Dicesi
baronati universitari il sistema clientelare vigente all’interno delle università italiane. Chi sono i
baroni – nel senso dispregiativo del termine – delle suddette università? Delle sotto-specie di professori, poiché tutto fanno fuorché fare il loro mestiere con correttezza e trasparenza. Vorrei raccontarvi una storia che mi ha visto protagonista
in negativo, nel senso che per me è finita male.
Mi trovavo la scorsa settimana su al nord per un concorso di dottorato. Francamente non volevo andarci, per un mucchio di ragioni. Non voglio sembrarvi il solito “vittimista”, che prima mette le mani avanti solo per non fare dopo brutta figura. È proprio che io – non mi chiedete
come o
perché – sapevo già chi sarebbe passato in questo dottorato. Sarà che sono un sensitivo, inconsapevole di esserlo. Sarà che possiedo una sfera di cristallo da qualche parte nella mia testa, che mi ha permesso di decifrare gli oscuri eventi futuri. Chissà… o forse, più semplicemente, sarà che sono un incrollabile empirista, che fa tesoro della propria esperienza per interpretare i comportamenti poco chiari di chi gli sta intorno. Non lo so, non chiedetemelo. Una cosa, però, la so quasi per certo. Il concorso a cui ho preso parte è stata una rocambolesca messa in scena. Certo, non ne ho le prove, ma quanti colpevoli sono a piede libero perché non si trovano stracci di prove da imputargli contro? Tanti, troppi anche.
Stranamente in commissione vi erano tre professori, ognuno proveniente da un’università diversa. Altrettanto stranamente sono passati due candidati per ognuno di questi professori incriminati. Sarà stato un caso, una coincidenza oppure una
combine in piena regola. Chi lo sa. Sta di fatto, però, che due di questi candidati – di cui non discuto le capacità intellettuali – li conoscevo bene e sapevo che erano “sponsorizzati” da alcuni membri influenti delle gerarchie di facoltà. Prima di dare fuoco alle polveri, come si suol dire, ossia prima d’iniziare la prova scritta, parlando con un paio di colleghi, mi sono scappati detti i due nominativi sicuri – quelli insicuri eravamo io e altri due – che secondo le mie previsioni ce l’avrebbero fatta ad accedere al dottorato. Magia delle magie, il mio pronostico si rivelò azzeccato. Lì per lì ho pensato: “Sarà il caso che mi dia all’Enalotto, visto che azzecco i nomi chissà che non vi riesca pure con i numeri…”.
L’esame scritto è filato via liscio. È stata sorteggiata una delle tre buste – sembrava di stare in qualche trasmissione televisiva, del tipo: scegli la busta giusta. È uscito un tema – che naturalmente, come sfiga vuole, c’entrava ben poco con quello che ci aspettavamo tutti, o quasi tutti – insisto su quel
quasi. Ci sono state date due buste, una grande e una piccina, un foglietto, un paio di fogli a righe, una penna anti-sofisticazione uguale per tutti. Sulla busta piccola ci hanno detto d’infilarci il foglietto con tanto di nome, cognome e data di nascita, e di sigillarla, inserendola poi nella busta grande insieme ai fogli scritti, a sua volta debitamente suggellata. Tutto ciò per trasparire l’aura di massima imparzialità dei commissari giudicanti. Peccato che per ogni regola esista sempre l’eccezione che serve ad aggirarla. Basta un nonnulla, infatti, per far saltare tutto il sistema, come ad esempio: avvertire un professore della commissione con quale
incipit si è voluto iniziare il proprio scritto; o magari, fare un minuscolo scarabocchio identificativo a bordo pagina; per non parlare della calligrafia talmente diversa e così particolare per ognuno, che può benissimo essere riconosciuta da chiunque. Se proprio si volessero fare le cose per bene, si dovrebbe far scrivere tutti al computer, così almeno si renderebbe più ardua la vita a certi imbroglioni patentati…
A questo punto chiunque potrà pensare di me: “È arrivato il solito deluso, che per problemi di acidità e ripicca incomincia a sparlare di tutto e tutti, sputando sulla minestra che voleva mangiare pure lui.”. Il che, lo confesso, potrebbe essere più che verosimile se solo chi vi parlasse fosse davvero interessato a venire ammesso in qualche dottorato. Tuttavia, personalmente, non ci tengo a fare il precario a vita e ad essere in balia di loschi figuri, che a seconda di come gli gira decidono delle tue sorti. Iniziare e concludere un dottorato, in realtà, se non ti dai parecchio da fare a tirare leccate a destra e a manca, quasi certamente non ti servirà a prendere in consegna qualche cattedra universitaria, una volta nominato ricercatore. Resta il fatto, però, che a me non importa una sega di questa stramaledetta ammissione. Ciononostante – e ciò non è una contraddizione – ho voluto sperimentare di persona – della serie: sbatterci proprio il muso frontalmente – alcune risapute dicerie. Il mio tentativo di spuntarla in un dottorato di ricerca è voluto essere un
esperimento sociologico, che qui lo dico e non lo nego è stato solo il primo di una lunga serie, visto che sono più che mai persuaso a ritentare in futuro – fino ad esaurimento nervoso.
Come ogni buon sociologo che si rispetti, pur non essendolo io stesso – tutto ciò che finisce in “ologo”, compreso “soci-ologo”, non m’interessa affatto –, ho individuato un ambito d’indagine e quindi ora non faccio altro che sgobbare sodo sul campo. Come fanno i sociologi di professione, inoltre, anch’io ho cercato di aiutarmi non solo con le parole, ma anche con i numeri, precisamente con alcune statistiche. Fra le tante, ne basti una – a titolo esemplificativo: ho calcolato che vi sono per me, candidato privo di raccomandazioni ai piani alti del Palazzo, più probabilità di vendere un milione di copie del mio romanzo, prossimamente in uscita, che venire selezionato in un concorso di dottorato. Come spiegazione pseudo-razionale – ad una statistica che di razionale ha ben poco – ho trovato che nonostante il
calcolo numerico mi dia una possibilità su venti di accedere al dottorato, mentre per la vendita di un milione di esemplari del mio romanzo il rapporto è sfavorevolmente uno a un milione, il mio
calcolo morale mi dice esattamente il contrario. Tale conteggio trae lo spunto da un episodio significativo – uno di molti –, che mi è stato raccontato e che più mi ha colpito, in assoluto, per la sua sorprendente assurdità. Vi avverto: siete liberi di non crederci, neppure io ci credo tuttora o almeno
non voglio crederci…
Il protagonista è un importante professore ordinario di un’università italiana. Costui seleziona i suoi candidati in base a quanto sfacchinino per lui e per la moglie. Nel senso che se tu vuoi essere scelto come suo “dottorando” devi reggere dei ritmi infernali – tipo quelli della segretaria tuttofare protagonista del film
Il diavolo veste prada, tanto per capirci. Devi… lavargli la macchina il sabato o la domenica. Portare due volte a settimana la moglie a far la spesa o commissioni varie – tipo in banca, in posta, in giro per negozi a far compere, eccetera. Rispondere alle e-mail dei suoi “laureandi”, nonché leggere le tesi di laurea dei medesimi e riferirne poi il contenuto nientemeno che al
boss in persona. Allacciargli la cravatta, con il doppio nodo come piace a lui. Servirgli il caffè d’orzo, regolarmente in tazza grande, nel suo studiolo privato. Fargli la barba tutte le sacrosante mattine. Gestire i suoi appuntamenti clandestini con le sue amanti-studentesse, poco
modello ma molto
modelle – che per un trenta e lode nel loro
curriculum studiorum sono ben disposte a sottomettersi nella posizione canonica del “missionario”. Infine, proprio in-fine, il requisito indispensabile per diventare un suo “cane di razza” è redigere le bibliografie dei suoi libri. Qui il candidato-schiavo dovrà citare dettagliatamente ogni singola pubblicazione del suo mentore, senza dimenticarsi neppure un solo articolo apparso in qualche rivista specialistica – e siccome stiamo parlando di un professorone ordinario “cariatide” vantante una carriera accademica trentennale –, vi assicuro che c’è un bel po’ di roba da ricordarsi…
Non possedendo i suddetti requisiti mi sono subito persuaso che forse quella del “dottorando” fosse una professione non adatta a me. Allergico ad ogni forma di sottomissione come sono, penso proprio che al posto del candidato sopra descritto avrei… Rotto i finestrini della sua macchina invece che pulirglieli. Azzoppato la moglie così non si sarebbe mossa da casa. Insultato via mail i suoi “laureandi”, cestinando i file contenenti le loro tesi del cazzo – ho detto cazzo?! Scusate, chiedo venia. Stretto volutamente forte il nodo della sua dannata cravatta. Sputato sul suo caffè d’orzo, correggendolo alla mia maniera. Usato il
machete per fargli la barba, ferendolo ripetutamente. Filmato i suoi incontri “a luci rosse” con le studentesse-squillo, mettendo poi i video su YouTube. E,
dulcis in fundo, avrei inserito per protesta nelle sue bibliografie indicazioni errate, quali: Siffredi, R., Io e lui, Edizioni Cazzi Dritti, Pornolandia, 2023. Oppure mi sarei sbizzarrito ad elencare tutti i numeri di Topolino, Tex, Dylan Dog, Corto Maltese e così via. (Del resto, io aborro le bibliografie. Credo siano un inutile perdita di tempo. Se vuoi citare il libro di qualcuno lo metti in nota, punto. Conosco certi filosofi, che sembrano dare più importanza ai loro riferimenti bibliografici, che ai contenuti delle loro opere. Uno di questi è stato buono a dire ad un suo “laureando” capace di scrivergli cento pagine di bibliografia, che comunque non andava bene ed era ancora troppo superficiale. Figuriamoci cos’avrebbe detto a me, che di norma nei miei scritti non supero le tre pagine di bibliografia. Non sono molto lontano dal vero se dico che mi avrebbe fucilato seduta stante, o peggio ancora bocciato! Sarà… ma io prediligo, quando scrivo, dare più importanza a quanto vado dicendo, che a
quanti libri riesco a citare esibendo tutta la mia smodata paraculaggine…). Vale per i "dottorandi" il motto dantesco: "Abbandonate ogni speranza voi che entrate..."!