di
Marco Apolloni Le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann Premessa (doverosa!)
Con tutto il bene che gli vogliamo, mai e poi mai potremo perdonare a Thomas Mann di aver scritto un libro tanto vergognoso come le Considerazioni di un impolitico. Il titolo più opportuno dello stesso sarebbe dovuto essere: Deliri, lamenti, vaneggiamenti di un guerrafondaio... Di certo si tratta di un'opera scandalosa in tutti i sensi e come minimo un tantino stramba. Tuttavia in questa sua opera Mann dice delle cose in parte ragionevoli. Ammesso che si possano definire tali delle idiozie: “ragionevoli idiozie”, infatti, non ci sembra suonare granché bene. Per certi versi questa confessione può anche dirsi una sorta di regolamento di conti con la sua coscienza faustiana, che mai per nessuno, come per un tedesco, vuol dire tanto. Sfogliandolo, pagina dopo pagina, la materia controversa di questo saggio fluviale – per le dimensioni – si svela sempre più. Nonostante dunque tutta la genuinità e l'intimità implicita nelle Confessioni, qui Mann dice delle cose assai gravi e pericolose sulla guerra come esperienza forgiatrice dei popoli, riprendendo la solita tiritera da camerata “crucco” sull'esperienza mistica del Fronterlebnis, riprese in maniera ancor più radicale dallo scrittore Ernst Jünger (che potremmo ribattezzare: il D'Annunzio di Germania...). La sua rivalutazione della guerra in chiave ultra-vitalistica è tanto più obbrobriosa e miserabile se si considera la penna virtuosa da cui è scaturita.
Obbrobriosa perché non si può essere, in nessun caso, sani di mente se si è dalla parte di quell'immane carneficina che è la Guerra; pur con tutti i migliori giri di parole e voli pindarici di questo mondo, se si è per la Guerra si è unicamente dei folli. Miserabile, invece, perché se un intellettuale del calibro di Mann ha potuto anche solo concepire simili impuri e masochistici pensieri, è ancor più colpevole di crimini contro l'umanità, poiché un uomo così ingegnoso non può dire quel che dice senz'alcuna cognizione di causa.
Una parziale – badate bene, non totale – discolpa gliela dobbiamo per il suo sublime capolavoro: La montagna incantata, in cui l'umanista Settembrini – cioè il nuovo Mann, progressista – trionfa sul nichilista Naphta – ossia il vecchio e decrepito Mann, altresì ostinatamente conservatore. Il caos che imperversa nella sua anima pare finalmente placarsi e il punteggio della sua personale sfida interiore fissarsi sull'uno-a-zero a favore dell'Umanesimo, che trionfa finalmente sul Nichilismo...
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Esordendo nella sua premessa, Mann liquida questa sua fatica intellettuale, come opera d'artista e non d'arte. Come, in un certo senso, a voler giustificare implicitamente le sue turbolenze espressive e alcune convinzioni subitanee dettate dalle esigenze del momento – e che poi l'hanno visto costretto a doversi rimangiare, almeno in parte, quanto qui affermato. La prima distinzione che salta all'occhio è quella da lui operata per separare le weltanschuung delle due potenze continentali europee, da sempre antagoniste: da una parte la Germania, patria del Geist, dello Spirito Assoluto hegeliano e della ragion pura kantiana, colonia di pensatori viscerali; dall'altra la Francia, patria della politica o meglio della democrazia politica – dato che democrazia e politica sono due termini tra loro inter-scambiali: chi fa politica, infatti, non può rinunciare all'essere democratico, pena il suo essere stesso politico. Curiosa innanzitutto è la dualità-rivalità che si è venuta a creare tra Rousseau ed Hegel. Se il primo è considerato non a caso il filosofo delloo «stato di natura», della ribellione contro una società profondamente ingiusta poiché ineguale e dunque critico spietato dell'Autorità costituita – nonostante la parziale involuzione, anche se dovremmo chiamarla meglio evoluzione, avutasi con il Contratto sociale; il secondo invece è passato alla storia come pensatore-baluardo dello Stato, quindi dell'Autorità, nonostante Marx – il più illustre dei suoi discepoli posteriori – abbia provocato l'insanabile e profonda spaccatura tra la destra idealista hegeliana e la sinistra pragmatista hegeliana. Questo continuo appellarsi al principio di Autorità, questo centralismo sfrenato ha prodotto il consolidamento di uno Stato sempre più autocratico; ed esaminando i meri fatti storici ciò ha portato a compimento l'immane sciagura della Germania: culminata con la vergognosa e criminosa ideologia nazista.
Le differenze tra la Francia e la Germania non si esauriscono solo nella coppia antinomica politica e spirito ma anche: Civilization e Kultur, diritto di voto e libertà di voto, letteratura e arte, società e anima. (Già, ancora una volta ritorna il concetto di anima: concetto che ha dannato il popolo tedesco, ma che per un tedesco è più importante di qualunque altra cosa. Anche se è quanto meno curioso che proprio dal popolo con più anima di tutti, quale quello tedesco, si è potuto avverare l'inconcepibile rappresentato da Auschwitz e dalla sua lucida follia di efficiente macchina di morte. Ma questo è un altro discorso e con Mann – e quelli come lui – ha a che fare solo indirettamente.) Infine, vi è un'ultima coppia antinomica che riconosce nella Francia la patria del bourgeois, del civil-letterato internazionalista; mentre nella Germania la patria del Bürger, dell'artista-soldato cosmopolita. Già perché sempre secondo Mann – e non secondo lui solo – esisterebbero delle inusitate similitudini e una segreta alchimia tra il mestiere dell'artista e quello del soldato: entrambi si arruolano in un esercito ideale che li vede combattere e talvolta perire per un ideale; non importa se giusto o sbagliato, purché d'ideale si tratti. Il cosmopolitismo germanico si richiama a quei valori intramontabili dell'antica Grecia – di cui la Germania si sente l'erede legittima su un piano squisitamente spirituale. Per cosmopolita s'intende l'essere cittadini del mondo, spiriti liberi che galoppano con destrieri alati sui cieli iperuranici, che non vogliono per nessun motivo mischiarsi in quel pantano-guazzabuglio che è il mondo.
La volontà-esigenza dell'intellettuale-artista tedesco di non volersi impicciare degli affari terreni – che lo interessano solo come ad un dio può interessare una sua creazione inferiore – e di non volersi affatto mischiare con la folla caotica, sono i tratti salienti della sua natura perfettamente impolitica. Si badi bene, però, no apolitica: poiché ad ogni modo in lui si conserva, seppur inconsciamente, il carattere pregnante della politica. Del resto è lo stesso Mann ad ammetterlo, con grande onestà intellettuale, per quanto ci si dica contro la politica, non si può in alcun modo prescindere da essa, che è parte integrante delle nostre vite. Per dirlo con il sommo Aristotele: l'uomo è un «animale politico»! (Già, poiché anche solo esprimendo dei semplici giudizi di valore, si esprime – seppur senza esserne consapevoli – dei giudizi politici.) Mann non è amante di quel modo di pensare tipico dei popoli latini secondo cui: «Piove, abbasso il governo!». Proprio nella sua natura impolitica egli vede incarnarsi la manifestazione più nobile del suo popolo. È come se lui, appellandosi ad alcuni concetti mirabilmente espressi nella Repubblica di Platone, volesse dire che il suo popolo è chiamato a fare politica perché vi è obbligato – trattasi di un obbligo morale – e proprio per questo la farà meglio di chi invece la fa solo per squallidi interessi privati, invece che per perseguire – come dovrebbe – il bene comune.
Si ricordi inoltre che Mann ordina questi suoi pensieri, a cavallo della Grande Guerra, in un momento in cui la Germania si trovava accerchiata su più fronti dai suoi irriducibili nemici. Per questo vanno presi con smodata cautela alcuni strali polemici manniani, esageratamente e pateticamente filo-patriottici, in quanto frutto del suo spontaneo e subitaneo arruolamento ideologico. Il bersaglio polemico più colpito da Mann nelle sue Considerazioni – a parte suo fratello Heinrich, autore dello Zola e letterato di netta ispirazione filo-francese – è Romain Rolland celebre autore del Jean-Christophe, che in una raccolta di articoli dal titolo Au-dessus de la Mêlée liquida come «monstreaux» alcune argomentazioni di Mann pro-guerra. La Prima guerra mondiale è stata definita da Mann – non senza un pizzico di orgoglio – come una guerra incontrovertibilmente tedesca, una guerra che affonda le sue radici nel protestantesimo viscerale della Germania luterana, in perenne rivolta contro il mondo romano incivilito – da ricordare che per lui l'incivilimento di un popolo non è che il principio del suo decadimento morale – e tutti gli eredi del medesimo. Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Russia: tra questi nemici per Mann solo quest'ultimo forse – pur sempre facente parte dell'imponente Intesa messa in piedi per sconfiggere la Germania – è quello più in sintonia con il modo di pensare tipico tedesco. In quest'ottica si spiega il rinvio che lui fa a Dostoevskij, il quale vedeva sia nella sua Russia che nella Germania, gli ultimi due baluardi del conservatorismo mondiale, l'uno ad Oriente e l'altro ad Occidente, deputati a frapporsi alle orde del cieco e sfrenato progresso. Occorre precisare cosa intenda Dostoevskij per conservatorismo. Con ciò lui intende il mistico richiamo ad una tradizione di valori spirituali – riconducibili ad un cristianesimo riformato, sia esso ortodosso oppure protestante –, di cui la Germania (da una parte) e la Russia (dall'altra) si sentono le ideali eredi legittime e aventi il preciso compito di diffondere tali valori, per frenare la discesa del mondo nel limbo della décadence: cimitero d'ideali fatiscenti...
Le imprese militari del grande condottiero germanico Arminio, la perpetua protesta contro il papato romano – culminata con l'affissione delle novantacinque tesi luterane a Wittenberg (1525) –, le battaglie contro gli eserciti napoleonici (1813-14), la guerra vittoriosa contro la Francia (1870-71) – che ha poi sancito l'unificazione tedesca: per Mann non sono che esempi per rivendicare la legittimità della Prima guerra mondiale come guerra eminentemente tedesca, che avrebbe dovuto riscattare il destino di un popolo; il quale sarebbe dovuto uscire una volta per tutte dall'accerchiamento nel quale si vedeva costretto, territorialmente strangolato al centro dell'Europa, con un Leviatano – mostro di biblica memoria – ad Occidente, costituito dalle potenze europee e dalla nascente super-potenza statunitense, e un altro invece ad Oriente, costituito dalla selvaggia e imprevedibile super-potenza russa. La categoria del destino, in particolare, è quella ben più gravida di significati: come se la Grande Guerra fosse stata la missione espiatoria a cui il popolo tedesco avrebbe dovuto assolvere inderogabilmente per salvare la propria anima...
Il predominio dell'etica sull'estetica è ciò che contraddistingue la saldezza del popolo tedesco rispetto alla mollezza dei popoli latini. La «bellezza» – sostiene Mann – è roba da italiani, che lui definisce implacabilmente «spaghettanti dello spirito». Grande merito della sua patria, secondo lui, è quello di essere un fervido terreno di scontro-incontro, nonché miniera inesauribile d'idee antagoniste ma non per questo inconciliabili fra loro. Proprio le insanabili controversie della Germania contribuiscono a farne un autentico pozzo di San Patrizio, ovvero un abisso senza fondo al quale attingere per ben capire la complessa natura tedesca. Senza la sua problematicità interna la Germania esploderebbe al minimo soffio d'aria come una bolla di sapone. Ciò che non è problematico, non è degno di considerarsi tedesco. In definitiva: il requisito minimo e indispensabile per essere-tedeschi è appunto l'essere-problematici. (Addirittura Mann, con sfrontata presunzione, arriva a dire che non si può essere filosofi senza essere al contempo tedeschi. Trascurando il fatto che i pur grandi Kant, Hegel, Schopenhauer, Marx e Nietzsche sono sì stati dei grandi pensatori, ma come filosofi sono stati poco più che “ripetitori” – seppur magistrali – dei grandi filosofi greci del passato, su tutti: Platone e Aristotele.) Dunque, un'espressione tipica della problematicità insita nella natura tedesca può persino essere il sentimento anti-patriottico, in quanto prodotto delle interne contraddizioni di chi è figlio della patria tedesca. D'altronde l'anti-patriottismo che c'è in Germania sarebbe impensabile in altre patrie europee come le arci-nemiche: Francia e Inghilterra. È un po' come se Mann ci volesse dire che solo un tedesco può odiare finanche amare – del resto odio e amore sono i due rovesci della stessa medaglia – in maniera tanto viscerale la sua stessa patria.
I colpi più sferzanti Mann li riserva contro il pacifismo ipocrita del civil-letterato, che è tanto contrario agli spargimenti di sangue quanto non disdegna adoperare la ghigliottina come mezzo – poco importa se aberrante – per raggiungere i suoi fini. La “guerra santa” – volendo usare un maligno eufemismo, dato che ad oggi non si conoscono ancora guerre sante (semmai ce n'è stata qualcheduna giusta, vedi la guerra al nazismo, ma sante proprio nessuna) – della Germania contro l'«Entente» messo su apposta per demolirla è tanto più ammantata di tutti i crismi della santità; visto e considerato che si frappone ad un'unione mercantilistica di paesi “trentadenari”, pronti a tutto pur di salvare il loro “vil denaro”. Inchinarsi all'«Entente» per la Germania avrebbe significato, quindi, abbandonare l'Europa all'effeminatezza-raffinatezza dei francesi e al mercantilismo-affarismo degli inglesi. Per dirlo con la mordente satira manniana, se la Germania non avesse saputo perdere la guerra con la ferrea dignità di cui è stata capace, a quest'ora: «Il resultato increscioso sarebbe stato un'Europa, diciamo, un po' buffa, di una piatta umanità, corrotta in forme triviali, di un'eleganza femminea, un'Europa già un po' troppo 'umana', da stampa d'assalto, vociferante democrazia, un'Europa con la mentalità del tango e del two-step, un'Europa affarista e gaudente alla Edoardo VII, montecarlesca, letteraria come una cocotte parigina [...]». (Malgrado, però, la natura estremamente faziosa di questo esempio di prosa manniana, bisogna dare atto all'autore della sua incredibile genialità letteraria – intesa come capacità di re-inventare di continuo la lingua usata, adoperando bizzarre ma altamente efficaci costruzioni linguistiche. Difatti una critica spietata delle Considerazioni è plausibile solo da un punto di vista meramente concettuale – in quanto è qui contenuta una morale, alla maniera nietzscheana, un tantino Al di là del bene e del male –, poiché l'abilità letteraria del suo autore è indiscutibile. Del resto c'è da scommetterci che nessuno avrebbe mai e poi mai preso neppure in considerazione quest'opera, se essa fosse stata scritta con un linguaggio arido e privo del benché minimo talento o gusto artistico...). Ciò che Mann non riesce proprio a perdonare all'Impero della civilizzazione capeggiato da Francia e Inghilterra è l'annichilimento stesso dell'arte; che per un'artista come lui è cosa davvero inaudita! Livellando le coscienze individuali sul medesimo piano degli interessi privati si sopprime inevitabilmente quell'anelito spirituale, che è il motore propulsore dell'anima di un uomo. Appunto per questo il timore di Mann è che con il progredire della civilizzazione si arrivi ad un punto di non ritorno, ad un mondo senz'anima, in cui gli uomini non fanno niente per niente e sono mossi unicamente dal mero calcolo.
Mann poi continua a sputare fuoco contro il progresso che ha tutto dalla sua parte, comprese le migliori penne, ovvero: tanti giovani scribacchini dall'animo traboccante d'umanità, i quali sprecano fiumi d'inchiostro facendo gli oracoli dell'amore del prossimo. A sentir loro si sacrificherebbero per il bene dell'umanità, anche se nessuno li ha mai visti muovere un'unghia a favore di chicchessia. Difatti, spesso e volentieri, un'amore disinteressato verso tutti gli uomini può non corrispondere affatto, all'atto pratico, ad un amore autenticamente genuino per il singolo essere umano. In questa sua critica dei buoni sentimenti da quattro soldi sulla carta stampata, che non ha mai prodotto altrettante azioni caritatevoli nella realtà quotidiana, Mann ha senz'altro ragione. Nondimeno, però, l'ipocrisia di alcuni gli dà diritto a fare di tutta un'erba un fascio e a liquidare come sbagliato e controproducente qualsivoglia forma di amore verso il prossimo.
Ripercorrendo le biografie e il pensiero di tre grandi tedeschi – Wagner, Schopenhauer e Nietzsche – Mann disegna i tratti essenziali del carattere tedesco. Per dirlo con Nietzsche, mentre si stava riferendo al suo sommo maestro: «Quel che mi piace in Wagner è quello che mi piace in Schopenhauer: l'aura etica, il sentore faustiano, croce, morte e sepolcro». Quando Nietzsche dice: «croce, morte e sepolcro», si riferisce ad una celebre incisione düreriana che ben rappresenta evocativamente la quintessenza dello spirito tedesco: non insensibile al fascino nichilistico della putrefazione. Lo stesso Mann, con la durezza di cui è capace, afferma perentoriamente: «Io sono un cronista e un interprete della decadenza, amatore del patologico e della morte, un esteta cupido di abisso.». Del resto i temi sepolcrali percorrono tutto il movimento romantico fino a confluire nel nazionalismo che dal primo trae spunto e ne costituisce il naturale prolungamento. Se un sentimento è tanto più applicabile ad un tedesco quello è senza dubbio il sentimento del tragico. Già, poiché la tragedia era marcata a caratteri di fuoco sulle coscienze travagliate di milioni di tedeschi, i quali venivano chiamati all'azione – con la Prima guerra mondiale – loro malgrado, costretti dalla prepotenza altrui. Come gli eroi della tragedia, che vengono chiamati a dover compiere a tutti i costi una missione – diremmo quasi sovrumana – al di là di ogni possibilità di riuscita, ma nondimeno affranti o minimamente scoraggiati nel volerla adempiere, contro tutto e tutti. È proprio questa nota eroica del suo popolo – chiamato ad un'impresa fuori da ogni portata – che più tocca le sensibili corde dell'animo di Mann, il quale per questo motivo non può non patteggiare per la causa di chi è già condannato in partenza. Lui confessa di non essere un pensatore inflessibile o dogmatico e anzi non disdegna cambiare idea teso com'è alla spasmodica ricerca «di verità nuova, fresca e rinfrescante.», poiché chi vive tutta la vita con una sola idea fissa in testa è una ben misera persona, dato che d'idee sempreverdi è pieno il mondo!
Compito di un'artista, generalmente, è quello di ordinare il caos che ha dentro di sé, dando una forma a ciò che è informe e generare pertanto stelle danzanti, parafrasando Nietzsche. Ovvero un'artista ha il dovere inalienabile e sacrosanto di comporre opere che sopravvivano nel tempo alle periture azioni umane. Un'artista, solitamente, non dovrebbe impicciarsi di quel che avviene nel suo spazio-tempo, bensì dovrebbe vivere in esilio nella sua riservatezza così da trovare il suo paradiso interiore, ove poter comporre in tutta libertà i suoi capolavori fuori dal tempo e dallo spazio. Il motivo per cui certe opere divengono immortali è che possono essere altrettanto efficaci in ogni epoca passata o futura e in ogni anfratto della terra. Ciò vuol dire, che essa è stata capace di muovere sentimenti universali e universalmente validi. Per questo capirete bene come sia stato difficile per Mann riversare la sua verve critica nelle pagine delle Confessioni, compiendo pertanto un vero e proprio atto di costrizione, forzato e contro-natura, poiché da che mondo è mondo un'artista non si sarebbe mai e poi mai sognato di dire in condizioni normali quanto da lui qui espresso. Tuttavia l'epoca storica in cui scrive questa sua opera-fiume non presenta di certo condizioni normali, semmai altamente eccezionali. Tanto che persino un'artista del suo calibro si sente in dovere di prender partito e non restarsene, come vorrebbe Rolland, al di sopra della mischia – Au-dessus de la Mêlée. Mann è profondamente convinto, infatti, che talvolta per andare fino in fondo occorre sporcarsi le mani, a costo di perdere la propria innocenza. Una cosa è certa per lui: se la Francia si sente presuntuosamente tanto pura e innocente, tali sentimenti di purezza e innocenza non corrispondono invece alla Germania, conscia della propria colpevolezza. I tedeschi hanno se non altro il coraggio di addossarsi le loro colpe, al contrario dei francesi. «Scagli la prima pietra chi è senza colpa» ci vien voglia di ripetere modificando leggermente il messaggio evangelico. Il mondo non è un posto esente da colpe, a cominciare dal peccato originale commesso dal primo uomo nei giorni successivi alla creazione. Dunque, dal momento in cui si viene al mondo, ci si dimentica la propria innocenza – che diventa solo uno sbiadito ricordo.
«Democratico» dice Mann «è oggi qualunque imbecille» e con ciò ritorna all'attacco dei regimi parlamentari-democratici. Come Schopenhauer anche Mann è per la monarchia, che è secondo lui il regime più dignitoso e autonomo che vi possa essere. A detta sua, l'unico risultato prodotto dalle odierne «demoretoricrazie» è che la politica si è impaludata nell'economia. Perciò lui odia tanto la politica, preferendole di gran lunga una ben più solida formazione spirituale del singolo. Egli definisce pertanto la sua posizione monarchica nei seguenti termini: «Voglio la monarchia perché è stata sempre l'indipendenza del regime monarchico dagli interessi economici che ha fruttato ai tedeschi la posizione-guida nella politica sociale. Io non voglio il gran trafficare dei parlamenti e dei partiti che finisce con l'appestare di politica tutta la vita nazionale. Io non voglio che Dreyfus venga condannato per politica e assolto per politica, perché assolvere un innocente per motivi di politica non è meno ripugnante che condannarlo per gli stessi motivi [...]» e così via. L'illusione di Mann che una manciata di reali possa salvaguardare la dignità e l'abito spirituale di un popolo è quanto meno: fanciullesca, nostalgica e pure un po' ancien régime. Certo lui non si sbaglia nel dipingere il caos apparente delle democrazie parlamentari, che tuttavia contengono al loro interno un principio superiore ed affascinante, cioè quel tentativo – quasi titanico oseremmo dire – di conciliare fra loro posizioni inconciliabili, trovando cosicché una pur labile armonia nella disarmonia generale. Certo anche il fatto che l'economia, spesso e volentieri, si frappone alla politica soffocandola sul nascere è una cosa senz'altro poco rassicurante, ma di sicuro vale la pena correre il rischio nel tentativo di creare una società più giusta, che combatta la diseguaglianza e in cui la massima aspirazione sia che tutti gli uomini nascano eguali e progrediscano nella scala sociale in virtù delle loro capacità individuali e non a desueti privilegi di casta.
Conservatore e nazionalista, argomenta Mann, vanno di pari passo con democratico e internazionalista. Contro i fautori dell'internazionalismo, disposti a sacrificare la propria patria sull'altare di un'utopica identità comune: lui si scaglia con gran veemenza. A cominciare dal primo pensatore internazionalista di cui si conservi memoria: Jean-Jacques Rousseau. Di quest'ultimo viene citata quest'affermazione: «Oggi non ci sono più francesi, tedeschi, spagnoli, inglesi, comunque si pensi in proposito; esistono solo europei che hanno tutti lo stesso gusto, le stesse passioni, gli stessi costumi perché nessuno di loro ha serbato, grazie a particolari istituzioni, un'impronta nazionale». Traendo spunto da tale considerazione rousseauiana Mann chiarisce che non si può essere «politico e democratico senza essere antinazionale e radical-cosmopolita.» e dicendo ciò centra in pieno la questione. Il più celebre discepolo rousseauiano, Robespierre, da vero democratico credeva con tutto il suo animo nella signoria del popolo. Il vuoto populismo dei democratici alla Robespierre vorrebbe darci ad intendere che sia stato il popolo, di testa sua, a fare l'89; mentre esso semmai era solo capace di una violenza inaudita e di una volubilità imprevedibile. Anzi, a dirla tutta, il popolo di suo è conservatore. Solo una combinazione fortunata ha determinato la Rivoluzione francese: laddove un'avanguardia di intellettuali dominati perlopiù da principi di etica-forense hanno saputo cavalcare il malcontento delle masse affamate. Dunque, secondo Mann, la Rivoluzione è stata poco più che un “capriccio”, una “sbornia” collettiva durata il tempo necessario per smaltire tutta l'ebbrezza in circolo nelle vene. Il popolo, checché se ne dica, ha dimostrato di non essere più buono della più brutale delle teste coronate.
Portando gli esempi di Aristofane e del – già citato – Dostoevskij Mann vuole dimostrarci come i più grandi uomini siano stati non solo dei conservatori, ma addirittura degli oscurantisti. I meriti letterari sia dell'uno che dell'altro non si discutono, ma da qui a spacciarli per grandi uomini occorre andarci cauti, poiché se con ciò si vuole intendere coloro che hanno più inciso sui loro tempi, allora dovremmo includere nella categoria persino la feccia più schiumosa e ribollente della terra: Hitler e Stalin compresi – solo per fare i due nomi più famigerati. L'intellettuale più conservatore di cui si abbia traccia, ancor più di Dostoevskij stesso fu senz'altro Nietzsche. Se il primo, infatti, perlomeno si limitò a demolire il cristianesimo romano, l'altro invece si spinse fino a polverizzare letteralmente l'intero edificio cristiano: protestantesimo compreso. (Poiché per lui un cristiano protestante era ancor più colpevole di un cristiano cattolico, in quanto più consapevole di quest'ultimo e ciononostante addomesticato dalla «morale da eunuchi» cristiana.) Chiunque legga le opere di Nietzsche, difficilmente potrà resistere al fascino letterario che esse sprigionano: nessuno avrebbe preso in considerazione, ad esempio, la maledizione da lui lanciata contro il cristianesimo, se solo egli non avesse scritto così come scriveva. Tuttavia, superata una prima distratta lettura delle sue opere, non si può che individuare in lui un deficit cronico: lodevole sì nella straordinaria abilità a demolire le argomentazioni altrui, ma con una ben misera applicazione a proporre argomentazioni proprie e costruttive. È facile demolire con le parole, senza però avere la benché minima intenzione di costruire con i fatti. Al giorno d'oggi non basta più scrivere dissacranti e provocatorie proposizioni alla Nietzsche, occorre avere coscienza di quel che si va blaterando. Abbiamo visto tutti a che estreme conseguenze hanno portato – seppur Nietzsche, non ne abbia avuto alcuna diretta responsabilità – i temi della filosofia nietzscheana. I deliri, i vaneggiamenti di Hitler non avrebbero mai e poi mai esercitato l'inquietante fascino che altresì esercitarono su molti pensatori – Heidegger in primis –, se questi ultimi non avessero visto nella dottrina razzista hitleriana il naturale compendio alla dottrina nietzscheana dello Übermensch. Se Così parlò Zarathustra per il nazismo fu l'equivalente della kantiana Critica della ragion pura, viceversa il Mein Kampf rappresentò l'equivalente della altrettanto kantiana Critica della ragion pratica... Ciò a testimonio di come secoli di storia tedesca hanno preparato il triste avvento di quel nefando “uomo della Provvidenza”, tale Adolph Hitler, il quale fu l'incarnazione stessa dell'Anticristo nietzscheano. Chiudiamo con questo mirabile passaggio tratto dalle Confessioni manniane, che ci auguriamo possa indurre un'attenta e scrupolosa riflessione sui temi fin qui trattati.
Non a tutti la natura concede la felice alleanza col proprio tempo e col progresso, non a tutti si confà la salute democratica. Se uno dispone di poderose spalle e di una robusta dentatura e si chiama Zola, Bjørnstjerne Bjørnson o Roosvelt, può darsi che ne resulti un effetto armonioso. Se uno è nato invece un po' vecchio e un po' nobile, con una vocazione naturale per il dubbio, per l'ironia e la malinconia, se il vital rossore che mostra in viso è di congestione o di belletto, se è, in fondo, estetismo, allora la faccenda ha una sua decenza morale che io non posso ignorare. C'è qualcosa che io ho sempre definito, fra me, il «tradimento della croce». E anche la virtù, anche la 'democrazia', anche la voluttuosa impulsività politica significano a volte solo questo: il tradimento della croce.
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T., Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997, cit. p. 123.
Ibidem, cit. p. 84-85.
Ibidem, cit. p. 162.
Ibidem, cit. p. 170.
Ibidem, cit. p. 189.
Ibidem, cit. p. 266.
Ibidem, cit. p. 273.
Ibidem, cit. p. 274.
Ibidem, vedi p. 375.
Si riveda in proposito la Seconda proposizione da Nietzsche stilata in appendice a Der Antichrist. F., Nietzsche, L’Anticristo, Adelphi, Milano, 2004, p. 98.
T., Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997, cit. p. 430.