di Silvia Del Beccaro
Oggi, a distanza di secoli, che significato può assumere il concetto di battaglia? Esistono ancora i vecchi combattimenti, le risse tanto amate dalle bande rivali di una volta? Oppure oggi esistono solo scontri armati? I veri fighter odierni chi sono? Lottatori, judoka, boxeurs, marzialisti orientaleggianti? Se si pensa alle discipline insegnate su un tatami è difficile pensare ad un guerriero vero e proprio. Viceversa, è più facile individuarlo in personaggi del calibro di Jason Bourne – protagonista del film The Bourne identity – o di L.T. Bonham – protagonista di The hunted. Un uomo che sa adattarsi a qualunque situazione. Un uomo che sa difendersi e tratta oggetti di uso quotidiano come fossero armi. Un uomo simile ad una macchina distruttrice, le cui uniche armi sono le proprie mani e la propria arguzia. Il protagonista di questo primo esplosivo thriller – tratto dal best seller internazionale L’uomo senza volto firmato Robert Ludlum – è il vincitore del premio Oscar Matt Damon. Trovato in mare aperto da un peschereccio, con due proiettili nella schiena, Jason Bourne dimostra presto di avere straordinarie capacità con le lingue, i combattimenti e l’autodifesa. Colpito da amnesia, però, non riesce a ricordare il suo passato e la sua vera identità. Tuttavia si rende presto conto di essere un ex agente della Cia, un killer letale da 30milioni di dollari, di cui anche lo stesso governo non si fida più. Spettacolari inseguimenti in auto e incredibili scene di combattimento sono gli ingredienti di quello che al momento risulta essere uno fra i migliori action movies girati negli ultimi anni.
Per vestire in maniera più realistica i panni dell’agente Jason Bourne, l’attore Matt Damon ha dovuto impiegarsi a lungo nello studio delle arti marziali filippine – qual è il kali. Questo per rendere ancor più veritieri gli scontri faccia-a-faccia, ovvero gli scontri uno-contro-uno, che riempiono la maggior parte delle scene d’azione della trilogia su Jason Bourne: The Bourne identity, The Bourne supremacy e The Bourne ultimatum. Tecniche veloci, perfettamente riconoscibili nei programmi di trapping del jeet kune do , sono infatti una costante di tutte e tre le pellicole. Tre film, questi, uniti da un comun denominatore: il protagonista Jason Bourne, ovviamente. Ma non solo. Il jkd accompagna la trilogia come una specie di climax, un turbine di azioni che incalzano sempre più fino all’ultimo atto – The Bourne ultimatum – in cui gli amanti del settore non possono rimanere impassibili di fronte ad una sequenza di combattimento face-to-face lunga circa tre minuti.
Tecniche miste di trapping e kali, che danno vita a combattimenti altresì veritieri, vengono riportate anche nel film The hunted – letteralmente tradotto La preda. Ma mentre nel primo film è solo l’attore Matt Damon a mettere in pratica alcune tecniche di kali per difendersi dal suo aggressore – in possesso di un’arma da taglio – con una banale penna, diversamente in The hunted i combattimenti avvengono quasi sempre fra due personaggi ben riconoscibili: il buono e il cattivo della situazione, che vengono messi costantemente a confronto l’uno con l’altro, Tommy Lee Jones e Benicio Del Toro. La pellicola diretta da William Friedkin descrive minuziosamente la ricerca spasmodica di un criminale assassino da parte di un ex addestratore dell’Fbi – entrambi abili esperti nel maneggiare i coltelli. Seppur la trama rievochi esplicitamente pellicole del passato – quali Il fuggitivo e il primo episodio di Rambo – quello diretto da Friedkin resta sempre e comunque un thriller psicologico di gran stile. Interpretato da un espressivo Tommy Lee Jones e da un tenebroso Benicio Del Toro, The hunted ha inizio in una foresta nei pressi di Portland (Stati Uniti), dove vengono ritrovati due cacciatori morti, uccisi con un coltello come in un rituale. Un agente dell’Fbi (Jones per l’appunto) deve fare riscorso a tutta la sua esperienza e al suo coraggio per catturare il serial killer (Del Toro), il cui stato psicotico è così radicato da far parte della sua personalità e da non permettergli di tornare indietro. Anche in questa occasione, dunque, Benicio Del Toro non riesce a staccarsi dalla consueta parte del cattivo, che lo accompagna da sempre e che riemerge anche in questa pellicola in cui è stato costretto ad indossare ancora una volta i panni dell’antagonista: colpa, forse, di quel suo viso duro e virile che lo fa rassomigliare più ad uno psicopatico latente che ad un personaggio comico. E non è un caso, allora, se la figura attorno a cui impernia tutta la vicenda di The hunted è proprio quella di un brutale assassino abile nel maneggiare i coltelli e capace di utilizzarli quali armi mortali. Un ex militare addestrato a sopravvivere e a uccidere, in modo rapido, preciso, sicuro. Le sequenze temporali della pellicola hanno inizio nel lontano 12 marzo 1990 e rievocano il momento dell’assedio di un villaggio albanese da parte dei serbi. Benicio Del Toro è uno dei militari chiamati alle armi per difendere il villaggio e in quel contesto assiste a così tanti genocidi, che la sua mente – negli anni a venire – inizia ad assillarlo con flashback di uccisioni, immagini di teschi e guerriglia, scene di sparatorie e urla inquietanti. È diventato una macchina della morte. La scena si sposta poi nell’Oregon e giunge più o meno ai giorni nostri, ovvero al 2003.
Efficaci e realistici sono gli innumerevoli combattimenti di kali filippino, che si ripetono più volte nel corso della pellicola. L.T. Bonham e Aaron Hallam danno infatti vita a combattimenti con i coltelli caratterizzati da un estremo pragmatismo, a cui vengono combinate talvolta tecniche a mani nude e posizioni di lotta a terra. Il film deve essere apprezzato proprio per questo: la messa in scena molto realistica dei combattimenti coi coltelli (hand-to-hand) a scapito delle solite tipiche scene hollywoodiane degli stunt-man.
«C’è sempre del rispetto in chi uccide con le proprie mani.»
Sotto il profilo visivo, l’occhio viene pienamente soddisfatto. Le scene sono potenti e ricche di suspense, tanto da rapire l’attenzione dello spettatore per lungo tempo. Forse l’estrema violenza che William Friedkin ha volutamente inserito nella pellicola ad alcuni potrà sembrare un po’ troppo esagerata; d’altronde quando si predilige il realismo alla finzione occorre accettare questo genere di scelte. La vita militare, gli addestramenti degli agenti dell’Fbi, la costruzione di un coltello artigianale con pietre e legno, i combattimenti di kali: sono tutte scene che fanno dimenticare interamente il resto della trama, di per sé semplicistica e già nota al grande pubblico. Tecniche serrate di attacchi e difesa si susseguono e si intrecciano a gesti di trapping armato: lotta a terra, ginocchiate al corpo, leve ai polsi, scontri a mani nude contro attacchi di bastone. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile se William Friedkin non si fosse avvalso della collaborazione di esperti del settore, che hanno messo a disposizione del regista la loro esperienza nel campo delle arti marziali.
Peccato che il cinema italiano non creda ancora in questo genere di cooperazioni; le pellicole d’azione nostrane trarrebbero solamente giovamento dall’inserimento di esperti italiani nel campo del jdk e del kali. Tutto diverrebbe decisamente più realistico. Molti film hanno sfruttato la disciplina del kali filippino rendendola un’arte della coreografia, scritturando atleti-attori in grado di maneggiare i bastoni in maniera a dir poco stupefacente. Roteazioni spettacolari, scene di combattimenti scintillanti... Da ciò sono sorte certamente sequenze che attirano l’attenzione del pubblico, ma che di fatto sono decisamente poco reali. Noi pensiamo invece che questa disciplina sia qualcosa di più. Il suo vero obiettivo infatti è l’autodifesa, tesa a neutralizzare un attacco attraverso l’uso di un’arma – generalmente un bastone o un coltello. Non parliamo solo di armi contundenti, bensì anche di semplici oggetti che utilizziamo nel nostro quotidiano – anche se non sempre diamo loro la giusta importanza. In particolare facciamo riferimenti a ombrelli, giornali, biro... Semplici sì, ma comunque di grande efficacia. Le scene succitate possono apparire un po’ crude, ma rendono perfettamente l’idea di cosa significhi sapersi difendere senza utilizzare forzatamente armi pericolose – per gli altri ma anche per noi stessi – come coltelli o simili. È proprio così che la Combat Dept. interpreta il kali: nessuna coreografia o finzione, bensì posizioni naturali, tecniche semplici ed efficaci e massima sicurezza per chi si difende. Avere padronanza del proprio corpo, sapersi confrontare con tutti, capire la paura e controllarla, affidarsi all’istinto. Sono queste le basi di un vero combattente. E sono queste le basi dei nostri sistemi.
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