di Silvia Del Beccaro
Non sono qui per fare demagogia, sia chiaro. Ma il quesito che intendo porre credo necessiti davvero di una riflessione seria. Esistono un’Africa ricca e un’Africa povera? E se sì, dove finisce l’una e dove comincia l’altra? È vero che l’Africa ricca è quella degli hotel internazionali, dei convegni, delle grandi città, dei commerci e degli smerci? Ed è altresì vero che l’Africa povera è fatta di sole baraccopoli in fango e legname, di bestiame e di malattie? Dal nostro punto di vista “occidentaloide” non esiste altra risposta all’infuori di un “sì”. Io stessa sono cresciuta con l’immagine di un Terzo Mondo fatto di siccità, denutrizione, guerriglie e Aids. A chiunque verrebbe da dire: “È normale!”, “QA, Questa è l’Africa” – citando Leonardo Di Caprio, che fa questa affermazione nel film Blood Diamond. Ma tutto questo è davvero “normale”? O forse no?!
A detta mia è tutta questione di semantica. Attribuire un senso al concetto di ricchezza forse è il primo passo da fare per poter iniziare una riflessione approfondita sul continente nero. Essere ricchi significa disporre di qualcosa in più rispetto ad altri. Significa essere consapevoli di possedere qualcosa che altri non hanno. Dunque partendo da questo presupposto che cos’ha l’Africa in più degli altri? Qual è quella caratteristica che contraddistingue gli africani dagli altri cittadini del mondo?
I migliori maratoneti di calibro mondiale, per esempio, sono africani. Nelle olimpiadi specialmente, come nelle competizioni minori, sono invidiati da tutti. La loro leggiadria, la loro scioltezza, la loro resistenza… Hanno un carattere forte, loro, forgiato dal fuoco di mille battaglie – anche quelle non realmente combattute. Sangue competitivo scorre nelle loro vene e nulla e nessuno potranno mai levarglielo di dosso. Non a caso proprio gli africani fanno parte di quell’élite di maratoneti – se non addirittura gli unici – in grado di allenarsi per ore ed ore sotto il sole cocente, a piedi nudi, senza mai risentire minimamente della stanchezza o delle insolazioni.
In questo i maratoneti africani sono identici ai leoni loro conterranei, unici felini al mondo ad essere davvero liberi. Sì, liberi di girovagare sui percorsi polverosi della savana senza dover essere ammirati o fotografati al di là di una gabbia (come accade viceversa negli zoo o nei circhi). Per entrambi quella corsa un po’ selvaggia, all’impazzata, sui deserti aridi dell’Africa Nera concretizza un desiderio intrinseco di indipendenza. La stessa indipendenza che il popolo africano reclama da secoli e che ancora oggi non riesce ad ottenere. Come la falcata del maratoneta verso la vittoria, così la corsa infinita degli africani verso un cambiamento decisivo è assai sofferta. Il traguardo sembra sempre più distante e l’idea di non giungere mai a un termine, alla meta prefissata, disorienta il popolo e lo conduce a provare rabbia e sfiducia nei confronti del loro governo. Specialmente nei Paesi presieduti dagli eserciti militari, i rapporti fra semplici cittadini e governo in auge non sono dei più idilliaci.
Tuttavia la speranza non cessa di esistere, nonostante la sfiducia fra le due componenti cresca in maniera del tutto sproporzionata. Ma ecco allora che la speranza tenta una sua concretizzazione in qualcosa di più pratico, ovvero: quella corsa sfrenata che maratoneti e leoni condividono, accomunati anche da un istinto di sopravvivenza innato e da un Dna che reclama da sempre la libertà – sia d’animo che fisica. Sono proprio questi due esemplari autoctoni – leone e maratoneta –, dunque, ad incarnare il sogno africano di un futuro roseo – e non nero come il continente – in cui questo popolo possa veramente dirsi libero. Libero da luoghi comuni e pregiudizi. Libero da schiavitù ed eserciti padroni. Libero di essere solo se stesso di fronte al mondo intero, senza dover essere continuamente contrassegnato dal bollino nero del debito economico. Quando questo accadrà, allora sì che il popolo africano potrà sentirsi pienamente soddisfatto e proverà cose che non hai mai provato finora. Solo allora, infatti, sarà in grado di interpretare la grande soddisfazione che un maratoneta prova quando, per primo, taglia il traguardo olimpionico. Una sensazione che non è minimamente paragonabile alla vita appariscente dei grandi “ricchi” africani negli hotel di lusso delle metropoli. Una sensazione che nessun “ricco” – all’infuori di quello d’animo – è capace di provare. Perché quello sguardo, quella gioia, quel coinvolgimento che un corridore prova al termine di una lunga ed estenuante corsa olimpionica non sono affatto lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un singolo individuo che sta correndo per se stesso, per vincere un titolo che lo renderà noto per tutto il resto della sua esistenza e negli anni a venire. No. Quelli sono lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un intero continente, che proprio in quel magro, scuro, stanco maratoneta ripone la speranza di una vita migliore. Perché la libertà è un tesoro che non ha prezzo. Per tutto il resto c’è...
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