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23.4.09

Bilancio Festival '09

di Marco Apolloni (Autore anche di un nuovo blog

Se il Festival di San Remo diventa la succursale di Amici vuol dire che un “male oscuro” sta affliggendo la nostra nazione. Di che male sto parlando? Il “mal di audience”, ovvero come fare tutto per distruggere la qualità artistica della canzone italiana, a favore della “cultura da massaia”. Senza peraltro nulla togliere alle suddette, che non me ne vorranno se le critico nella loro eccentrica veste di giudici inappellabili dell'arte nostrana. Il problema di fondo non è tanto che il Festival di San Remo sia stato vinto da un ex parrucchiere sardo, pur sempre con una bella voce – gliene ne do atto. Piuttosto è “come” lui sia riuscito a spuntarla nella kermesse canora che ha dell'inquietante. La sua canzone, sì orecchiabile – per carità –, presenta un testo che sembra scritto da un bambino di terza elementare, con un vocabolario personale – per usare un eufemismo – abbastanza “limitato”. Con ciò non vorrei essere equivocato e soprattutto non vorrei passare per ammiratore segreto dei testi di Battiato – anche se per me è un genio –, però non posso nemmeno dire di essere un fan di Povia – giustamente preso in giro da quei furboni della Gialappa's. Chissà per quale strana coincidenza, ma appena il Festival scende un po' di livello eccolo subito spuntare come un fungo quanto meno nel podio – se non da vincitore, quasi. Dopo la canzone dei bambini – l'unica salvabile – e quella del piccione, quest'anno il cantautore milanese s'è cimentato in quella del gay, con tanto di esposizione di mega cartelloni – stile Gay Pride – durante l'esibizione. Ho gradito invece la canzonetta di Arisa, vincitrice della sezione dedicata ai giovani, che al primo ascolto ho subito battezzato “vincente”. Non a caso la sua Sincerità è già diventata un tormentone. L'unica pecca di questa promettente ragazza genovese è il suo personaggio che, “to be honest”, mi sa un po' di costruito...  
Non che l'anno prima le cose fossero andate meglio, qualitativamente parlando. Non essendo critico musicale, ma modesto scribacchino, nella mia critica – che spero troviate costruttiva – faccio riferimento soltanto alla lacunosità dei testi. A proposito: chi di voi ha più sentito parlare, dopo la vittoria al Festival dell'anno scorso, del mitico Giò Di Tonno? Bah, sfido chiunque a darmene notizia. Starà cantando al matrimonio del suo migliore amico? Oppure si starà esibendo alla Sagra del Pesce di Montesilvano? Chissà... In compenso la sua partner canora: Lola Ponce, si limita a mostrarsi nella sua tenuta déshabillé in Mai dire Grande Fratello e ad essere puntualmente presa per i fondelli dall'istrionico Mago Forest. Insomma pare essersi sistemata nello showbiz nazional-popolare. Mi aspetto solo che fra qualche anno la chiameranno a sostituire Alessia Marcuzzi nella conduzione del reality più trash del panorama televisivo mondiale, poi sì che ne avrà fatta di strada... 
Volendo ampliare l'angolo visuale sul Festival di quest'anno vorrei toccare la nota ancor più dolente dei grandi ospiti, cantanti o showman che siano stati. Del Noce non si è smentito neppure stavolta, estraendo dal suo libretto paga due nomi su tutti, mi riferisco: all'oramai arrugginito Roberto Benigni e alla patinata Annie Lennox – più bella oggi che vent'anni fa. Lo “showman” Benigni, diciamocelo, ce l'ha un po' fracassati con le sue solite boiate sul Cavaliere. Anche se, di questi tempi, ti si leva la voglia di far battute sulla “rottamata” sinistra: la gente vuole ridere, mica piangere! Ma riconoscerete anche voi che, per quanto il soggetto stra-usato del nostro anziano Presidente del Consiglio, sì è vero che si presta molto bene a del facile umorismo ed anzi egli stesso pare cimentarsi volentieri nel genere, però francamente non se ne può proprio più. Quasi che ho trovato più divertente il Cavaliere con l'ultima sua frecciatina dedicata al “bello e abbronzato” neo Presidente in carica degli States – ho solo detto “quasi” però. Tornando al Robertone nazionale, va detto che, da quando ha incominciato a far film cervellotici – da Pinocchio in poi tanto per intenderci – e a portare in tour la Divina Commedia, mi pare che abbia un po' perso l'antica verve, quella che lo rendeva il più esplosivo comico italiano. Del resto, si sa, un Oscar in certi casi può darti di volta il cervello. (Come la maledizione del Pallone d'Oro, secondo cui: chi lo vince, poi, comincia a giocare da schifo!) Sola attenuante per il comico toscano può esser stata la mancanza dei genitali di Baudo, per lui evidentemente fin troppo stimolanti... (A proposito: “Pippo torna, ci sei mancato!”.) La “cantante” Lennox invece, il fatto che sia brava nessuno lo mette in dubbio, ma del resto questo lo sapevamo. Infatti quante volte era già venuta al Festival: tre o quattro? Boh, confesso di aver perso il conto. Parafrasando una tua meravigliosa canzone: “Why Annie sei ritornata a San Remo?”. Per presentare in anteprima la tua nuova collection? O per i bambini malati e bisognosi di cure dell'Africa? Se è per il secondo motivo sei ampiamente scusata e, anzi, come redattore di Impegno Sociale mi scuso io con te per averne dubitato. 
Conclusa la parentesi “grandi ospiti”, non resta ancora molto da dire su quest'edizione decisamente sfortunata del Festival della canzone italiana. Come direbbero a Roma: “Aridatece Moro...”! «Pensa prima di sparare / Pensa prima di dire e di giudicare prova a pensare / Pensa che puoi decidere tu / Resta un attimo soltanto un attimo di più / Con la testa fra le mani / Ci sono stati uomini che sono morti giovani / Ma consapevoli che le loro idee / Sarebbero rimaste nei secoli come parole iperbole / Intatte e reali come piccoli miracoli / Idee di uguaglianza idee di educazione / Contro ogni uomo che eserciti oppressione / Contro ogni suo simile contro chi è più debole / Contro chi sotterra la coscienza nel cemento / Pensa...». Queste parole, combinate con l'abilità vocale del bravo cantante, formano secondo me una bella canzone. Altro che La forza mia... Quindi l'appello che faccio ai telespettatori per il Festival dell'anno prossimo, sulle del summenzionato cantautore romano è: Pensate / Prima di votare e di giudicare / Pensate che potete decidere voi...                  

(Articolo apparso sullla rivista bimestrale Impegno Sociale, numero marzo-aprile 2009. Dello stesso Autore leggi anche: http://viverefilosofando.blogosfere.it/)

1.12.07

Africa "in corsa" verso la libertà

di Silvia Del Beccaro


Non sono qui per fare demagogia, sia chiaro. Ma il quesito che intendo porre credo necessiti davvero di una riflessione seria. Esistono un’Africa ricca e un’Africa povera? E se sì, dove finisce l’una e dove comincia l’altra? È vero che l’Africa ricca è quella degli hotel internazionali, dei convegni, delle grandi città, dei commerci e degli smerci? Ed è altresì vero che l’Africa povera è fatta di sole baraccopoli in fango e legname, di bestiame e di malattie? Dal nostro punto di vista “occidentaloide” non esiste altra risposta all’infuori di un “sì”. Io stessa sono cresciuta con l’immagine di un Terzo Mondo fatto di siccità, denutrizione, guerriglie e Aids. A chiunque verrebbe da dire: “È normale!”, “QA, Questa è l’Africa” – citando Leonardo Di Caprio, che fa questa affermazione nel film Blood Diamond. Ma tutto questo è davvero “normale”? O forse no?!
A detta mia è tutta questione di semantica. Attribuire un senso al concetto di ricchezza forse è il primo passo da fare per poter iniziare una riflessione approfondita sul continente nero. Essere ricchi significa disporre di qualcosa in più rispetto ad altri. Significa essere consapevoli di possedere qualcosa che altri non hanno. Dunque partendo da questo presupposto che cos’ha l’Africa in più degli altri? Qual è quella caratteristica che contraddistingue gli africani dagli altri cittadini del mondo?
I migliori maratoneti di calibro mondiale, per esempio, sono africani. Nelle olimpiadi specialmente, come nelle competizioni minori, sono invidiati da tutti. La loro leggiadria, la loro scioltezza, la loro resistenza… Hanno un carattere forte, loro, forgiato dal fuoco di mille battaglie – anche quelle non realmente combattute. Sangue competitivo scorre nelle loro vene e nulla e nessuno potranno mai levarglielo di dosso. Non a caso proprio gli africani fanno parte di quell’élite di maratoneti – se non addirittura gli unici – in grado di allenarsi per ore ed ore sotto il sole cocente, a piedi nudi, senza mai risentire minimamente della stanchezza o delle insolazioni.
In questo i maratoneti africani sono identici ai leoni loro conterranei, unici felini al mondo ad essere davvero liberi. Sì, liberi di girovagare sui percorsi polverosi della savana senza dover essere ammirati o fotografati al di là di una gabbia (come accade viceversa negli zoo o nei circhi). Per entrambi quella corsa un po’ selvaggia, all’impazzata, sui deserti aridi dell’Africa Nera concretizza un desiderio intrinseco di indipendenza. La stessa indipendenza che il popolo africano reclama da secoli e che ancora oggi non riesce ad ottenere. Come la falcata del maratoneta verso la vittoria, così la corsa infinita degli africani verso un cambiamento decisivo è assai sofferta. Il traguardo sembra sempre più distante e l’idea di non giungere mai a un termine, alla meta prefissata, disorienta il popolo e lo conduce a provare rabbia e sfiducia nei confronti del loro governo. Specialmente nei Paesi presieduti dagli eserciti militari, i rapporti fra semplici cittadini e governo in auge non sono dei più idilliaci.
Tuttavia la speranza non cessa di esistere, nonostante la sfiducia fra le due componenti cresca in maniera del tutto sproporzionata. Ma ecco allora che la speranza tenta una sua concretizzazione in qualcosa di più pratico, ovvero: quella corsa sfrenata che maratoneti e leoni condividono, accomunati anche da un istinto di sopravvivenza innato e da un Dna che reclama da sempre la libertà – sia d’animo che fisica. Sono proprio questi due esemplari autoctoni – leone e maratoneta –, dunque, ad incarnare il sogno africano di un futuro roseo – e non nero come il continente – in cui questo popolo possa veramente dirsi libero. Libero da luoghi comuni e pregiudizi. Libero da schiavitù ed eserciti padroni. Libero di essere solo se stesso di fronte al mondo intero, senza dover essere continuamente contrassegnato dal bollino nero del debito economico. Quando questo accadrà, allora sì che il popolo africano potrà sentirsi pienamente soddisfatto e proverà cose che non hai mai provato finora. Solo allora, infatti, sarà in grado di interpretare la grande soddisfazione che un maratoneta prova quando, per primo, taglia il traguardo olimpionico. Una sensazione che non è minimamente paragonabile alla vita appariscente dei grandi “ricchi” africani negli hotel di lusso delle metropoli. Una sensazione che nessun “ricco” – all’infuori di quello d’animo – è capace di provare. Perché quello sguardo, quella gioia, quel coinvolgimento che un corridore prova al termine di una lunga ed estenuante corsa olimpionica non sono affatto lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un singolo individuo che sta correndo per se stesso, per vincere un titolo che lo renderà noto per tutto il resto della sua esistenza e negli anni a venire. No. Quelli sono lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un intero continente, che proprio in quel magro, scuro, stanco maratoneta ripone la speranza di una vita migliore. Perché la libertà è un tesoro che non ha prezzo. Per tutto il resto c’è...

23.11.07

La nascita del Partito Democratico

di Marco Apolloni

Una nuova creatura è stata partorita in quel “variegato” universo politico nazionale. Si chiama Partito Democratico, ma dagli amici si fa già chiamare con la sigla abbreviata PD. Il traghettatore, il Caronte di turno, che avrà il compito di condurre quella risma di politici dannati e litigiosi lungo le acque sulfuree dello Stige infernale, è nientemeno che Walter Veltroni.
Sì, proprio lui, quello che lo spietato vignettista Forattini raffigura come una macchietta con il corpo di larva e una faccia floscia, con l'inconfondibile neo alla Cindy Crawford in rilievo. L'immagine veltroniana consegnataci dal tratto del celebre vignettista non gli rende certamente onore. Anche se in quanto ad avvenenza questi non può decisamente competere con i suoi due colleghi “piacioni” Rutelli e Casini. Se non altro si tratta di un politico purosangue, a trecentosessanta gradi, che svetta sugli altri per cultura e umanità. Scrittore da un lato e terzomondista convinto dall'altro, Veltroni incarna il “volto nuovo” della politica italiana.
Il suo lato umano – anche se dovremmo dir meglio “umanitario” – merita una particolare menzione. Un politico con l'Africa nel cuore, questo è Veltroni; ossia uno con un occhio di riguardo per gli emarginati della terra, persuaso che le loro sfortune presto o tardi finiranno con il riversarsi sciaguratamente su di noi e che, quindi, prima ci occuperemo delle loro piaghe sanguinanti e prima cureremo anche le nostre – tra cui su tutte: una selvaggia quanto sfrenata immigrazione. Perché dare un aiuto a queste persone nella loro terra madre, può voler dire non ritrovarsele dietro la porta di casa a elemosinare disperate la nostra carità, che a noi non costa nulla o quasi mentre a loro garantisce un pasto caldo per tirare a campare...
A questo proposito, naturalmente, ha qualcosa da ridire il líder máximo della Casa delle Libertà, che sorride all'idea che Veltroni rappresenti la “novità assoluta” della politica italiana. Di sicuro Veltroni non è politicamente “vergine” e vanta senza dubbio una non indifferente esperienza politica sin da quando, poco più che ventenne, entrò a far parte del consiglio comunale della sua città natale. Se non altro, però, di lui possiamo dire che sia “il più giovane fra i più esperti” e fidatevi che in tempi di magra come i nostri e – quel che è peggio – in un Paese come il nostro, abituato all'egemonia politica degli ultra-settantenni, non è poco. Quando si dice, infatti, che occorre fare largo ai giovani, di solito si fa del qualunquismo spicciolo. Parola di giovane, ve lo garantisco. Molto spesso giovane è sinonimo di sprovveduto, quindi occorre sì una maggiore partecipazione dei giovani in ambito politico, però essi vanno disciplinati da gente più svezzata e abituata ai compromessi o agli intrighi di palazzo di cui è fatta da sempre la politica.
Cinquantenni come Veltroni – dunque neanche troppo vecchi – forse sono il “segno” che i tempi stanno cambiando e cioè che si sta avvertendo, con crescente persistenza, l'esigenza di dare maggiore credibilità alla nostra “malridotta” politica nazionale. Specialmente in un momento come questo, talmente delicato, in cui tanto si discute di quell'aberrante fenomeno chiamato anti-politica (ben peggiore di quel male, la politica, di cui pretende di essere la cura) e dove i “grillomani” di tutta Italia si danno appuntamento in mezzo alle piazze, gettando il nostro Paese nel caos più totale.
Certo, Veltroni non è senz'altro un volto nuovissimo ma perlomeno è fresco. Ha il volto di chi non ha ancora commesso grossi sbagli e a cui, pertanto, dobbiamo concedere il privilegio di sbagliare, purché lo faccia in buona fede. Partendo dallo sconsolato assunto che chi fa politica deve – in una certa misura – sporcarsi un po' le mani, auguriamo sinceramente al nuovo leader del Partito Democratico di sporcarsele ma di ricordarsi ogni tanto di sciacquarsele, per lavar via la sporcizia...