31.1.08

Jason Bourne VS Aaron Hallam

(The Bourne Identity & The hunted)

di Silvia Del Beccaro

Oggi, a distanza di secoli, che significato può assumere il concetto di battaglia? Esistono ancora i vecchi combattimenti, le risse tanto amate dalle bande rivali di una volta? Oppure oggi esistono solo scontri armati? I veri fighter odierni chi sono? Lottatori, judoka, boxeurs, marzialisti orientaleggianti? Se si pensa alle discipline insegnate su un tatami è difficile pensare ad un guerriero vero e proprio. Viceversa, è più facile individuarlo in personaggi del calibro di Jason Bourne – protagonista del film The Bourne identity – o di L.T. Bonham – protagonista di The hunted. Un uomo che sa adattarsi a qualunque situazione. Un uomo che sa difendersi e tratta oggetti di uso quotidiano come fossero armi. Un uomo simile ad una macchina distruttrice, le cui uniche armi sono le proprie mani e la propria arguzia. Il protagonista di questo primo esplosivo thriller – tratto dal best seller internazionale L’uomo senza volto firmato Robert Ludlum – è il vincitore del premio Oscar Matt Damon. Trovato in mare aperto da un peschereccio, con due proiettili nella schiena, Jason Bourne dimostra presto di avere straordinarie capacità con le lingue, i combattimenti e l’autodifesa. Colpito da amnesia, però, non riesce a ricordare il suo passato e la sua vera identità. Tuttavia si rende presto conto di essere un ex agente della Cia, un killer letale da 30milioni di dollari, di cui anche lo stesso governo non si fida più. Spettacolari inseguimenti in auto e incredibili scene di combattimento sono gli ingredienti di quello che al momento risulta essere uno fra i migliori action movies girati negli ultimi anni.
Per vestire in maniera più realistica i panni dell’agente Jason Bourne, l’attore Matt Damon ha dovuto impiegarsi a lungo nello studio delle arti marziali filippine – qual è il kali. Questo per rendere ancor più veritieri gli scontri faccia-a-faccia, ovvero gli scontri uno-contro-uno, che riempiono la maggior parte delle scene d’azione della trilogia su Jason Bourne: The Bourne identity, The Bourne supremacy e The Bourne ultimatum. Tecniche veloci, perfettamente riconoscibili nei programmi di trapping del jeet kune do , sono infatti una costante di tutte e tre le pellicole. Tre film, questi, uniti da un comun denominatore: il protagonista Jason Bourne, ovviamente. Ma non solo. Il jkd accompagna la trilogia come una specie di climax, un turbine di azioni che incalzano sempre più fino all’ultimo atto – The Bourne ultimatum – in cui gli amanti del settore non possono rimanere impassibili di fronte ad una sequenza di combattimento face-to-face lunga circa tre minuti.
Tecniche miste di trapping e kali, che danno vita a combattimenti altresì veritieri, vengono riportate anche nel film The hunted – letteralmente tradotto La preda. Ma mentre nel primo film è solo l’attore Matt Damon a mettere in pratica alcune tecniche di kali per difendersi dal suo aggressore – in possesso di un’arma da taglio – con una banale penna, diversamente in The hunted i combattimenti avvengono quasi sempre fra due personaggi ben riconoscibili: il buono e il cattivo della situazione, che vengono messi costantemente a confronto l’uno con l’altro, Tommy Lee Jones e Benicio Del Toro. La pellicola diretta da William Friedkin descrive minuziosamente la ricerca spasmodica di un criminale assassino da parte di un ex addestratore dell’Fbi – entrambi abili esperti nel maneggiare i coltelli. Seppur la trama rievochi esplicitamente pellicole del passato – quali Il fuggitivo e il primo episodio di Rambo – quello diretto da Friedkin resta sempre e comunque un thriller psicologico di gran stile. Interpretato da un espressivo Tommy Lee Jones e da un tenebroso Benicio Del Toro, The hunted ha inizio in una foresta nei pressi di Portland (Stati Uniti), dove vengono ritrovati due cacciatori morti, uccisi con un coltello come in un rituale. Un agente dell’Fbi (Jones per l’appunto) deve fare riscorso a tutta la sua esperienza e al suo coraggio per catturare il serial killer (Del Toro), il cui stato psicotico è così radicato da far parte della sua personalità e da non permettergli di tornare indietro. Anche in questa occasione, dunque, Benicio Del Toro non riesce a staccarsi dalla consueta parte del cattivo, che lo accompagna da sempre e che riemerge anche in questa pellicola in cui è stato costretto ad indossare ancora una volta i panni dell’antagonista: colpa, forse, di quel suo viso duro e virile che lo fa rassomigliare più ad uno psicopatico latente che ad un personaggio comico. E non è un caso, allora, se la figura attorno a cui impernia tutta la vicenda di The hunted è proprio quella di un brutale assassino abile nel maneggiare i coltelli e capace di utilizzarli quali armi mortali. Un ex militare addestrato a sopravvivere e a uccidere, in modo rapido, preciso, sicuro. Le sequenze temporali della pellicola hanno inizio nel lontano 12 marzo 1990 e rievocano il momento dell’assedio di un villaggio albanese da parte dei serbi. Benicio Del Toro è uno dei militari chiamati alle armi per difendere il villaggio e in quel contesto assiste a così tanti genocidi, che la sua mente – negli anni a venire – inizia ad assillarlo con flashback di uccisioni, immagini di teschi e guerriglia, scene di sparatorie e urla inquietanti. È diventato una macchina della morte. La scena si sposta poi nell’Oregon e giunge più o meno ai giorni nostri, ovvero al 2003.
Efficaci e realistici sono gli innumerevoli combattimenti di kali filippino, che si ripetono più volte nel corso della pellicola. L.T. Bonham e Aaron Hallam danno infatti vita a combattimenti con i coltelli caratterizzati da un estremo pragmatismo, a cui vengono combinate talvolta tecniche a mani nude e posizioni di lotta a terra. Il film deve essere apprezzato proprio per questo: la messa in scena molto realistica dei combattimenti coi coltelli (hand-to-hand) a scapito delle solite tipiche scene hollywoodiane degli stunt-man.

«C’è sempre del rispetto in chi uccide con le proprie mani.»

Sotto il profilo visivo, l’occhio viene pienamente soddisfatto. Le scene sono potenti e ricche di suspense, tanto da rapire l’attenzione dello spettatore per lungo tempo. Forse l’estrema violenza che William Friedkin ha volutamente inserito nella pellicola ad alcuni potrà sembrare un po’ troppo esagerata; d’altronde quando si predilige il realismo alla finzione occorre accettare questo genere di scelte. La vita militare, gli addestramenti degli agenti dell’Fbi, la costruzione di un coltello artigianale con pietre e legno, i combattimenti di kali: sono tutte scene che fanno dimenticare interamente il resto della trama, di per sé semplicistica e già nota al grande pubblico. Tecniche serrate di attacchi e difesa si susseguono e si intrecciano a gesti di trapping armato: lotta a terra, ginocchiate al corpo, leve ai polsi, scontri a mani nude contro attacchi di bastone. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile se William Friedkin non si fosse avvalso della collaborazione di esperti del settore, che hanno messo a disposizione del regista la loro esperienza nel campo delle arti marziali.
Peccato che il cinema italiano non creda ancora in questo genere di cooperazioni; le pellicole d’azione nostrane trarrebbero solamente giovamento dall’inserimento di esperti italiani nel campo del jdk e del kali. Tutto diverrebbe decisamente più realistico. Molti film hanno sfruttato la disciplina del kali filippino rendendola un’arte della coreografia, scritturando atleti-attori in grado di maneggiare i bastoni in maniera a dir poco stupefacente. Roteazioni spettacolari, scene di combattimenti scintillanti... Da ciò sono sorte certamente sequenze che attirano l’attenzione del pubblico, ma che di fatto sono decisamente poco reali. Noi pensiamo invece che questa disciplina sia qualcosa di più. Il suo vero obiettivo infatti è l’autodifesa, tesa a neutralizzare un attacco attraverso l’uso di un’arma – generalmente un bastone o un coltello. Non parliamo solo di armi contundenti, bensì anche di semplici oggetti che utilizziamo nel nostro quotidiano – anche se non sempre diamo loro la giusta importanza. In particolare facciamo riferimenti a ombrelli, giornali, biro... Semplici sì, ma comunque di grande efficacia. Le scene succitate possono apparire un po’ crude, ma rendono perfettamente l’idea di cosa significhi sapersi difendere senza utilizzare forzatamente armi pericolose – per gli altri ma anche per noi stessi – come coltelli o simili. È proprio così che la Combat Dept. interpreta il kali: nessuna coreografia o finzione, bensì posizioni naturali, tecniche semplici ed efficaci e massima sicurezza per chi si difende. Avere padronanza del proprio corpo, sapersi confrontare con tutti, capire la paura e controllarla, affidarsi all’istinto. Sono queste le basi di un vero combattente. E sono queste le basi dei nostri sistemi.

18.1.08

Nel nome di "Spartaco"

di Marco Apolloni

A ragion veduta, si pensa che il terrorismo sia il “male radicale” della nostra epoca, alla stessa stregua del nazismo durante il Secondo conflitto mondiale. La cosa più sconcertante è l'identikit del terrorista odierno, ovvero: tra i venti e i trent'anni – dunque giovanissimo –, buona cultura, cresciuto in una famiglia perbene, aspetto apparentemente innocuo. Addirittura fra di essi si contano ragazzi occidentali, educati e cresciuti coi valori più genuini della nostra civiltà. A questo punto, riflettiamo un attimo, senza aver paura di mettere a nudo i nostri pensieri. La riflessione, d’altronde, è l'unica arma che ci è rimasta per sconfiggere l'apatia mentale e per filtrare quei refusi mass-mediali, più che notizie vere e proprie, che oramai ci tempestano da tutte le parti…
Comprendiamo – sebbene non giustifichiamo –, con le debite proporzioni un giovane kamikaze-palestinese che vive di stenti, spesso in famiglie numerosissime e trascorre la propria esistenza nella miseria più totale, perlopiù in degradate baraccopoli. In un simile caso umano disperato si possono ben comprendere le ragioni di come questi possa venire facilmente abbindolato da gente priva di scrupoli, che lo convince a votarsi al martirio. Nelle misere condizioni in cui è stato allevato e dopo tutto quello che ha patito, come si potrebbe fargliene una colpa? Ammettiamo, dunque, di riuscire anche solo lontanamente a concepire le motivazioni che lo inducono a tramutarsi in uomo-bomba, specialmente dovendo fare i conti con l'illogico e sanguinoso scacchiere mediorientale. Diversamente non riusciamo proprio a figurarci come un giovane dal radioso avvenire targato “made in England” – che ha vissuto la sua esistenza alla maniera occidentale – d'un tratto possa divenire il nemico pubblico numero uno. Se c'è un unico comandamento su cui tutte le religioni sono inequivocabilmente concordi – islam, cristianesimo, buddhismo, induismo, taoismo, eccetera – crediamo sia senz’ombra di dubbio: non uccidere!
Nelle guerre di oggi è sparita la benché minima briciola di santità, ammesso ve ne sia mai stata in qualche guerra. Le guerre odierne, infatti, non hanno nemmeno uno “stinco di santo”. Una volta, almeno, nelle guerre a morire erano in larga misura i soldati chiamati a combatterle. Ora come ora non avviene neppure più questo. A rimanere sotto le macerie delle bombe o degli attentati terroristici sono perlopiù persone innocenti prive di alcuna responsabilità diretta. Sangue chiama altro sangue e, finché non ci metteremo tutti in testa che esso è dello stesso colore, sia per le vittime dell'una che dell'altra fazione, non vi sarà mai tregua agli atavici conflitti del nostro pianeta. Con le guerre non si è mai ottenuto granché, se non riempire di macabre immagini la galleria degli orrori storici. E quando qualcuno a Washington lo capirà, forse assesteremo una batosta decisiva ai terroristi, togliendo loro l'unica linfa vitale nonché unico appiglio: l'odio, un odio troppo viscerale e troppo a lungo covato, che può venire unicamente contrastato facendo fare alla diplomazia il suo lento ma inesorabile corso. Solo grazie ad essa si possono mettere a tacere: sia le armi che i cultori dello scontro di civiltà. Ad essere sinceri, dovremmo tutti concordare che, in fondo, esiste una sola ed unica civiltà umana.
Il termine civiltà, secondo alcuni, evoca uno sfondo drammatico perché non può che essere declinato al plurale: le civiltà. Esso testimonia come il mondo non sia unito e, a dire il vero, non lo sia mai stato, bensì come sia sempre stato caratterizzato da una plurima eterogeneità. Sempre per costoro, il “feticcio” della democrazia si illude di poter riunire l'intero genere umano sotto un'unica bandiera. Dicasi: utopia democratica! Inutile far notare ad essi come la tecnica abbia potuto unificare il mondo in corso d'opera, poiché costoro ribatterebbero che la tecnica non è mai riuscita ad impossessarsi della materia con cui sono fatti gli uomini, ovvero i sogni – per usare una bella metafora shakespeariana. Secondo questi teorici impregnati di dogmatismo: lo spirito incide più della tecnica, ossia riesce a penetrare con maggior efficacia quelle regioni dell'anima altrimenti invalicabili. Infine, costoro aggiungono: se i passati non sono mai stati uniti neanche i presenti potranno mai esserlo, finché esisteranno passati diversi vi saranno sempre futuri diversi, il sogno roosveltiano di “un solo mondo” è materialmente impossibile da realizzare...
A questa visione pessimista ci sentiamo di contrapporre la nostra, nettamente più ottimista. Se per costoro il bicchiere è mezzo vuoto per noi invece è mezzo pieno. Ovvero: ciò che ci divide è sempre inferiore a ciò che ci unisce. Diteci pure idealisti ma noi crediamo ancora che “un altro mondo è possibile”, poiché siamo convinti che noi umani possiamo agire concretamente sulla storia e non solo essere agiti da essa – come molti erroneamente pensano. Il popolo con la sua sola “volontà di potenza” può modificare l'intero corso storico. Compito di ciascun popolo è quello di tirare il freno d'emergenza alla locomotiva impazzita della storia, altrimenti destinata allo sfacelo – per usare una suggestiva immagine benjaminiana. Le rovine della storia dovrebbero servirci da monito per risparmiarci l'inenarrabile sequela di errori fin qui commessi. Il filosofo messicano Carlos Santayana afferma: «Chi dimentica la storia è spesso condannato a ripeterla».
A nostro parere, l'essere ottimisti sul corso della storia è per noi uomini una necessità connaturata, poiché altrimenti niente e nessuno potrebbe salvarci da una fine ingloriosa. Noi non siamo fra quelli che pensano che siccome fin qui tutto è andato storto allora bisogna rassegnarsi al nostro ineluttabile destino – che ci vede già perdenti in partenza. Questo spirito di rassegnazione è semplicemente controproducente alla nostra causa umana, quindi crediamo non ci resti che remare controcorrente e perseverare nel nostro incessante combattimento quotidiano. Sperando che, come noi, la pensino molti altri “guerrieri dello spirito”. Meno saremo a rassegnarci e più probabilità avremo di non far scomparire dalla faccia dell'Universo il nostro genere umano, seriamente minacciato d'estinzione. Il nostro “imperativo categorico” dovrà essere d'ora in poi: possiamo e dobbiamo cambiare il corso della storia!
Se c'è una cosa che riesce a darci più fastidio è la presunzione di certi pensatori, che con il loro pessimismo cosmico leopardiano si credono anticonformisti mentre sono di un conformismo dei più aberranti. Se andiamo a dare una scorsa indietro alla storia dei popoli, ecco che possiamo vedere come la superstizione abbia fatto sì che l'umanità si dividesse in due schiere, padroni e servi, invece che in una sola comprendente tutti gli uomini eguali in tutto e per tutto. Finché i primi tennero i loro fetidi piedi premuti sulle teste dei secondi, non vi fu uomo che potesse dirsi davvero libero. Quest'uomo però un giorno scese in mezzo a noi e si erse mastodontico fra i suoi simili, non accettando più i soprusi che gli venivano inflitti: il suo nome era Spartaco e ancora oggi riesce ad emozionare coloro i quali conservano – pressoché intatta nelle segrete prigioni dei loro cuori – la scintilla rivoluzionaria. Costui fu l'iniziatore del cammino verso la liberazione del genere umano dalle catene della schiavitù, fu il Titano Prometeo in carne ed ossa, amico a tal punto degli uomini che distribuì loro il fuoco sacro della tecnica. Questo nuovo Prometeo fece sì che nessun uomo si sentisse inferiore a qualunque altro suo simile. Con labbra tremanti riusciamo a malapena a sillabarne il nome: S-p-a-r-t-a-co. È come se il suo nome, altamente evocativo, facesse vibrare ogni corda del nostro essere. Un ultimo pensiero colmo di gratitudine non può che andare a lui, Spartaco, il-più-possente-fra-gli-uomini. Ti ringraziamo infinitamente per averci trasmesso la tua preziosa scintilla. A noi non rimane che esserne degni...

10.1.08

"Il Gladiatore", scontri corpo-a-corpo nelle arene

di Silvia Del Beccaro

Nel mondo antico dopo una battaglia si era soliti sacrificare i prigionieri di guerra in onore dei comandanti uccisi. Era anche abitudine sacrificare gli schiavi ai funerali di persone di rango. Ma a quei tempi questi venivano forniti di armi e spinti a difendersi, uccidendo gli uomini ai quali era stato ordinato di uccidere loro. Dall’evoluzione di questo sacrificio brutale sorse gradualmente il fenomeno dei combattimenti tra gladiatori, coi quali la morte divenne divertimento di massa. Dapprima le contese furono disputate accanto alla pira funeraria o nei pressi di un sepolcro, ma con il passare del tempo – poiché l’interesse per il combattimento si stava distaccando dal suo contesto esplicitamente religioso – le lotte si spostarono prima nel Foro, poi nel Circo e infine negli anfiteatri. Fecero la loro comparsa gli allenatori di schiavi, mentre alcuni aristocratici e uomini politici cominciarono a mantenere intere compagnie di gladiatori. Gli scontri imminenti erano organizzati e pubblicizzati a gran voce e gli spettacoli, della durata di tre giorni, crebbero in numero e popolarità. I gladiatori provenivano da tutte le province dell’impero romano1. Inizialmente si trattava di avversari sconfitti nelle guerre di conquista dei Romani, che si erano rifiutati di riconoscere la loro autorità e con questo atteggiamento avevano perso il posto nella società. I prigionieri venivano perlopiù venduti come schiavi, giustiziati o costretti a uccidersi l’un l’altro, mentre un numero ristretto veniva indirizzato alla scuola gladiatoria per essere addestrato ai combattimenti nell’arena2. Spesso erano criminali condannati, che speravano di prolungare la propria vita o di conquistarsi la libertà – nel caso in cui fossero divenuti dei campioni. A volte invece diventavano gladiatori anche uomini liberi, che però avevano perso tutto.
Questo è il caso di Massimo Decimo Meridio3, protagonista del film epico Il Gladiatore diretto da Ridley Scott e interpretato dall’attore australiano Russell Crowe – perfetto nella parte. La storia del generale che diventò schiavo, lo schiavo che diventò gladiatore, il gladiatore che sfidò l’imperatore.

«Il mio nome è Massimo Decimo Meridio, comandante delle armate del Nord, generale delle Legioni Felix, Leale servo del vero imperatore Marco Aurelio, padre di un figlio ucciso, marito di una moglie uccisa, ed avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra.»4


Chi veniva condannato a entrare in una scuola di gladiatori diventava così membro di una “famiglia”. Egli sapeva che in tal modo avrebbe subordinato la sua persona al prestigio della scuola e che avrebbe dovuto abbandonare ogni desiderio di privacy5. La recluta, infatti, entrava in un mondo completamente diverso, regolato non dai criteri e dalle norme della società civile, ma dalle leggi della caserma. Questo percorso formativo ricorda molto l’aghōghē spartana, anche se i gladiatori – una volta terminato l’addestramento per l’obiettivo finale – sarebbero dovuti entrare nelle arene e, sotto gli occhi del pubblico, riprodurre ciò che gli stessi romani avevano fatto ovunque nel mondo: combattere all’ultimo sangue6. Secondo quanto scrisse Petronio, i gladiatori prestavano un giuramento, che recitava: «Giuriamo, secondo la formula detta da Eumolpo, di sopportare la morte per fuoco, catene, frusta e spada; così come di eseguire ogni altro suo comando; da veri gladiatori ci sottomettiamo anima e corpo al nostro padrone». Agli occhi di molti quei rozzi combattenti apparivano spaventosi: condannati per cui non esisteva più alcuna salvezza, schiavi senza dignità. Ma perfino coloro che definivano i gladiatori come esseri spregevoli non poterono non riconoscere che il loro comportamento nell’arena fosse più che dignitoso. I gladiatori si battevano tenacemente. Per loro era arrivato il momento di mettere in pratica quanto appreso durante il lungo addestramento: alternare attacco e difesa, fare finte, parare e schivare i colpi, concentrarsi sui punti vulnerabili dell’avversario, colpire a sorpresa7. Cambiarono i tempi ma non cambiò il coraggio dunque. Perché se gli spartani venivano addestrati a morire con dignità, lo stesso principio valeva per i gladiatori – questa rimarrà una costante anche nei secoli a venire.

«Alla fine noi siamo tutti uomini morti, purtroppo non possiamo scegliere quando ma… possiamo decidere come incontrare la fine, in modo da essere ricordati come uomini.»8


In quanto a coraggio Massimo Decimo Meridio ricorda molto William Wallace9, il prode condottiero scozzese col kilt di Braveheart, interpretato da uno smagliante Mel Gibson. Anche se dal punto di vista cinematografico Il Gadiatore offre un non so che in più di sentimentale, di adrenalinico, di esaltante che lo pone sopra ogni altra pellicola appartenente a questo genere: un misto fra historical e action movie. Più d’azione che storico, in effetti, vista la mole di errori “storici” operati dal regista e dalla sua troupe e data altresì la verosimiglianza delle scene di scontri. Il Gladiatore non ruota solo intorno ad una grande figura del passato – che ricorda molto il coraggioso Spartaco – bensì racconta di mondi appartenenti a un’altra era, utilizzando un tono decisamente romanzato. Il film infatti intende mostrare una caratteristica in particolare: l’eroismo di colui che morì da giusto per difendere i suoi ideali, anche se sarebbe meglio dire il suo ideale: Roma. Roma antica. Roma impero. Roma caput mundi. Roma condottiera. Roma vittoriosa. Roma giusta. Questo lato della città, sì moralesco, emerge tuttavia solamente alla fine della pellicola. Nei minuti che precedono la rivelazione finale, infatti, il regista preferisce mostrare il vero volto di Roma: non condottiero bensì corrotto; non filosofico bensì cruento; non “giusta imperatrice” bensì “scacchiera dei giochi di potere”.
Per ciò che concerne il lato più pratico e combattivo de Il Gladiatore, invece, si potrebbero rielaborare diversi parallelismi con 300 di Zack Snyder, mettendone a confronto inquadrature e sceneggiature. Primo fra tutti il costante richiamo all’Ade. Il legionario comandante in carica Massimo Decimo Meridio più volte, nelle sue incitazioni alla battaglia, rimarca nella mente dei suoi uomini l’idea degli Inferi rilasciando affermazioni come: «Al mio via, scatenate l’inferno» o ancora «Ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità». Frasi, queste, che inneggiano a forza e onore, due caratteristiche che a Sparta regnavano sovrane. Non è un caso dunque se anche in 300 re Leonida, ben conscio della loro imminente ma coraggiosa disfatta10, ricorda ai suoi uomini di fare un’abbondante colazione perché «stasera ceneremo nell’Ade». Quest’idea della morte associata al valore umano e ad un eventuale sacrificio in nome della propria patria11 appare dunque in 300 così come ne Il Gladiatore, dove – in un dialogo fra l’imperatore morente Marco Aurelio e il comandante del suo esercito Massimo Decimo Meridio – quest’ultimo rivela di credere ancora in Roma. «Roma è la legge […] Ho una bella casa, vale la pena combattere per essa » afferma con convinzione, seppur non abbia mai visto la sua città – e tutto ciò che ne consegue12. Prosegue poi dicendo «.Io servirò sempre Roma» lasciando intendere che sarà disposto a morire per essa, in ogni circostanza.
Un simile scenario di morte, sempre legato al coraggio, seppur totalmente privo di patriottismo, riemerge nel discorso introduttivo di Proximo13 che si rivolge ai suoi combattenti descrivendo la scena del loro possibile decesso nell’arena.

«Il vostro trapasso avverrà con questo suono (applaude). Gladiatori, io vi saluto.»14

Essere gladiatore significava dunque andare incontro alla morte con coscienza. Significava vivere con la costante presenza di una spada di Damocle calata sulla propria esistenza e continuare comunque a combattere con onore e coraggio, sino alla fine dei propri giorni.

«In fine dei conti dobbiamo tutti morire […] Andate e morite con onore […] Noi mortali non siamo che ombre e polvere […]»15


Il dialogo iniziale fra Massimo e Marco Aurelio si conclude poi con un’invocazione16 dell’aiuto di coloro che per i greci erano gli Efori ma che per i romani sono i sacri antenati, ovvero coloro ai quali ci si rivolge per chiedere supporto in un momento decisivo della propria esistenza. Nel caso di Massimo Decimo Meridio è la scelta di divenire futuro protettore di Roma, una volta scomparso l’imperatore. Scelta difficile, questa, per un uomo che sogna di tornare dalla sua famiglia ed iniziare con essa una nuova esistenza – non più guerrigliera ma contadina – e che invece di essere reso libero si trova a dover rispondere ad una nuova chiamata del suo imperatore, che gli rivela di averlo amato come «il figlio che non ha mai avuto» poiché considerato da tutti il condottiero ideale, colui che dispone di tutte le quattro caratteristiche necessarie per essere definito tale: saggezza, giustizia, fermezza e temperanza (le quattro virtù platoniche).
Tuttavia Massimo non farà in tempo a dare una risposta a Marco Aurelio e sarà così costretto a scappare dai soldati del principe Commodo17 che, geloso per l’amore che suo padre nutriva nei confronti del comandante e timoroso di perdere il trono appena conquistato con l’omicidio, tenta in tutti i modi di farlo uccidere. Una volta raggiunta la sua abitazione – non senza aver prima patito fame, sete e ferite – Massimo si troverà di fronte ad un brutale genocidio, che ha avuto per protagonisti sua moglie e il figlio. Questo scatenerà un inferno nel cuore del comandante romano, che cadrà al suolo privo di sensi e, ancora incosciente, verrà raccolto da terra da alcuni uomini non ben inquadrati. Si ritroverà così in una gabbia di legno insieme ad altri schiavi, come un animale, venduto anch’egli a Proximo come gladiatore18. Dopo un periodo di allenamento, arriva per Massimo il giorno del giudizio terreno: il primo incontro nell’arena. La folla scalpitante siede negli spalti e incita alla più brutale delle violenze. Sangue è la parola d’ordine che gli spettatori rivolgono costantemente ai gladiatori, associato ovviamente a quella di morte.
In questo contesto, totalmente distante dalla sua vita precedente da legionario, Massimo verrà denominato Ispanico e non rivelerà mai la sua identità se non al termine di un lungo e cruento scontro ludico al Colosseo, dal quale uscirà come sempre vincitore. Tolto l’elmo che usava come maschera per nascondere il suo volto, si troverà di fronte al principe Commodo al quale giurerà personale vendetta.

«Il tempo degli onori presto sarà finito per te, principe.»19

Ribellandosi al volere del neo-imperatore Commodo20 e lasciando in vita il suo avversario, Massimo conquista sempre più la fiducia del popolo – che lo rinomina Massimo “il misericordioso” – e di conseguenza conquista la sua libertà da Proximo. Sarà tuttavia una libertà effimera, che riguarderà perlopiù l’abbandono del suo titolo di “schiavo” e altresì il suo riconoscimento in quanto “uomo”. Il gladiatore infatti non diverrà mai totalmente libero dal punto di vista fisico. Prima schiavo di Proximo, poi prigioniero di Commodo, troverà la sua morte sul campo di battaglia: il Colosseo. Ma se non altro il suo trapasso avverrà da uomo libero nell’animo, che ha sacrificato la propria esistenza per mettere a punto la sua vendetta personale nei confronti di Commodo, mandante della strage della sua famiglia.
Posto a principio di tutto l’onore, associato inevitabilmente all’idea di coraggio, un secondo chiaro rimando alla pellicola di Zack Snyder può essere riscontrato nella modalità iniziale dei combattimenti fra gladiatori. Come i soldati spartani di Leonida, infatti, che si trovano a combattere secondo il modello della testuggine proteggendosi l’un l’altro, ne Il Gladiatore non l’esercito romano bensì gli schiavi combattenti utilizzano questa tecnica di copertura. Il primo ingresso dei “guerrieri” di Proximo in un’arena si rivela disastroso. I più penalizzati sono i primi ad entrare, costretti a subire una doppia beffa: gli attacchi a sorpresa dei nemici, già posizionati sul campo di battaglia, e la luce abbagliante del sole, studiata appositamente per impedire una visuale chiara ai gladiatori. Nonostante qualche incertezza iniziale e una prima disorganizzazione, dovuta alla mescolanza di stili e di atleti presenti nell’arena, tuttavia la seconda parte del combattimento ha un lieto fine. La testuggine prevale. Solo combattendo uniti infatti riescono a sopravvivere. Naturalmente le altre battaglie che animano il film – sia precedenti che successive a quel momento – non hanno nulla a che fare con la metodologia greca e con lo stile “a blocco” degli spartani. Le prime inquadrature infatti mostrano uno scontro fra l’esercito legionario e i bruti nordici: disorganizzati e impulsivi, principianti in confronto agli esperti combattenti romani. La scena di combattimento dura alcuni minuti, ma è di certo la più efficace girata negli ultimi anni. Supera di gran lunga scene – già viste e riviste – come quelle di King Arthur o Troy21, offrendo quel pizzico di realismo in più che era venuto a mancare nelle pellicole precedenti. In guerra tutto è concesso, si è soliti dire. E proprio a questo motto si rifanno molte scene di combattimento. Armi e colpi di qualunque genere vengono utilizzati negli scontri fra gladiatori: pugni, gomitate, spazzate, catene, mazze, lance, spade, coltelli. Ma non solo. Gli animali sono una seconda costante di questi giochi pericolosi: soprattutto tigri e leoni. In contrasto con i film epici contemporanei, come ha spiegato lo stesso regista, le scene di combattimento de Il Gladiatore implicano scontri ravvicinati con le daghe, che hanno richiesto coreografie complesse e lunghe sedute di prova per assicurare agli attori la totale sicurezza. Il maestro di combattimenti Nicholas Powell è lo stesso che ha lavorato precedentemente in Braveheart.
Massimo Decimo Meridio morirà dissanguato per colpa di un colpo a tradimento, sferratogli dal principe Commodo22, il quale – da vero codardo – lo ferirà con una coltellata nel fianco prima di fargli indossare l’armatura. Lo scontro fra i due naturalmente si svolgerà all’interno dello splendido scenario del Colosseo. Massimo contro Commodo. Uno scambio continuo di colpi. Due leoni che si affrontano per la preda. La libertà da un lato e il potere corrotto dall’altro. Naturalmente il bene trionferà. Ma il trapasso di Massimo, l’Ispanico, predestinato alla morte, avverrà sulle note della celebre musica di Lisa Gerrard, Now we are free, emozionante ed esaltante allo stesso tempo poiché loda il coraggio di quello schiavo che divenne il liberatore di Roma.


***


1 Meijer F., Un giorno al colosseo (traduzione di Claudia Di Palermo), Bari, Laterza, ottobre 2006, pag. 26
2 Meijer F., Un giorno al colosseo (traduzione di Claudia Di Palermo), Bari, Laterza, ottobre 2006, pag. 26
3 Personaggio tratto dal film Il Gladiatore.
4 Dal film Il Gladiatore. Le parole sono pronunciate proprio da Massimo Decimo Meridio.
5 Meijer F., Un giorno al colosseo (traduzione di Claudia Di Palermo), Bari, Laterza, ottobre 2006, pag. 36
6 Meijer F., Un giorno al colosseo (traduzione di Claudia Di Palermo), Bari, Laterza, ottobre 2006, pag. 116
7 Meijer F., Un giorno al colosseo (traduzione di Claudia Di Palermo), Bari, Laterza, ottobre 2006, pp. 137-138
8 Dal film Il Gladiatore. Le parole sono pronunciate da Proximo, padrone dei gladiatori.
9 Patriota scozzese che guidò i suoi connazionali alla ribellione contro l'occupazione della Scozia da parte degli Inglesi.
10 In principio alla guerra delle Termopili.
11 Anche se talvolta si tratta più di un fragile ideale che non di una realtà certa.
12 Chiara allusione alla corruzione che stava infestando la caput mundi.
13 L’anziano padrone e allenatore dei gladiatori, interpretato da un grande Oliver Reed.
14 Dal film Il Gladiatore.
15 Dal film Il Gladiatore.
16 Da parte del comandante.
17 Subentrato al padre per diritto di successione.
18 Personaggio onnipresente nelle arene in occasione di spettacoli ludici, chiamato a combattere contro altri uomini o bestie feroci.
19 Dal film Il Gladiatore.
20 Commodo aveva mostrato “pollice basso” al termine di un incontro. Ciò avrebbe significato la morte di un combattente dell’arena. Viceversa il gesto del “pollice alto” significava donare la grazia.
21 Dove gli scontri di massa vigono all’ordine del giorno.
22 Interpretato da Joaquin Phoenix.