributo fondamentale al raggiungimento di quest'insperata condizione di felicità è l'amore inteso come Agape, che non va però confuso come qualcosa di totalmente svincolato da Eros. Essi, infatti, formano un tutt'uno inscindibile laddove Eros è giusto il primo livello necessario per accedere al livello superiore costituito da Agape. Tuttavia senza l'uno non ci è dato neppure l'altro: la ragione è nulla senza la passione, o per meglio dire essa non è che una passione soltanto più ragionata. In definitiva poco importa se ci si sposi o meno, l'importante è che ci si ami davvero in uno degli innumerevoli modi con cui ci è dato amare. Miglior cosa ancora sarebbe potersi amare memori dell'insegnamento del mito di Tristano e Isotta, i quali non seppero andare oltre i “fantasmi di Eros”...

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