A ragion veduta, si pensa che il terrorismo sia il “male radicale” della nostra epoca, alla stessa stregua del nazismo durante il Secondo conflitto mondiale. La cosa più sconcertante è l'identikit del terrorista odierno, ovvero: tra i venti e i trent'anni – dunque giovanissimo –, buona cultura, cresciuto in una famiglia perbene, aspetto apparentemente innocuo. Addirittura fra di essi si contano ragazzi occidentali, educati e cresciuti coi valori più genuini della nostra civiltà. A questo punto, riflettiamo un attimo, senza aver paura di mettere a nudo i nostri pensieri. La riflessione, d’altronde, è l'unica arma che ci è rimasta per sconfiggere l'apatia mentale e per filtrare quei refusi mass-mediali, più che notizie vere e proprie, che oramai ci tempestano da tutte le parti…
Comprendiamo – sebbene non giustifichiamo –, con le debite proporzioni un giovane kamikaze-palestinese che vive di stenti, spesso in famiglie numerosissime e trascorre la propria esistenza nella miseria più totale, perlopiù in degradate baraccopoli. In un simile caso umano disperato si possono ben comprendere le ragioni di come questi possa venire facilmente abbindolato da gente priva di scrupoli, che lo convince a votarsi al martirio. Nelle misere condizioni in cui è stato allevato e dopo tutto quello che ha patito, come si potrebbe fargliene una colpa? Ammettiamo, dunque, di riuscire anche solo lontanamente a concepire le motivazioni che lo inducono a tramutarsi in uomo-bomba, specialmente dovendo fare i conti con l'illogico e sanguinoso scacchiere mediorientale. Diversamente non riusciamo proprio a figurarci come un giovane dal radioso avvenire targato “made in England” – che ha vissuto la sua esistenza alla maniera occidentale – d'un tratto possa divenire il nemico pubblico numero uno. Se c'è un unico comandamento su cui tutte le religioni sono inequivocabilmente concordi – islam, cristianesimo, buddhismo, induismo, taoismo, eccetera – crediamo sia senz’ombra di dubbio: non uccidere!
Nelle guerre di oggi è sparita la benché minima briciola di santità, ammesso ve ne sia mai stata in qualche guerra. Le guerre odierne, infatti, non hanno nemmeno uno “stinco di santo”. Una volta, almeno, nelle guerre a morire erano in larga misura i soldati chiamati a combatterle. Ora come ora non avviene neppure più questo. A rimanere sotto le macerie delle bombe o degli attentati terroristici sono perlopiù persone innocenti prive di alcuna responsabilità diretta. Sangue chiama altro sangue e, finché non ci metteremo tutti in testa che esso è dello stesso colore, sia per le vittime dell'una che dell'altra fazione, non vi sarà mai tregua agli atavici conflitti del nostro pianeta. Con le guerre non si è mai ottenuto granché, se non riempire di macabre immagini la galleria degli orrori storici. E quando qualcuno a Washington lo capirà, forse assesteremo una batosta decisiva ai terroristi, togliendo loro l'unica linfa vitale nonché unico appiglio: l'odio, un odio troppo viscerale e troppo a lungo covato, che può venire unicamente contrastato facendo fare alla diplomazia il suo lento ma inesorabile corso. Solo grazie ad essa si possono mettere a tacere: sia le armi che i cultori dello scontro di civiltà. Ad essere sinceri, dovremmo tutti concordare che, in fondo, esiste una sola ed unica civiltà umana.
Il termine civiltà, secondo alcuni, evoca uno sfondo drammatico perché non può che essere declinato al plurale: le civiltà. Esso testimonia come il mondo non sia unito e, a dire il vero, non lo sia mai stato, bensì come sia sempre stato caratterizzato da una plurima eterogeneità. Sempre per costoro, il “feticcio” della democrazia si illude di poter riunire l'intero genere umano sotto un'unica bandiera. Dicasi: utopia democratica! Inutile far notare ad essi come la tecnica abbia potuto unificare il mondo in corso d'opera, poiché costoro ribatterebbero che la tecnica non è mai riuscita ad impossessarsi della materia con cui sono fatti gli uomini, ovvero i sogni – per usare una bella metafora shakespeariana. Secondo questi teorici impregnati di dogmatismo: lo spirito incide più della tecnica, ossia riesce a penetrare con maggior efficacia quelle regioni dell'anima altrimenti invalicabili. Infine, costoro aggiungono: se i passati non sono mai stati uniti neanche i presenti potranno mai esserlo, finché esisteranno passati diversi vi saranno sempre futuri diversi, il sogno roosveltiano di “un solo mondo” è materialmente impossibile da realizzare...
A questa visione pessimista ci sentiamo di contrapporre la nostra, nettamente più ottimista. Se per costoro il bicchiere è mezzo vuoto per noi invece è mezzo pieno. Ovvero: ciò che ci divide è sempre inferiore a ciò che ci unisce. Diteci pure idealisti ma noi crediamo ancora che “un altro mondo è possibile”, poiché siamo convinti che noi umani possiamo agire concretamente sulla storia e non solo essere agiti da essa – come molti erroneamente pensano. Il popolo con la sua sola “volontà di potenza” può modificare l'intero corso storico. Compito di ciascun popolo è quello di tirare il freno d'emergenza alla locomotiva impazzita della storia, altrimenti destinata allo sfacelo – per usare una suggestiva immagine benjaminiana. Le rovine della storia dovrebbero servirci da monito per risparmiarci l'inenarrabile sequela di errori fin qui commessi. Il filosofo messicano Carlos Santayana afferma: «Chi dimentica la storia è spesso condannato a ripeterla».
A nostro parere, l'essere ottimisti sul corso della storia è per noi uomini una necessità connaturata, poiché altrimenti niente e nessuno potrebbe salvarci da una fine ingloriosa. Noi non siamo fra quelli che pensano che siccome fin qui tutto è andato storto allora bisogna rassegnarsi al nostro ineluttabile destino – che ci vede già perdenti in partenza. Questo spirito di rassegnazione è semplicemente controproducente alla nostra causa umana, quindi crediamo non ci resti che remare controcorrente e perseverare nel nostro incessante combattimento quotidiano. Sperando che, come noi, la pensino molti altri “guerrieri dello spirito”. Meno saremo a rassegnarci e più probabilità avremo di non far scomparire dalla faccia dell'Universo il nostro genere umano, seriamente minacciato d'estinzione. Il nostro “imperativo categorico” dovrà essere d'ora in poi: possiamo e dobbiamo cambiare il corso della storia!
Se c'è una cosa che riesce a darci più fastidio è la presunzione di certi pensatori, che con il loro pessimismo cosmico leopardiano si credono anticonformisti mentre sono di un conformismo dei più aberranti. Se andiamo a dare una scorsa indietro alla storia dei popoli, ecco che possiamo vedere come la superstizione abbia fatto sì che l'umanità si dividesse in due schiere, padroni e servi, invece che in una sola comprendente tutti gli uomini eguali in tutto e per tutto. Finché i primi tennero i loro fetidi piedi premuti sulle teste dei secondi, non vi fu uomo che potesse dirsi davvero libero. Quest'uomo però un giorno scese in mezzo a noi e si erse mastodontico fra i suoi simili, non accettando più i soprusi che gli venivano inflitti: il suo nome era Spartaco e ancora oggi riesce ad emozionare coloro i quali conservano – pressoché intatta nelle segrete prigioni dei loro cuori – la scintilla rivoluzionaria. Costui fu l'iniziatore del cammino verso la liberazione del genere umano dalle catene della schiavitù, fu il Titano Prometeo in carne ed ossa, amico a tal punto degli uomini che distribuì loro il fuoco sacro della tecnica. Questo nuovo Prometeo fece sì che nessun uomo si sentisse inferiore a qualunque altro suo simile. Con labbra tremanti riusciamo a malapena a sillabarne il nome: S-p-a-r-t-a-co. È come se il suo nome, altamente evocativo, facesse vibrare ogni corda del nostro essere. Un ultimo pensiero colmo di gratitudine non può che andare a lui, Spartaco, il-più-possente-fra-gli-uomini. Ti ringraziamo infinitamente per averci trasmesso la tua preziosa scintilla. A noi non rimane che esserne degni...
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