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15.4.08

Monnezzopoli, ovvero “il cimitero dell'amor patrio”

di Marco Apolloni

Dopo Moggiopoli e Vallettopoli eccoci al cospetto di un nuovo fenomeno ad alta risonanza mediatica: Monnezzopoli. Fino a qualche giorno fa mi ero detto di lasciar perdere e di non seguire la corrente, scribacchiando l'ennesimo articoletto di protesta e d'indignazione su quanto sta avvenendo nella martoriata Campania. Ma ora non ci sto più. Ci hanno messo di mezzo persino la mia benamata mozzarella di bufala. Non riesco a sopportare in silenzio un simile disumano affronto. Se devo essere onesto con voi, cari lettori, io sono cresciuto a pane e mozzarella, rigorosamente di bufala campana e mo' adesso mi sento dire che è pericolosa e che non la si può più mangiare. Ditemi voi ma che c'azzecca quella povera bufala con la diossina? Semmai c'azzeccano quei “bufali” degli allevatori, ma questo è un altro paio di maniche. Come se non bastasse la “grancassa” televisiva ha ricominciato a sputar veleno, riproponendoci l'oramai stantio polpettone della mucca pazza. Dico io, sarà che 'sti giornalisti benedetti si son bevuti il cervello a furia di mangiarsi hamburger tra una diretta televisiva e l'altra. Il prossimo passo da parte loro, non ci sarebbe da meravigliarsene, sarà quello di portarsi una mucca durante il tg e macinarla seduta stante davanti a milioni di malcapitati telespettatori. Dopodiché imbandiranno una tavola e via di bistecche, con Bisteccone in primis a capeggiare il cosiddetto “magna magna” giornalistico. Rizzo e Stella subito a dar fondo alla loro verve polemica cominceranno a stendere l'ennesimo trattatello best seller intitolandolo di nuovo La casta, stavolta dei giornalisti, dove per non essere politicamente scorretti si premurano di non auto-censurarsi da soli, loro che di mestiere fanno guarda caso i giornalisti – vale a dire: il mestiere più raccomandato che ci sia, a cui segue a ruota quello del politico. Ci manca solo il ritorno dell'aviaria e poi la frittata è fatta – il più sarà mangiarsela.
Frittate a parte, il caso-Campania è un affare serio, senza scherzi. Tutti che vogliono crocifiggere quel “verginello” di Bassolino, ma suvvia siamo seri: può un solo capro espiatorio c'entrare con tutta quella montagna di rifiuti che sta deturpando in saecula saeculorum l'immagine della regione Campania e con essa dell'Italia intera, da Bolzano ad Oristano? Personalmente non ci credo. Quel che credo è che abbiamo toccato l'apice della follia, il punto di non ritorno, oltre il quale peggio non si può neppure immaginare. Il “nuovo” – si fa per dire – Presidente del Consiglio Berlusconi ha giurato solennemente durante un suo comizio pre-elettorale, che se il popolo italiano lo avesse eletto per la terza volta su cinque allora lui per prima cosa avrebbe decentrato a Napoli il Suo governo democraticamente eletto. Al solo sentir nominare la capitale sudista alcuni suoi alleati sono montati su tutte le furie. Un tizio, in particolare, con la bava alla bocca peggio di un cane-rabbioso ha minacciato d'imbracciare i fucili per dare una lezione di quelle che non si dimenticano a quei meridionali di m... Nel frattempo un altro alleato un tal Lombardo, di nome ma non di fatto, ha viceversa mobilitato un esercito di vespri siciliani armati di cannoli in segno di protesta pacifista contro i mastini della guerra nordici, minacciando il blocco totale dell'esportazione dolciaria. Mentre lo zio Walter ha modificato per l'occasione il suo celebre motto da “si può fare” a “non si può più fare”, con gran gioia dei cittadini campani che con un’azione camorristica gli hanno giustiziato il neo facciale. “Big” Giuliano invece è stato avvistato – difficile non vederlo – fra i cumuli di spazzatura in cerca di preservativi usati, intento a raccogliere prove lampanti di omicidi impuniti di embrioni in tutta la Campania e chiedendo giustizia a San Clementino, protettore di tutti i Mastella. Casini alle prese con un corso d'aggiornamento in Vaticano sul catechismo di Santa Romana Chiesa ha gridato al complotto “veltrusconiano”, dicendo che quello dei rifiuti campani è la riprova dell'inciucio ordito dai due Signori del Male: “Veltru” e “Sconi”. Bertinotti non si pronuncia anche perché volete mettere per uno con la “r” alla francese come la sua non è mica una passeggiata pronunciare la parola vigliacca e traditrice: “rrr...ifiuti”. La Santanchè – che molti di voi si chiederanno non a torto “ma chi è?” – aveva promesso di risolvere la questione monnezza se fosse stata eletta Primo Ministro femmina della storia fascista, ops volevo dire repubblicana, eliminando l'elemento inquinante alla radice, gli immigrati, e applicando la formula vincente: “NIENTE IMMIGRATI = NIENTE INQUINAMENTO”. In tutto ciò l'unico ad aver taciuto è stato Fini, affetto da una sindrome sconosciuta soprannominata “bossingite”. La sua prognosi – dicono – è riservata, nel senso che i medici si riservano di porre fine all'accanimento terapeutico e se l'onorevole non darà segni di ripresa gli verrà definitivamente staccata la spina. A nulla sembra valere la musicoterapia propinatagli da un suo amico di vecchia data un tal Storace, che per farlo risvegliare dal coma profondo in cui è immerso gli somministra in massicce dosi quotidiane la compilation del ventennio, tra cui la canzone preferita del Gianfranchino bambino dal titolo esotico: Faccetta nera. A coordinare il De profundis su Monnezzopoli si è levata la voce argentina di George Napolitain, di nome e pure di fatto, che con il forte senso delle istituzioni che da sempre lo contraddistingue ha decretato: “Quello dei rifiuti in Campania è il cimitero dell'amor patrio”. Sante parole, monsieur le Président...

Postfazione della redazione: Trattandosi di una satira, nulla di quanto detto nei virgolettati (“”) corrisponde a vere dichiarazioni dei personaggi citati. Quanto contenuto all'interno dell'articolo non corrisponde all'opinione della redazione ed è frutto della fervida fantasia dell'autore. Vi preghiamo di scusarlo ma evidentemente la diossina contenuta nelle mozzarelle di bufala – di cui si è abbuffato – gli ha dato di volta il cervello.


Post-postfazione semi-seria dell'autore e la sindrome del tennista isterico: “Piove, governo ladro!”. Da sempre questo è il modo sconcertante d'intendere la politica di noi popoli latini. Come se avessimo un incessante bisogno del nostro scarica-barili di fiducia (vedi Bassolino), senza il quale non riusciremmo ad andare avanti. È come se il problema fosse sempre “altro” e non ci riguardasse mai da vicino o di persona. Mai nessuno che dica: “Beh, lo ammetto, è anche un po' colpa mia se succede quel che succede”. Il senso di responsabilità, a quanto pare, non è proprio il nostro forte. In questo modo di comportarci assomigliamo ad un tennista isterico, che dopo aver sbagliato una palla facile facile invece che prendersela – come dovrebbe – con se stesso, se la prende con quella poveretta della sua racchetta schiantandola in mille pezzi. Più tardi capiremmo di essere noi parte del problema e meno possibilità avremmo di sviluppare governi migliori e all'altezza delle nostre più rosee aspettative. Restano a tutt'oggi insuperate le parole di J.F.K., il quale lanciò un monito al popolo americano: “Non domandatevi cosa fa per voi il vostro paese, domandatevi piuttosto cosa fate voi per il vostro paese...”. Ammettiamo una buona volta i nostri errori, ci vuole coraggio – lo so bene – ma è necessario che facciamo uno sforzo congiunto. È ora di non prendercela più con le nostre racchette, ma soltanto con noi stessi: soli artefici dei nostri errori.

18.3.08

Precari, di professione

di Silvia Del Beccaro

Siamo giovani e vogliamo difendere la nostra categoria. Siamo caparbi e creativi, eppure non veniamo capiti e nemmeno assunti perché visti come “troppo sognatori”. Inseguiamo i nostri desideri di sempre, è vero, ma perché dobbiamo essere bollati dalla società come meri illusi, che meritano solo dei miseri contratti a termine?
Pochi puntano davvero sul futuro dei giovani. Giusto qualche amministrazione locale o politico, che vede proprio nei giovani il futuro del mondo. Il fatto è che ancora oggi noi siamo considerati alla stregua di un numero qualunque in una società che si ciba prevalentemente di cifre. Incassi, vendite, consumi, compra, scambia...
Gran parte della società odierna ruota intorno a questi termini, tralasciando volutamente ciò che è sogno, illusione, creatività, speranza. Non si vive di speranze, ci dicono, ma la realtà è che queste persone hanno difficoltà ad ammettere che loro - i loro sogni - li hanno abbandonati da tempo perché incapaci di realizzarli. Per questo vogliono farci credere che occorre abbandonare l’idea di poter vivere di ciò che si ama. È vero, il carovita e gli elevati costi delle prime necessità spaventano. Ma perché non lasciarci sognare in pace, magari ancora per qualche attimo prima di disilluderci, e farci realizzare i nostri sogni di sempre?! Musicista, pittore, giornalista, scrittore, cantante, ballerino, attore... Sono tutti mestieri che vengono mal visti - a meno che tu non sia già un professionista del settore - perché ritenuti troppo astratti, traguardi troppo irraggiungibili. Ma la questione è ben diversa. Noi vogliamo convincere gli adulti-disillusi di oggi che la concretezza non è tutto nella vita. Si può fare ciò che si ama, a patto che non si perda il senso della ragione. Gli estremismi sono sempre nocivi, sia chiaro, ma non è neanche giusto tarpare le ali ai giovani Icari di oggi, che credono ancora di poter cambiare il mondo con i sogni. Voi avete vissuto il ‘68, voi avete vissuto le riforme più importanti: lasciate che oggi viviamo anche noi! Esistono traguardi che se perseguiti con tenacia possono divenire realtà. E noi, prima o poi, ve lo dimostreremo.

13.3.08

W Zapatero!

di Marco Apolloni


José Luis Rodriguez Zapatero ha rivinto le elezioni in Spagna. W Zapatero! Spero sia di buon auspicio per la sinistra riformista italiana. Con il vostro permesso, vorrei divertirmi a prospettare un possibile e avveniristico scenario in caso di vittoria delle destre nel nostro Paese…

Più soldi per le infrastrutture, meno soldi per la ricerca. Più inquinamento (con tutto il carico di malattie e catastrofi naturali che una simile sprovveduta politica ne conseguirebbe), meno cura per l’ambiente. Più agevolazioni fiscali per le aziende (fosse solo questo ci andrebbe pure bene, ma…), meno soldi per gli operai (a patto che non si sfondino la schiena da mattina a sera con gli straordinari, allora in quel caso soltanto il leader del Popolo della Libertà si è mostrato favorevole ad un incremento dei salari, in tutti gli altri casi nisba). Più conflitti d’interesse, meno uguaglianza sociale. Più preoccupazione per la salute ultraterrena (che per carità sarebbe cosa sacrosanta se e solo se…), meno attenzione per la salute terrena. E via elencando… In definitiva, se vincessero le destre il conservatorismo – che è paralisi dello Spirito – sia di matrice economica che ideologica trionferebbe e a perdere la partita sarebbero i reali bisogni del Paese, ovvero: più riforme condivise e indispensabili per tutti.

Ciò considerato, permettetemi di lanciare una provocazione: non so voi, ma io sottoscriverei oggi stesso un progetto di legge che preveda un aumento di tasse utili – tra cui quel che concerne la ricerca scientifica, la sanità e l’istruzione – e una conseguente diminuzione delle tasse inutili – stabiliamo insieme quali –, che non fanno altro che appesantire il nostro già fagocitante apparato burocratico.

Essere di destra o di sinistra, oggi, non c’entra più niente con l’essere fascisti o comunisti, ieri. Bisogna superare certi sbarramenti ideologici. Certamente, però, essere di destra o di sinistra ancor oggi ha un preciso e ben distinguibile significato. Essere di destra, infatti, vuol dire essere conservatori e quindi per il mantenimento dello status quo. Vuol dire volere che le cose non si smuovano neppure di un solo millimetro da come stanno e sono sempre state. Vuol dire difendere certi privilegi di casta o interessi particolari, a scapito del bene comune. Essere di sinistra, invece, significa essere dei riformisti convinti. Significa lottare per cambiare le cose giorno per giorno – per il bene della collettività. Perché il mondo così com’è non ci va mica tanto a genio. Significa voler attuare quel processo di riforme per migliorare progressivamente le condizioni in cui versa il nostro Paese in particolare e più in generale il pianeta Terra.

Al giorno d’oggi non è più con le rivoluzioni che si possono cambiare le cose, ma mediante le riforme. Per ottenere una migliore condizione umana altrimenti detta “il migliore dei mondi possibili”, non occorre più servirsi della violenza, basta convincersi dell’efficacia di politiche comuni e, per ciò stesso, largamente condivise. Solo con la condivisione di grandi e nobili ideali, infatti, potremmo scongiurare che il nostro mondo finisca a gambe all’aria…

Essere di sinistra, oggi, significa combattere per questo mondo, con mezzi molto materiali e non più con giacobinismi di sorta. La nuova sinistra italiana è confluita nel Partito Democratico. L’unico partito in Italia ad essersi fatto carico di un grandioso e gravoso compromesso storico. Poco importa se viene detto – dal suo stesso leader – di “centrosinistra”. La posta in palio è troppo alta, perciò ben venga simile compromesso se questo può essere la chiave per poter vincere e governare bene un giorno.

Pur stimando i “vecchi compagni”, credo che la separazione sia stata per entrambi tanto dolorosa quanto inevitabile. È ormai tramontata l’era dei massimalismi. Sia da una parte che dall’altra. Anche se da quest’altra parte, nomi come quelli di Ciarrapico e della Mussolini non fanno granché onore al Popolo della Libertà, che a questo punto è diventato la casa dei liberal-fascisti. A quelli dell’altra sinistra dico che non è più tempo per nutrire antiche e desuete nostalgie marxiste. Per questo io mi sento di aderire idealmente al Partito Democratico che rappresenta il nuovo in luogo del vecchio. Grazie ad esso la sinistra riformista italiana ha finalmente potuto voltar pagina, chiudendo i conti con un passato troppo ingombrante – anche se, ad esser onesti, i cosiddetti “scheletri nell’armadio” stanno sia a destra che a sinistra e il bene assoluto è una categoria assolutamente bandita dal vocabolario politico.

La Sinistra Arcobaleno rappresenta il “vecchio” e come tale va sì rispettato, ma dovrebbe ben capire di fare largo al “giovane” costituito dal Partito Democratico. Chissà che quest’ultimo, facendosi carico degli errori passati, non sappia fare meglio. Non rimane che lasciarlo provare. Per quel che mi riguarda, qui concludo la mia spontanea professione di voto per le prossime elezioni politiche di aprile. Intanto, faccio i miei migliori auguri al carismatico leader spagnolo. Ora e sempre: W Zapatero!

P.S: Ai “vecchi compagni” chiedo scusa in anticipo. Magari ho preso un granchio e il Partito Democratico non è il rimedio ai mali del nostro Paese. Ma anche fosse, credo d’averlo fatto in buona fede. Magari tutti si sbagliassero in buona fede! Badate bene, parlo volutamente di "rimedio" e non di "cura". Dato che una cura vera e propria al momento non esiste, a meno che non capiti qualche miracolo. Per questo, però, meglio rivolgersi a Padre Pio e non a Veltroni…

8.3.08

"Yes, we can..."

di Marco Apolloni

Ci risiamo. Il 13 e 14 aprile prossimi noi italiani verremo di nuovo chiamati alle urne: per eleggere un nuovo governo. La parola “nuovo” – declinata anche con altri sinonimi: “novità”, “innovazione”, “nuovo inizio” e chi più ne ha più ne metta – sembrerebbe essere il tema più rovente di quest'ennesima campagna elettorale che si prospetta – strano ma vero – più pacata ma anche più serena del solito. Dopo i “bollori” misti a “malumori” delle ultime elezioni – che si sono portate dietro strascichi polemici a non finire –, nessuno ci avrebbe più sperato in un clima più “raffreddato”, più – come piace tanto a noi scribapolitically correct. Buona parte del merito di questo raffreddamento complessivo va data – e glielo riconoscono anche i suoi avversari politici – a Walter Veltroni, “giovane” – per quanto uno può esserlo a cinquant'anni – leader del Partito Democratico. I soliti schemi triti e ritriti che hanno percorso negli ultimi decenni la politica italiana: comunisti Vs. anti-comunisti; fascisti Vs. anti-fascisti; berlusconiani Vs. anti-berlusconiani; Guelfi Vs. Ghibellini; eccetera... sembrerebbero essere oramai acqua passata. Siamo onesti: probabilmente Veltroni perderà le prossime elezioni. Questo traghettatore ante-litteram ci ha condotti al di là dei vecchi schemi della politica nostrana. Poco importa che il suo motto: “Sì, si può fare...” che suona quasi come un mantra per il popolo dei democratici italiani sia una rivisitazione presa a prestito dal leader democratico americano – in corsa per la Casa Bianca – Barack Obama. Certo l'inglese: “Yes, we can...” suona di gran lunga più affascinante. Come del resto decisamente più carismatica è la figura di Obama: primo candidato di colore nella storia della più grande democrazia del mondo, quarantenne di belle speranze, nonché oratore trascinante dall'incontenibile piglio lincolniano-kennedyiano. Tuttavia, con quel viso sereno e quella parlata pacata che lo ha fatto diventare il bersaglio preferito di certa satira – esilarante è il crozziano verso: “Pacatamente ma anche serenamente...” –, Walter Veltroni si presenta come l'unica sostanziale novità delle prossime elezioni. Non crediamo che, per l'ovvietà appena detta, ce ne vorrà male il leader del Partito delle Libertà: Silvio Berlusconi, che parte con il più largo vantaggio statistico di sempre e che proprio una novità non può dirsi, dato che si ricandida a Capo del Governo per la quinta volta consecutiva. D'altro canto, però, a Berlusconi occorre riconoscere l'apprezzabile disponibilità a cogliere l'assist lanciatogli dal suo sportivo avversario – per la prima volta si può parlare infatti di “avversari” e non di “nemici” fra quella marmaglia rissosa di politicanti, ci sembra un sogno. Per la prima volta, sin dalla sua fondazione, l'Italia sembrerebbe aver capito che con le coalizioni eterogenee e la demonizzazione assoluta dell'avversario politico di strada ne abbiamo fatta ben poca. Risultato: la Spagna ci ha superato in materia di crescita economica e la Grecia, fino a poco tempo fa lontanissima, oramai ci è quasi alle calcagna. Dopo batoste simili e dopo ondate di anti-politica o attacchi libreschi trasversali – vedi il fenomeno editoriale: La casta –, la nostra classe politica sembrerebbe aver messo finalmente la testa a posto. È presto per dirlo con certezza, ma i buoni segnali – almeno quelli e fidatevi è pur sempre qualcosa – parrebbero esserci tutti. Per il resto, staremo a vedere. A quanto pare, la prima vittima illustre mietuta dall'ondata-elezioni c'è già stata ed è la frammentazione. Mai più partitini che ricatteranno i grandi partiti. Mai più tanti piccoli Mastella che terranno in ostaggio intere coalizioni, minacciando di disintegrarle a seconda di come gli gira. Mai più ad inciuci di ogni genere... Vogliamo un Paese più stabile e dei politici capaci di assumersi le loro responsabilità. Crediamo di aver patito anche troppo per i nostri deficit strutturali. Certo se ambo le parti si fossero pure accordate sul fare insieme una nuova e migliore legge elettorale... (Siamo sinceri, sarebbe stato esigere troppo da Berlusconi.) Ad ogni modo, resta il fatto che due nuovi Grandi Partiti si delineano nel, fin qui troppo frastagliato, arcipelago politico italiano. Due nuovi ed omogenei partiti capaci di fare la voce grossa nel nostro dissestato Paese, in grado di mettere in riga quell'assurda sequela dei: “No, non si può fare...”. Tutti insieme, destrorsi e sinistrorsi, in preda alla dilagante ventata di “obamite” dobbiamo unirci in un coro unanime di: “Sì, si può fare...”. Sì, possiamo e dobbiamo cambiare in meglio l'Italia. “Yes, we can...”!



1.12.07

Africa "in corsa" verso la libertà

di Silvia Del Beccaro


Non sono qui per fare demagogia, sia chiaro. Ma il quesito che intendo porre credo necessiti davvero di una riflessione seria. Esistono un’Africa ricca e un’Africa povera? E se sì, dove finisce l’una e dove comincia l’altra? È vero che l’Africa ricca è quella degli hotel internazionali, dei convegni, delle grandi città, dei commerci e degli smerci? Ed è altresì vero che l’Africa povera è fatta di sole baraccopoli in fango e legname, di bestiame e di malattie? Dal nostro punto di vista “occidentaloide” non esiste altra risposta all’infuori di un “sì”. Io stessa sono cresciuta con l’immagine di un Terzo Mondo fatto di siccità, denutrizione, guerriglie e Aids. A chiunque verrebbe da dire: “È normale!”, “QA, Questa è l’Africa” – citando Leonardo Di Caprio, che fa questa affermazione nel film Blood Diamond. Ma tutto questo è davvero “normale”? O forse no?!
A detta mia è tutta questione di semantica. Attribuire un senso al concetto di ricchezza forse è il primo passo da fare per poter iniziare una riflessione approfondita sul continente nero. Essere ricchi significa disporre di qualcosa in più rispetto ad altri. Significa essere consapevoli di possedere qualcosa che altri non hanno. Dunque partendo da questo presupposto che cos’ha l’Africa in più degli altri? Qual è quella caratteristica che contraddistingue gli africani dagli altri cittadini del mondo?
I migliori maratoneti di calibro mondiale, per esempio, sono africani. Nelle olimpiadi specialmente, come nelle competizioni minori, sono invidiati da tutti. La loro leggiadria, la loro scioltezza, la loro resistenza… Hanno un carattere forte, loro, forgiato dal fuoco di mille battaglie – anche quelle non realmente combattute. Sangue competitivo scorre nelle loro vene e nulla e nessuno potranno mai levarglielo di dosso. Non a caso proprio gli africani fanno parte di quell’élite di maratoneti – se non addirittura gli unici – in grado di allenarsi per ore ed ore sotto il sole cocente, a piedi nudi, senza mai risentire minimamente della stanchezza o delle insolazioni.
In questo i maratoneti africani sono identici ai leoni loro conterranei, unici felini al mondo ad essere davvero liberi. Sì, liberi di girovagare sui percorsi polverosi della savana senza dover essere ammirati o fotografati al di là di una gabbia (come accade viceversa negli zoo o nei circhi). Per entrambi quella corsa un po’ selvaggia, all’impazzata, sui deserti aridi dell’Africa Nera concretizza un desiderio intrinseco di indipendenza. La stessa indipendenza che il popolo africano reclama da secoli e che ancora oggi non riesce ad ottenere. Come la falcata del maratoneta verso la vittoria, così la corsa infinita degli africani verso un cambiamento decisivo è assai sofferta. Il traguardo sembra sempre più distante e l’idea di non giungere mai a un termine, alla meta prefissata, disorienta il popolo e lo conduce a provare rabbia e sfiducia nei confronti del loro governo. Specialmente nei Paesi presieduti dagli eserciti militari, i rapporti fra semplici cittadini e governo in auge non sono dei più idilliaci.
Tuttavia la speranza non cessa di esistere, nonostante la sfiducia fra le due componenti cresca in maniera del tutto sproporzionata. Ma ecco allora che la speranza tenta una sua concretizzazione in qualcosa di più pratico, ovvero: quella corsa sfrenata che maratoneti e leoni condividono, accomunati anche da un istinto di sopravvivenza innato e da un Dna che reclama da sempre la libertà – sia d’animo che fisica. Sono proprio questi due esemplari autoctoni – leone e maratoneta –, dunque, ad incarnare il sogno africano di un futuro roseo – e non nero come il continente – in cui questo popolo possa veramente dirsi libero. Libero da luoghi comuni e pregiudizi. Libero da schiavitù ed eserciti padroni. Libero di essere solo se stesso di fronte al mondo intero, senza dover essere continuamente contrassegnato dal bollino nero del debito economico. Quando questo accadrà, allora sì che il popolo africano potrà sentirsi pienamente soddisfatto e proverà cose che non hai mai provato finora. Solo allora, infatti, sarà in grado di interpretare la grande soddisfazione che un maratoneta prova quando, per primo, taglia il traguardo olimpionico. Una sensazione che non è minimamente paragonabile alla vita appariscente dei grandi “ricchi” africani negli hotel di lusso delle metropoli. Una sensazione che nessun “ricco” – all’infuori di quello d’animo – è capace di provare. Perché quello sguardo, quella gioia, quel coinvolgimento che un corridore prova al termine di una lunga ed estenuante corsa olimpionica non sono affatto lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un singolo individuo che sta correndo per se stesso, per vincere un titolo che lo renderà noto per tutto il resto della sua esistenza e negli anni a venire. No. Quelli sono lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un intero continente, che proprio in quel magro, scuro, stanco maratoneta ripone la speranza di una vita migliore. Perché la libertà è un tesoro che non ha prezzo. Per tutto il resto c’è...

29.6.07

Dico, coppie di nome e di fatto

di Silvia Del Beccaro

“C’è chi dice no... c’è chi dice no!” cantava anni fa Vasco Rossi, senza sapere che qualcuno avrebbe detto “no!” per davvero. La Chiesa e parte del Governo attuale condannano le coppie di fatto, i famigerati Dico – diritti e doveri dei conviventi: coppie unite nel sacro vincolo dell’amore, ma disunite nell’altrettanto sacro vincolo del matrimonio.
Nel corso della lunga battaglia politica, che ha avuto per oggetto i Dico, c’è stato chi ha detto esplicitamente “no”, proprio come aveva previsto Vasco, per una serie di ragioni.
Il vescovo Velasio De Paolis è convinto che esista un gruppo capace di agire nell’ombra e influenzare chi fa le leggi, intenzionato ad attuare una guerra ideologica contro la famiglia, il matrimonio e i valori difesi dalla Chiesa.
Anche papa Ratzinger si è scagliato contro i Dico, ribadendo che matrimonio e famiglia sono il fondamento più intimo della verità per l’uomo. Sulla roccia dell’amore coniugale – fedele e stabile – tra un uomo e una donna, si può edificare una comunità degna dell’essere umano.
C’è dunque chi dice no... Ma per fortuna c’è anche chi dice sì: un sì convinto, fermo, deciso a regalare alle unioni di fatto dei diritti.
Barbara Pollastrini, Ministro delle Pari Opportunità, è convinta che se il Senato facesse naufragare i Dico sarebbe uno spreco per le persone, per i loro diritti, doveri e speranze. Co-autrice – insieme a Rosy Bindi – del disegno di legge sui diritti e i doveri dei conviventi, la Pollastrini è sostenuta anche da Vannino Chiti, Ministro dei Rapporti con il Parlamento, che si augura che un tema così delicato – com’è quello delle unioni civili – possa svilupparsi in un confronto serio ed approfondito, senza elementi pregiudiziali.
Politici a parte, il tema Dico è visto positivamente da tutti coloro che non desiderano o vorrebbero ma non possono – e rappresentano la casistica più numerosa – sposarsi.
Coppie di fatto, unioni civili... Tanti termini per indicare un unico vero concetto: l’amore di due persone. Uomo e donna, uomo e uomo, donna e donna. Attenzione, però. I Dico non sono una via di fuga per sostenere la causa omosessuale, come molti erroneamente hanno pensato. Si tratta di un’agevolazione per tutte quelle coppie che magari, al momento, non possono permettersi di spendere 3.000 euro per un vestito da sposa, 2.000 euro per uno smoking, 10.000 per un rinfresco e 5.000 euro per le bomboniere. Perché il matrimonio sarà sì un’unione sacra, ma è anche una spesa ingente che molti giovani oggi – tenendo conto dell'universo multiforme del precariato – non possono permettersi.
Non escludo che esistano anche casi in cui la coppia, per principio, non sia intenzionata a sposarsi. Ma si tratta: uno di persone che comunque si amano, forse più di qualche coppia sposata; due di uomini e donne che santificano il concetto di coppia amandosi reciprocamente e onorandosi l’un l’altra.
Approvare i Dico non significherebbe sminuire il matrimonio, tutt’altro; piuttosto equivarrebbe a dare un’opportunità anche ai giovani di poter vivere una vita insieme, godendo di diritti e di doveri, gli uni verso gli altri...

5.6.07

Capelli a modo mio

di Silvia Del Beccaro

Teste rasate, dreadlock ribelli, creste colorate, acconciature cotonate… Da che mondo è mondo, i capelli hanno sempre costituito un elemento rappresentativo di un’epoca, di una corrente musicale o di un determinato ceto sociale. E quante mode sono scaturite, proprio a causa di questi fattori… In molti casi, le persone hanno cercato di seguire le cosiddette “tendenze” , seppur a proprio modo: correnti, modi di essere e di comportarsi, modi di apparire, utilizzati solamente per cercare di sembrare come gli altri. I motivi? Paura di sentirsi esclusi, timore di distinguersi, non rischiare di venire definiti diversi, mascherare come siamo realmente.
Un esempio classico è rappresentato dalla nobiltà francese del XVII secolo, durante il quale uomini e donne indossavano parrucche voluminose e falsi chignon. Lo scopo? In primo luogo, coprire la scomparsa parziale (o totale) dei capelli e di colpo apparire con una folta chioma.
E ancora balzano alla mente altre immagini: quelle degli anni ‘60/’70, quando tra le donne era diffusa l’usanza di cotonare i capelli. Abbinando la propria acconciatura ad un trucco marcato prevaleva il desiderio di somigliare a molte dive. In quegli stessi anni Sessanta, gli uomini d’altro canto portavano una lunga e folta chioma, quale simbolo di contestazione giovanile, nonché rivendicazione della libertà e dell'uguaglianza sessuale. Un altro caso, ancor più evidente, che viene subito alla mente, è la moda che accomuna gli amanti della musica punk. Punte gellate, creste esplosive e colori sgargianti… Tratti che assolutamente definiscono, ancora oggi, i “seguaci” di una determinata corrente musicale. Anche loro, seppur a proprio modo, seguono infatti una moda, quella del punk, preferendo l’artificiale al naturale. Tutto ciò con il solo obiettivo di assomigliarsi, di integrarsi socialmente, di sentirsi parte della propria “tribù”.
Viceversa, basta guardare i rasta, i quali, seguendo le orme di Bob Marley, utilizzano resine, colle, miele o creme solo per avere un’acconciatura che rappresenti la loro filosofia. I dread (o dreadlock) sono infatti simbolo di pace e fratellanza universale. Oltre a rovinare i capelli, però, questi metodi formano un groviglio inestricabile e talvolta provocano un odore davvero poco gradevole. Negli anni, però, tutto questo ha coperto la vera personalità della gente che incessantemente cercava di seguire la moda, senza capire di diventare solo “uno dei tanti”, un essere sconosciuto in mezzo all’enorme massa, anziché dimostrarsi semplicemente se stessi e distinguersi per la propria personalità e i propri atteggiamenti.
Ma oggi, a distanza di anni, decenni o addirittura secoli… si cerca ancora di (in)seguire le mode? Pare proprio che questo atteggiamento appartenga al passato, superato dalla voglia di personalizzare il proprio look. Sono molti, infatti, i parrucchieri e gli hair stylist (per italianizzare il termine, “stilisti del capello”) che preferiscono creare una pettinatura creata su misura per ciascun cliente; essa, infatti, viene adattata alla persona in base a svariati elementi: altezza, snellezza, forma del viso, corposità e colore del capello… Per non parlare dello stile di vita: assolutamente fondamentale. In un certo senso, si può dire che i parrucchieri si stiano lentamente trasformando in “psicologi del look”. Incontrano, osservano, studiano ed elaborano: solo che in questo caso l’obiettivo finale consiste nell’esaltare al meglio il look da sempre desiderato. Ovviamente, cercando sempre di attenersi ai gusti personali espressi da ciascuno. La necessità di personalizzare la propria acconciatura è data dal desiderio di sentirsi a proprio agio, in sintonia con il proprio corpo, ben inseriti nell’ambiente circostante. E’ risaputo che il nostro corpo fa da tramite tra noi e la società; è un ponte tra l’ “io” e l’interlocutore. Insieme all’atteggiamento che teniamo e alla nostra gestualità, i capelli hanno un ruolo fondamentale. Essi sono la parte più visibile e attraverso di essi è possibile associare o immaginare una serie di rimandi sociali. Generalizzando, una chioma incolta e scapigliata solitamente è sintomo di disagio, di abbandono, di svogliatezza. Al contrario, un’acconciatura ordinata, curata è simbolo di sicurezza ed eleganza. Rendere unica la nostra “chioma” significa, dunque, trasmettere il nostro modo di essere, esprimendo il nostro voler essere inimitabili. Basta con le mode, quindi. Via alla personalizzazione! Uscire dalla massa, cercare di distinguersi, essere unici anche nella pettinatura. Ecco lo slogan con il quale iniziare la nuova “era del capello”, un’era in cui finalmente ciascuno è libero di scegliere il proprio stile, assumendo sempre un look inimitabile ed accattivante.

"Benvenuti nell'era del genere umano!"

di Marco Apolloni

Che il capitalismo, con l'illimitatezza sfrenata dei suoi consumi, stia distruggendo il nostro Pianeta ce ne stiamo accorgendo tutti (capitalisti compresi). Come si sia potuti arrivare a tal punto senza far nulla per placare questa folle corsa verso lo sfacelo, beh, questa ci sembra proprio una domanda da un milione di dollari. Così a lungo abbiamo tirato la corda, sperperando risorse naturali che sapevamo essere limitate, inquinando a tutto spiano il nostro malconcio pianeta, che dal canto suo già stava dando segnali di parziale cedimento: con uragani, tsunami, alluvioni, eccetera. Ma noi niente, ogni volta abbiamo fatto finta di non capire, ce ne siamo fregati – dicendo tanto ci penseranno quelli che verranno dopo di noi, intanto pensiamo a spassarcela alla faccia di quegli uccellacci del malaugurio che pronosticano l'Apocalisse. Certo sdraiarsi a prendere il sole dal proprio balcone a gennaio inoltrato, con una temperatura media ferma là fuori – in un po' tutta la Penisola – sui ventitré gradi, dev'essere sembrata un'innocua bizzarria climatica. Sono cose che capitano, no? Come no, capitano con l'approssimarsi di ogni nuova era geologica. Ergo: se non vogliamo fare la fine dei dinosauri e scomparire dalla faccia della Terra, urge un immediato rimedio. Già, perché solo di “rimedio” si può trattare, dato che una “cura” vera e propria al momento non esiste.
Da sempre la nostra ragione strumentale, con illuministica prescienza, ci ha indotto a confidare nel Progresso. Divinità pagana, questa, che dovrebbe assicurarci un radioso futuro caratterizzato da migliorie a non finire. La Santissima Scienza, altro nuovo nume tutelare dell'umanità, ci condurrà per mano ai confini della galassia e, perché no, dell'intero universo. Se una volta poteva andare bene il detto: “Morto un papa se ne fa un altro...”. D'ora in poi varrà il nuovo detto: “Morto un pianeta se ne cambia un altro...”. Peccato, soltanto, che talvolta scienza e fantascienza hanno il vizio d'intrecciarsi a vicenda, confondendosi a tal punto da non capire più dove finisce l'una e comincia l'altra. La ragionevolezza sembra ormai aver abbandonato il disabitato cervello umano, ammesso che vi abbia mai dimorato. E per “ragionevolezza” s'intende quel barlume di saggezza una volta appartenuto agli umani, composto da un miscuglio alchemico tra ragione e sentimento, capace di frenare i più dannosi impulsi auto-distruttivi e le smanie d'onnipotenza del genere umano. L'una, la ragione, dovrebbe sì aiutarci a gettar luce sui misteri ancora irrisolti della natura, però andrebbe sempre tenuta per mano dalla saggia guida del sentimento, che vede tanto più chiaramente proprio perché del tutto cieco. Spesso, infatti, solo chiudendo gli occhi si riesce a vedere ciò che non si vedeva o, comunque sia, non si voleva vedere prima.
Cambiare lo scopo di un'azione sottende trasformarla, snaturarla, farla diventare qualcos'altro. Dunque pretendere di cambiare l'essenza del capitalismo – che è il profitto illimitato – è pressoché impensabile senza l'annichilimento totale dello stesso. L'essenza di qualcosa è tale per cui questa cosa non può essere cambiata, se non al prezzo di cessare di essere quel che era all'origine. Per questo parlare di un capitalismo etico è un esercizio perlomeno bizzarro. Dato che i due termini “capitalismo” ed “etica” cadono in così netta contraddizione. Se c'è l'uno, il capitalismo, non può esserci l'altra, l'etica, e viceversa. L'economista Joseph Schumpeter ha affermato che il capitalismo, in realtà, non può essere criticato su basi scientifiche, semmai soltanto sociologiche. L'errore di Marx fu proprio quello di operare invano una critica scientifica, cioè razionale, del capitalismo – anche se va naturalmente precisato che, per Marx, la scientificità era un concetto assai vasto. È convinzione risaputa e largamente praticata dai capitalisti che il consesso riunito degli uomini, ovvero la società, non è un'opera di beneficenza. Quindi, come vedrete bene, l'unica speranza di salvezza per il nostro Pianeta non potrebbe che risiedere nella sconfitta finale del capitalismo. Paradossalmente, in un contesto dove i nemici del capitalismo sono molti, il capitalismo è il peggior nemico di se stesso – da “nemico”, ovvero quella forza estranea che pretende di subordinare i tuoi scopi ai suoi. Dunque, per il bene del nostro Pianeta, non ci rimane che sperare che il capitalismo faccia harakiri da solo, alla maniera degli antichi guerrieri samurai...
Liberare, infine, il Pianeta della presenza scomoda del capitalismo, non vuol dire necessariamente porre fine ai suoi indicibili travagli. C'è ancora un ultimo mostro da sconfiggere, pari al Leviatano di hobbesiana memoria, che è la tecnica; che può sì essere, con Prometeo, la più grande aiutante del genere umano; ma che, allo stesso tempo, può rivelarsi una vera e propria serpe in grembo, che ci si rivolta contro per annientarci. La famosa rivolta delle macchine contro gli umani, così mirabilmente descritta dalla letteratura fantascientifica – basti citare un'opera emblematica quale: Io, Robot di Isaac Asimov. Per impedire che ciò avvenga non ci resta che un'unica alternativa: recuperare quel seme di ragionevolezza andato perduto e ritornare ad una dimensione più autentica delle cose, capendo che solo l'essere umano conta e nient'altro. Il filosofo Emanuele Severino, a proposito della tecnica, una volta ha affermato: “Dio è la prima tecnica e la tecnica è l'ultimo Dio...”. Chissà che questo grande filosofo non si sia preso un abbaglio, trascurando l'inesauribile potenziale umano. Per questo forse sarebbe meglio capovolgere il suo motto in: “Dio è il primo uomo e l'uomo è l'ultimo Dio...”. Parafrasando “Iena” Plissken, protagonista del film Fuga da Los Angeles: “Benvenuti in una nuova era, benvenuti nell'era del genere umano!”.

30.5.07

Armi letali

di Marco Apolloni
Che cosa ci si può aspettare da un Paese come gli Stati Uniti dove apri un conto corrente in banca e ti regalano un fucile nuovo di zecca? Come minimo due episodi tanto sciagurati quanto inevitabili come quelli accaduti nella Columbine High School del Colorado nel '99 e pochi giorni fa nel campus della Virginia Tech, rispettivamente: 12 e 32 morti, tralasciando la conta dei feriti. L'escalation di violenza e sangue nelle scuole e università americane vanta una lunga sfilza di episodi del genere, di cui i due summenzionati rappresentano giusto lo sconvolgente apice.
Un coraggioso e corpulento documentarista americano Micheal Moore – barbetta rossa pungente e immancabile cappellino da baseball –, famoso per essere diventato uno dei “nemici pubblici numeri uno” dell'attuale amministrazione statunitense, con la sua applaudita opera Bowling a Columbine (2002) ci ha consegnato il volto di un'America lacerata, con uno stato sociale pressoché inesistente – dove se stai male e non sei assicurato i medici ti lasciano intuire che puoi benissimo andare a farti fottere –, piena di paure spesso infondate – su tutte quella dell'uomo nero – e alle prese con la “caccia ai fantasmi” – vedi: terroristi dispersi fra le montagne pakistane. Moore, con il suo instancabile fiuto per la verità, in questa pellicola ci fa però capire come sia un esercizio del tutto inutile e sfiancante quello di ricercare la ragione mono-causale del perché gli americani hanno la tendenza ad uccidersi gli uni con gli altri. E di come riuscire ad impossessarsi liberamente di armi dall'elevato potenziale omicida è solo una delle tante cause scatenanti un simile putiferio.
Rimanendo alla cronaca degli ultimi giorni, l'interrogativo che noi ci poniamo è come ha fatto un ventenne d'origine asiatica, con forti squilibri della personalità e già accusato di molestie su alcune studentesse, a far passare inosservate: una pistola e una mitraglietta? Per caso le autorità competenti hanno dormito invece che vigilare sulla sicurezza degli abitanti del campus universitario? È molto probabile. Con il senno di poi è facile dire, come ha fatto un'insegnante del ragazzo-stragista, che dai suoi scritti accademici traspariva un forte risentimento contro tutto e tutti. Tuttavia non può e non deve consolarci il fatto che questa sia stata l'ennesima tragedia annunciata. O perlomeno andatelo a dire ai familiari delle vittime innocenti di questa strage e sentirete cosa vi risponderanno...
Dire male dell'America oramai è diventato uno sport, come il calcio, troppo praticato. Ad ogni modo, è vero anche che l'America non fa granché per farsi dire bene. Piuttosto che esportare la democrazia a destra e a manca, ci chiediamo come mai l'attuale amministrazione repubblicana – non che coi democratici cambi molto – non decida di porre fine a irrisolti problemi intestini quali appunto, solo per citarne due: la pena di morte e il possesso incondizionato delle armi. Riguardo a quest'ultimo problema, tra democratici e repubblicani non fanno che tirarsi a vicenda la patata bollente: gli uni danno la colpa alle grandi multinazionali delle armi – fra gli sponsors ufficiali del partito repubblicano; gli altri, invece, incolpano Hollywood, internet e il rock – ovvero una risaputa “triade” vicina al partito democratico. Vista con gli occhi distaccati di un europeo questa infinita querelle tra repubblicani e democratici è quanto meno fittizia. La verità è che l'America è davvero la Nuova Gerusalemme – di biblica memoria – che dice di essere, ma al contempo non riesce a placare le sue apparentemente insanabili contraddizioni interne. Basti pensare a quell'orrendo scempio della vita umana qual è la pena di morte. Non ci sorprende che un Paese con un regime ateo secondo cui non esiste altra giustizia all'infuori di quella terrena, come la Cina, adotti la pena di morte recuperando l'arcaica e mai tramontata legge del taglione: “Occhio per occhio, dente per dente...”. Ma che un Paese fra i più cristiani al mondo, se non addirittura il più cristiano in assoluto, che si sente investito del ruolo messianico di Redentore dell'umanità nonché faro di speranza per gli altri popoli della terra, come l'America, possa anche solo concepire la barbarie della pena di morte, questo rimane un fatto oscuro a tutti, tranne che agli americani!
Del resto dell'America si amano sia i pregi che i difetti, ma finché ammetterà nel suo ordinamento interno dei grossolani controsensi, ad un europeo – dall'alto della sua sanguinosa coscienza storica maturata durante conflitti plurisecolari – non resterà che far le veci del fratello maggiore e rimproverare in privato i propri fratelli minori americani, più incorreggibili. Aveva ragione la signora Margaret Thatcher, ex Primo Ministro del governo inglese, ad affermare con gran perspicacia: “Gli Stati Uniti sono figli della loro filosofia, mentre noi europei siamo figli della nostra storia...”. Proprio perché abbiamo tanto sbagliato (noi europei), abbiamo tanto da insegnare...

9.5.07

Incontro filosofico con George Steiner

di Silvia Del Beccaro

George Steiner è la semplicità fatta persona. Nonostante sia una delle figure di primo piano nel campo della critica, a livello internazionale, Steiner ha dimostrato gran classe e umiltà durante la sua ultima conferenza, che nel mese di aprile lo ha condotto all'Università Vita-Salute San Raffaele. «Mi scuso fin da ora ma tenterò di fare lezione in un “abominabile” italiano» ha esordito rivolgendosi agli studenti, in un italiano un po' improvvisato – anche se parla alla perfezione inglese, francese e tedesco. Personalità eccezionale, spesso provocatoria, attualmente ha la cattedra presso il Churchill College di Cambridge, nel Regno Unito. Nel corso della sua carriera ha steso una serie numerosa di saggi e studi di grande valore, pubblicati dagli anni cinquanta ad oggi, che spaziano dalla linguistica all’etica, dalla teoria della traduzione alla letteratura, dalle arti figurative alla scienza. Il suo intervento presso l'università cesanese era intitolato A sentence in Plato ed ha ripreso un'affermazione scritta nelle Leggi dello stesso Platone.
«La città perfetta è la più grande delle tragedie – ha detto provocatorio per iniziare il suo discorso –. Quello che ci propone Platone è un enigma profondo, sul quale non esistono spiegazioni, non esistono commenti. Intorno a questo passaggio c'è il silenzio totale». La sua lezione magistrale è iniziata con una riflessione platonica, per poi orientarsi su approfondimenti storici, politici e persino d'attualità – con un accenno al calcio mondiale e al campione Diego Armando Maradona. Steiner ha definito il filosofo greco uno fra i migliori scrittori occidentali, elevandolo alla stregua di Dante e Shakespeare.
«Definendolo in questo modo, ha tenuto un intervento meno filosofico ma più letterario, attento soprattutto all'aspetto drammatico – ha commentato Giuseppe Girgenti, docente nonché uno fra i massimi studiosi platonici –. È stata comunque un'esperienza molto bella: una grande lezione introduttiva, come devono essere le lezioni magistrali del resto». Gli studenti hanno partecipato con attenzione all'incontro, riempendo la Sala dei Fasti Romani, e hanno proposto interventi puntuali dimostrando grande entusiasmo. Una delle dichiarazioni che più ha smosso l'interesse degli universitari, toccandoli da vicino, è stata posta dal moderatore – nonché Preside della Facoltà di Filosofia – Ernesto Galli Della Loggia.
«La democrazia, così come è fatta, non può piacere ai giovani, perché i giovani sono in cerca di grandi ideali, anche se talvolta si rivelano erronei». Al suo intervento è seguita la risposta dell'ospite, il quale ha replicato che senza grandi errori non si può avere una grande vita: da giovani si ha bisogno di illusioni a cui aggrapparsi. «Ha ragione Steiner quando dice che sbagliare da giovani non è solo lecito ma doveroso – commenta Marco Apolloni, studente iscritto alla laurea specialistica –. Però credo che noi giovani dobbiamo commettere errori sempre nuovi evitando quelli passati. E per farlo abbiamo bisogno di coltivare la nostra coscienza storica».

6.4.07

Viaggio attraverso la rotta dei clandestini africani

di Silvia Del Beccaro

Nel 2003 il "Corriere della Sera" ha pubblicato il reportage dell’ inviato Fabrizio Gatti. Il giornalista ha raccontato, in cinque puntate, il viaggio intrapreso e vissuto al fianco di numerosi clandestini africani, in fuga da Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Nigeria e Camerun. Partenza da Dakar, arrivo a Lampedusa: ecco il tragitto che gli immigrati clandestini devono seguire, per arrivare in Europa. Come vivono? Cosa li porta ad attraversare tutta l’Africa? Quali violenze sono costretti a subire per vedere realizzati i propri sogni? A queste domande, Fabrizio Gatti ha risposto attraverso le fotografie e le parole pubblicate all’interno del suo reportage.
Seguiva già da tempo l’arrivo in Italia degli immigrati, spesso clandestini. Così nel 2002, dopo i numerosi naufragi nel mar Mediterraneo, tra il Nord Africa e la Sicilia, Gatti ha proposto di raccontare la storia di queste persone e dare loro un nome, poiché spesso, per noi, erano solo dei numeri (n.d.r. 210 morti nel Mediterraneo, 365 dispersi nel nord della Tunisia). Era un’idea che aveva in mente già da tempo, ma era sempre mancata l’occasione giusta per realizzare un servizio di questo genere. L'estate del 2002, poi, ha proposto l’idea al suo direttore; gli ha spiegato di voler raccontare chi fossero queste persone e di voler condividere con loro il viaggio che compiono, a suo parere eroico.
Così il giornalista e i colleghi si sono messi subito all’opera per cercare di trovare più informazioni possibili e per organizzare un viaggio che, certamente, sarebbe stato estremamente difficile e faticoso. La preoccupazione maggiore, prima della partenza, era data dalla scarsità di punti di riferimento nel Sahara.
Lungo il percorso nel deserto ci sono solo 5 pozzi d’acqua. E non bisogna mancarne neanche uno, altrimenti si rischia la vita. In maggio, un camion si è guastato nella sabbia e sono morte 63 persone. La stessa cosa è successa ad altri due piccoli fuoristrada, nel mese di giugno: uno si è guastato, l’altro si è insabbiato. Sono rimaste coinvolte 30 persone”. E’ bene dire che, in caso di guasto o smarrimento della rotta nel deserto (solo il Ténéré è grande quasi come la Francia), occorre mantenere la calma, nonostante le condizioni in cui ci si trova siano senza dubbio allarmanti. Ecco perché, prima della partenza, Fabrizio Gatti ha cercato di raccogliere maggiori informazioni possibili, attraverso mappe, racconti o altre fonti; così facendo ha potuto segnare alcuni punti di riferimento che gli sarebbero stati utili, una volta circondato solamente dal deserto.
Ma le persone che decidono di partire sono a conoscenza a priori della pericolosità a cui vanno incontro? Chi parte sa che è sarà un viaggio duro e difficile, ma di certo ignora a cosa sta per andare incontro. Neanche Fabrizio Gatti pensava che i militari arrivassero a tanto: estorsioni, ricatti, violenza.
Ma allora, se già attraversare il tratto desertico è così pericoloso, perchè i clandestini decidono di compiere un simile viaggio? Chi parte, nella maggior parte dei casi, sono ragazzi che hanno studiato e che sperano che il loro titolo di studio da noi valga di più; chi parte, spesso sono emigranti africani, o persone che provengono dai paesi più poveri in cerca di lavoro. Chi parte sono persone che vogliono trovare la libertà, anche solo intesa come possibilità di veder realizzato un sogno. Chi parte sono africani “cittadini del mondo”: quelli che si sentono occidentali perché hanno appreso l’importanza dell’istruzione e della scuola. Sono tutti coloro che si sentono proiettati verso un mondo informatizzato, in cui internet è diventato un utilissimo strumento di comunicazione. Ricordo ancora oggi un aneddoto simpatico che Fabrizio mi raccontò in merito al suo viaggio.
Durante il percorso gli era capitato di incontrare gente che gli chiedesse di mandare loro una mail, una volta tornato in Italia, con allegate le sue fotografie. Gli sembrò strano. In fondo, in un’Africa povera, denutrita ed affamata non si può credere all’esistenza di internet. Invece, esistono tantissime baracche, in cui sono collocati fili elettrici, pochi telefoni e qualche schermo. Internet è molto importante perché per loro è uno dei pochi mezzi attraverso il quale possono comunicare con il resto del mondo.
A Dirkou ha conosciuto un ragazzo che era rimasto bloccato perché aveva finito i soldi necessari per continuare il viaggio. Gli ha raccontato che una ragazza bulgara, con la quale era in contatto e alla quale aveva confessato il suo sogno di arrivare in Europa, gli aveva spedito addirittura 100 dollari attraverso internet.
Avventura dopo avventura, alla fine del reportage, sono emersi aspetti che nessuno in redazione si sarebbe mai aspettato. La violenza e le torture a cui i clandestini sono sottoposti da parte dei militari e della polizia sono indescrivibili: pestaggi, frustate con cavi elettrici abbandonati, estorsioni continue. E se un clandestino non ha i soldi per continuare il viaggio, viene abbandonato in mezzo al deserto. Adama Traoré e altri 21 ragazzi sono stati lasciati sotto il sole almeno per dodici giorni, mangiando topolini, insetti, una manciata di miglio. I soldati li hanno fatti scendere dal camion vicino a un pozzo sperduto nel deserto, perché i 22 immigrati non avevano più niente; nemmeno un paio di scarpe bucate con cui pagare l’estorsione.
La cosa più scioccante dunque è lo sfruttamento del fenomeno immigrazione, da parte della polizia e dell’esercito. Oltre agli episodi di violenza, il giornalista è rimasto molto scosso da altri momenti di sofferenza a cui ha assistito durante il viaggio intrapreso. Kofi e Oliver ne sono un esempio. Kofi, 24 anni, partito dal Ghana, è morto di fame e polmonite all’autostazione di Agadez. Dopo sei ore di convulsioni, invece del medico, i guardiani hanno chiamato i poliziotti. Kofi non aveva i 1000 franchi per pagare l’ospedale. Oliver, invece, arrivato dalla Nigeria, è stato soffocato da una pallottola di banconote. Aveva 800 dollari, i gendarmi nigerini stavano spogliando e massacrando di botte tutti gli stranieri perquisiti prima di lui. E Oliver, disperato, ha ingoiato i soldi per nasconderli. Credo che il viaggio di Gatti sia stata una scelta giusta. Penso valga la pena mettersi in gioco e raccontare ciò che dai media, solitamente, è ignorato o nascosto. È una grande soddisfazione riuscire a mostrare quello che nessuno ha visto, al di là delle informazioni ufficiali perlopiù fittizie. C’è una parte della realtà, infatti, che non viene mediata da nessun ufficio stampa o che magari le fonti negano; è a questo punto che un giornalista deve ingegnarsi, per cercare di raccontare la realtà fino in fondo... Un po' come ha cercato di fare lui.
E oggi, grazie alle inchieste a cui ci ha ormai abituato questo coraggioso e caparbio professionista, molte verità nascoste sono venute a galla e di questo gliene siamo tutti grati e sopratutto gliene sono grati loro: quella banda di disperati che, con gommoni a malapena galleggianti, si riversano disperatamente nelle coste del nostro Belpaese inseguendo i loro sogni, spesso - purtroppo - irrealizzabili.

23.12.06

Finanziaria 2007: giovani e anziani lavoreranno insieme

di Silvia Del Beccaro

Scatterà nel 2007 un nuovo progetto nazionale dedicato agli anziani. Si tratta del servizio civile per i pensionati, “perché gli anziani sono una risorsa e non una zavorra per la società” – come ha dichiarato Paolo Ferrero. Il ministro delle Politiche sociali, infatti, ha recentemente presentato un piano di lavoro, il cui obiettivo sarà quello di collegare tra loro le associazioni di volontariato formate da pensionati e renderle un tutt’uno: un gruppo omogeneo di milioni di persone, pronte a collaborare e ad organizzarsi insieme. “Come già avviene per il servizio civile dei ragazzi – ha spiegato il ministro – stiamo preparando progetti mirati. Proporremo nei prossimi mesi a duemila giovani napoletani di lavorare come volontari nei loro quartieri. Potremmo avanzare proposte simili anche ai pensionati”. La figura del nonno civico ormai è nota in tutta Italia: quell’anziano signore che sosta fuori dalle scuole e che aiuta i piccoli ad attraversare la strada e ad evitare i pericoli al di fuori dell’istituto scolastico, è diventata una figura di riferimento per tutte le famiglie, che vedono nei “nonni vigili” una fonte di sicurezza per i loro bambini. Oggi, consolidate simili figure, però, sarebbe giusto operare anche in altri ambiti. “Per il 2007 – rivela ai giornali il ministro del Lavoro, Cesare Damiano – abbiamo intenzione di affiancare i lavoratori prossimi alla pensione a dei giovani assunti part-time. In questo modo il lavoratore più anziano verrebbe retribuito in parte dall’azienda e in parte dallo Stato, col riconoscimento di insegnante di un corso di formazione professionale.
Tutto questo fa parte del progetto “patto tra generazioni” inserito nella Finanziaria, al quale abbiamo inizialmente stanziato 3 milioni di euro. Se l’esperimento funzionerà, siamo disposti ad aumentare la cifra per gli anni successivi”. Questa ed altre iniziative legate ai pensionati partiranno con degli esperimenti in aree circoscritte, per poi essere estesi a tutto il territorio italiano. Si pensa di promulgare perfino una legge nazionale. Intanto, però, si parla di un sito internet, che rientra fra i punti del piano, e che sarebbe messo a disposizione delle associazioni. “Non vogliamo sostituirci a ciò che già esiste e funziona – spiega Ferrero – e l’idea del sito ha proprio lo scopo di far conoscere a tutti le opportunità che esistono per creare una rete nazionale di associazioni e progetti”.

19.12.06

Verità e menzogna nell'odierno mondo televisivo

di Marco Apolloni
Quando si dice: “il potere del telecomando”! In effetti, il telecomando oltre ad essere uno strumento di potere all'interno dei nuclei familiari – solitamente il capo-famiglia è colui che detiene questa sorta di scettro ante litteram – è anche un notevole strumento di libertà. Basta infatti premere un misero pulsante per porre fine ai soliti scempi televisivi e al giorno d'oggi questo non è poco. Ma cosa fare se a dover premere quel pulsante sono dei minori o comunque degli individui per qualche motivo fragili? Da che mondo è mondo, di solito il proibizionismo, o comunque sia il proibire un determinato comportamento, ha sempre provocato una reazione opposta. Dunque secondo quest'ottica non appare granché efficace proibire certi programmi televisivi, ritenuti dagli esperti: diseducativi. Piuttosto miglior cosa sarebbe indirizzare su un giusto binario o in ogni caso fornire alcune chiavi di lettura, in modo tale da facilitare la visione di quei programmi considerati problematici. Appurato che il metodo proibizionista non funziona poiché è molto poco aderente alla realtà – quasi schizoide –, bisognerebbe provare a coltivare nei fanciulli una sorta di educazione negativa, ovvero quel metodo pedagogico che escogita di educare un fanciullo mediante l'esperienza diretta dei propri errori. In questo ha pienamente senso il celebre detto popolare secondo cui: sbagliando s'impara!
Teorico di quest'innovativo sistema educativo fu il ginevrino Jean-Jacques Rousseau, anche se all'atto pratico come padre non fu un altrettanto fulgido modello – non dimentichiamo infatti che lui abbandonò all'Enfants de France i suoi cinque figli, ma si sa: i buoni predicatori spesso sono i primi a razzolare male... Comunque quel che a noi importa non è tanto il Rousseau-padre, quanto il Rousseau-pedagogo. Nell'esplicare la sua concezione dell'educazione negativa, Rousseau nell'Emilio si serve di questo efficace esempio: racconta che il fanciullo protagonista di questo “romanzo di formazione”, rompe il vetro della finestra della sua camera, scagliandovi contro un masso; per questo l'educatore lo condanna a scontare sulla propria pelle tale monelleria, facendogli trascorrere tutta la notte in preda ai gelidi spifferi provenienti dalla finestra rotta. Svegliandosi la mattina – ammesso questi sia riuscito a chiudere occhio – avrà imparato qualcosa dall'esperienza negativa dell'errore commesso.
Tutto ciò per dire che: bisogna abituare il fanciullo all'odierna “giungla televisiva” – fitta di programmi davvero poco edificanti. Occorre che questi venga preparato dalle due autorità che dovrebbero tutelarne l'educazione. Ci riferiamo ai due sacri e inviolabili pilastri: in primis la famiglia e, in seconda battuta, la scuola. Entrambe queste autorità dovrebbero prendere per mano i fanciulli e vedere insieme a loro certi prodotti della cosiddetta “tv-spazzatura”, fornendo ad essi gli strumenti necessari di comprensione, senza imporre né tanto meno forzare alcuna presa di coscienza. Basta solo limitare i condizionamenti negativi visti come fattori esterni interferenti, per far sì che un giovane fanciullo cresca diventando un adulto maturo e pienamente coscienzioso. Nel dir ciò come dimenticare le terrificanti scene del capolavoro kubrickiano Arancia meccanica – tratto dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess –, in cui al giovane protagonista Alex viene fatto il lavaggio del cervello da scienziati svitati, i quali decidono di curare il suo “teppismo cronico” con un originale metodo, ovvero facendogli vedere fino alla nausea una sequela di immagini sanguinolente e orripilanti, di barbari stupri, efferati omicidi e quant'altro possa venire partorito da una mente violenta. Proprio la violenza di queste immagini curerà la mente bacata del “povero” Alex, che addirittura si tramuterà da “lupo cattivo” in “agnellino indifeso”. Dicasi: il paradosso delle immagini, cioè esse possono curare e provocare l'effetto contrario.
Per riportare questo discorso ai giorni nostri, sarebbe una grande conquista pedagogica riuscire a portare i teen-ager di oggi a dire: “Accidenti quanto sono stupidi e menzogneri i reality show!”. Già perché la menzogna permea visceralmente grandi fette del mondo televisivo. E per di più programmi, appunto, come i reality vengono addirittura mandati in onda in prima serata, secondando pertanto la logica perversa degli ascolti. Mentre magari programmi di ben diversa levatura morale e culturalmente più sostanziosi vengono relegati in seconda o peggio ancora in terza serata. Comunque siamo arrivati a un punto tale che dir male dei reality è un po' diventato come sparare alla Croce Rossa! Essi sono nient'altro che la manifestazione più grottesca del kitsch – letteralmente: il cattivo gusto che, però, piace – imperante in televisione e seppur non andrebbero vietati – com'è stato detto occorre abituare infatti il pubblico, anche dei minori, a poter digerire qualsiasi immagine, per poterne così essere vaccinati a vita –, se non altro andrebbero ricollocati in una fascia oraria meno agevolante la visione di un pubblico pre-puberale. Di solito al cambio di governi succedono spesso delle specie di “rivoluzioni dei palinsesti televisivi”, ora con il centro-sinistra al governo aspettiamo e vediamo se ciò avverrà. Al momento attuale, questo provvidenziale cambio di rotta si fa ancora attendere e i soliti noti “insetti” continuano a infestare il vespaio televisivo del nostro Paese...

14.12.06

La febbre del... televisore!

di Silvia Del Beccaro
Che la tv influenzi nettamente i pensieri dei suoi spettatori, questo è risaputo. Ma che diventi addirittura spunto per atti osceni e violenze non è da sottovalutare.
Negli ultimi mesi vari centri di ricerca hanno ricevuto segnalazioni per scene di stupri, droga, alcool, omicidi, orge tra uomini travestiti da pupazzi animali, pratiche sadomaso e sette sataniche. Scene non raccontate, ma mostrate nella loro interezza in prima serata su Italia Uno – rete riconosciuta da sempre come la rete “dei ragazzi” – durante la serie del telefilm “C.S.I.” (Crime Scene Investigation).
Le denunce sono giunte dal Movimento Difesa del Cittadino al Comitato di applicazione del Codice di autoregolamentazione Tv e minori, insediato presso il Ministero delle Comunicazioni. “Nelle ore serali, quando le famiglie sono ancora a cena – ha detto Antonio Longo, presidente del Movimento Difesa del Cittadino – si deve assistere a scene come quelle sopra descritte. E pensare che prima dell’inizio del telefilm, appare soltanto una scritta di cinque secondi in cui si informa che il programma è riservato a un pubblico di soli adulti”.
Il caso di “C.S.I.” è solo un esempio di come la programmazione mediatica si sia trasformata nell’arco degli anni ma, soprattutto, di come la ricezione di questi messaggi sia mutata. L’allarme è stato lanciato da Adoc, Adusbef e Codacons che hanno dichiarato: “Basta con i reality e i programmi clonati. Occorre distribuire il canone che attualmente viene pagato dai cittadini alla Rai, in favore di quelle reti, anche private, che trasmettono programmi sociali e di servizio, in proporzione ai tempi di tv utile trasmessa”.
Il primato negativo è stato assegnato a Italia 1, nella programmazione per bambini e ragazzi; a Rai Uno invece il plauso dei genitori. Le maggiori proteste hanno riguardato non singoli film, ma la programmazione stabile in particolar modo di reality (La pupa e il secchione), cartoni animati (I Simpson) e telefilm (C.S.I. Miami). Non si è salvato nemmeno “Studio aperto”, per aver mostrato immagini senza veli. La programmazione migliore per i minori, invece, è risultata quella di Rai Uno che questa volta ha superato in gradimento Rai Tre grazie alla mini serie “Papa Luciani. Il sorriso di Dio” e al nuovo taglio di conduzione di “Affari tuoi”.
Finora abbiamo parlato di programmi tv, ma non è solo la televisione ad influenzare negativamente il comportamento di uno spettatore. Anche i libri, le canzoni o le riviste sono suoi complici.
Trevanian, ad esempio, nel suo romanzo “Il ritorno delle gru” ha dovuto auto-censurarsi per non essere considerato aizzatore di fantasie perverse nei lettori. Lo ammette lui stesso nelle note didascaliche, quando scrive: “In un libro precedente l’autore descriveva una pericolosa ascensione in montagna. Durante la trasformazione di tale romanzo in un insipido film, un giovane e brillante scalatore rimase ucciso. In un libro successivo l’autore illustrò un metodo per rubare dei quadri in qualsiasi ben protetto museo. Poco dopo la pubblicazione della versione italiana di questo libro, tre dipinti furono rubati a Milano con lo stesso identico metodo descritto, e due di essi rimasero irrimediabilmente mutilati”.
Lo spirito di emulazione è una brutta piaga sociale, che va affrontata con molta cautela. Questo desiderio di copiare, di imitare ciò che si vede in tv è sintomo di alcune lacune, in particolar modo psicologiche: avere una personalità debole, adorare qualcosa di inesistente o di troppo trasgressivo, sentirsi più forti agendo come degli irresponsabili, interpretare la vita come un gioco. Queste lacune, nella maggior parte dei casi, sono causate da una scarsa comunicazione all’interno della famiglia, come molti studiosi sostengono; ma soprattutto, occorre ammetterlo, sono causa dei messaggi che i mass media odierni lanciano alle loro “vittime”, giovani e non.
Sconfiggere l’emulazione non è facile. Dimostrare che si tratta di un mero comportamento infantile, è impresa assai ardua. Ma tutto è possibile. Trevanian, ad esempio, ha ammesso di dover censurare se stesso, per evitare che qualcuno prenda ispirazione dalle sue parole, fatte di pura immaginazione. Come lui, ciascuno dovrebbe attingere al proprio senso di responsabilità e tentare dunque di limitare i frequenti input di violenza provenienti dai mass media. Il fatto di proporre simili scene, continuamente, non fa altro che esaltare la fantasia dello spettatore, e lo invita ad annientare la routine quotidiana emulando quelli che lui considera “atti eroici”.
L’incapacità di distinguere tra realtà e finzione, poi, non fa altro che peggiorare tali situazioni. Finché i reality show non cesseranno di mostrare immagini fatte di demenza allo stato puro, senza dichiarare apertamente al pubblico che si tratta in ogni caso di mera finzione e che esistono sempre – e comunque – dei limiti da rispettare, lo spettatore si crederà padrone di fare quello che più lo aggrada. Ma in quel caso non si atterrà a dei limiti; le sue parole d’ordine saranno: nessuna regola, nessun codice di comportamento, nessuna barriera.
Perché purtroppo finché la verità sarà la prima vittima di questo mondo mediatico, che l’ha completamente annullata, lo spettatore non riuscirà a distinguere fra: falsità e verità, giusto e sbagliato, responsabilità e sconsideratezza. Questo discorso vale in generale per tutti, ma in particolare per la neotelevisione, che è stata creata appositamente per proporre anti-cultura e bugie. Contro ciò si sono mosse le associazioni Adoc, Adusbef e Codacons, che hanno annunciato l’intenzione di indire prossimamente uno sciopero generale degli utenti contro la “tv deficiente”, da attuare spegnendo per un’ora i televisori di tutta Italia.
Siamo sinceri, però. La programmazione televisiva è solo un appiglio al quale ci attacchiamo – e che attacchiamo – per giustificare una grave lacuna da parte nostra: la mancanza di una corretta “formazione mediatica”. Al giorno d’oggi bisognerebbe prima di tutto insegnare ad interpretare correttamente i messaggi (a volte subliminali) che la tv e gli altri “trasmettitori” ci inviano continuamente, giorno e notte, ventiquattro ore su ventiquattro. E forse, dopo questo primo passo, tutto sembrerà più facile.

7.11.06

Lo sfruttamento nei centri commerciali

di Silvia Del Beccaro
Correva l’anno 2001. Era il mese di settembre e Morgana (per motivi di privacy la chiameremo con questo nome) entrava a far parte del team di un grosso centro commerciale brugherese. “Sono contenta di aver dato una buona impressione – dichiara in una testimonianza, pubblicata sul sito www.vivereacomo.com – e che il fatto di avere trentasette anni non abbia precluso il mio rientro nel mondo lavorativo. Mi assumono… Evviva!”. Morgana stentava a crederci. La sua felicità era immensa, ma non sapeva che da quel momento in poi la sua vita avrebbe preso una brutta piega. Sarebbe stata costretta a lavorare ore e ore in cassa in piedi, senza nemmeno uno sgabello su cui sedersi; avrebbe dovuto affrontare “casse di punizioni”, più precisamente la “cassa 35” dove il lavoratore è costretto a guardare ininterrottamente il muro; sarebbe stata obbligata a presenziare in orari straordinari indotti. “Sono stata assunta con un contratto part-time in apprendistato e dopo un mese sono stata licenziata. Il loro motivo? Non ero adatta a quel tipo di lavoro”. Assunta in panetteria, Morgana svolgeva mansioni di diverso genere: dalle pulizie alle casse. Ha lavorato per un mese facendo un totale di 196 ore, con turni giornalieri anche di dieci ore. “Senza contare la loro fissazione di timbrare il cartellino quattordici minuti prima di iniziare e quattordici minuti dopo aver finito” aggiunge. Morgana è stata licenziata direttamente dai responsabili del centro commerciale, per cui non ha subito gravi forme di terrorismo psicologico. Viceversa, coloro che hanno manifestato l’intenzione di dimettersi, hanno subito alcune ritorsioni. “Ricordo un ragazzo che da responsabile venne declassato e si trovò a lavorare nel reparto ortofrutticolo e poi in cassa. Lo sballottavano da una parte all’altra, dopo averlo umiliato e trattato come un idiota. Ho visto anche delle colleghe che pulivano in ginocchio le basi delle casse, nonostante l’ipermercato fosse aperto. Poi quando si formavano le code dei carrelli, pieni di spesa, venivano richiamate in cassa così come si trovavano, con camici rossi sporchi e mani nere. Sudate e imbarazzate, riprendevano così il loro lavoro”. Ma non c’è da stupirsi. Le condizioni di sfruttamento nei centri commerciali sono ben note ai sindacati, i quali ancora oggi, nel 2006, faticano ad operare in posti simili. “Quello delle catene alimentari è un settore disgraziato – spiega Domenico Guerriero, segretario Ficams Cgil Brianza – perché vige un clima di terrore perenne. Le persone hanno paura, vivono aggrappate al loro lavoro e temono che rivolgendosi a noi possano subire delle ripercussioni da parte dei loro capi”. Basti pensare che la recente conquista epica dei sindacati, nei confronti di alcuni centri commerciali, è consistita nell’ottenere uno sgabello per le cassiere, su cui sedersi durante i turni lavorativi. “Figuriamoci se dovessimo incontrarci per una contrattazione di secondo livello – afferma ironicamente Guerriero –. Il fatto è che sono pochi quelli che si iscrivono ai sindacati. Si tratta per lo più di mosche bianche che oltretutto, per paura di farsi scoprire, non si presentano neppure alle assemblee da loro richieste”. Anche Morgana, nel suo piccolo, ha tentato di ribellarsi a questa situazione, facendo addirittura causa al centro commerciale. Le due parti si sono incontrate in tribunale, dove ovviamente i responsabili del centro hanno negato tutto. “I cartellini timbrati erano spariti per magia, andati persi” confessa Morgana. “Sono avvilita per il modo in cui riescono a prendersi gioco della giustizia. E nessuno può farci nulla”. Stando alle sue parole, i suoi ex capi le avrebbero proposto mille euro per mettere tutto a tacere, ma lei ha rifiutato. La sua speranza ora è quella di riuscire a trovare dei testimoni per denunciare la situazione; ma a detta sua è una missione impossibile, perché nessun dipendente andrebbe apertamente contro il proprio datore di lavoro.

31.10.06

Il “cortocircuito” della democrazia

di Marco Apolloni
Vi siete mai domandati come sono distribuite le democrazie nel nostro globo terracqueo? Io ultimamente sì e da studioso di “scienze umane” ho formulato anche una mia personale teoria al riguardo. La democrazia di certi paesi dipende solo ed esclusivamente dalle diverse condizioni climatiche che in essi si possono trovare. A seconda delle latitudini o longitudini un popolo è più o meno predisposto ad un certo tipo di governo. Solitamente nei paesi dove il clima è più esasperante – o fa troppo caldo o fa troppo freddo – il regime di governo meglio consolidato è quello dittatoriale. Difatti in questi paesi la popolazione indigena è assai più preoccupata a resistere a certe “intemperie climatiche” piuttosto che ai loro “intemperanti governanti”. Perciò ecco qua che in questi posti si sviluppa una circoscritta oligarchia, in cui sono solo in pochi a godere di un certo grado di benessere. Mentre il popolo – concetto tanto astratto, quanto difficile da delimitare – viene ripetutamente strumentalizzato e vessato nel peggiore dei modi. La caratteristica principale di ogni sana democrazia è che può “essere partecipata” dall’intera popolazione di un determinato paese. Solitamente essa, per maggior efficacia, è di tipo rappresentativo. Lo strumento democratico per antonomasia – di vitale importanza per il buon funzionamento di qualsiasi sistema politico – è il voto mediante il quale si esprimono le proprie preferenze e si scelgono i propri rappresentanti. Ovviamente l’esercizio di tale strumento resta in ogni caso condizionato da alcuni fattori esterni, ovvero si è costretti a scegliere tra una griglia ristretta di candidati, i quali necessariamente non saranno delle “prime scelte”, però quanto meno saranno scelti in base ad un ampio campione rappresentativo della popolazione.
Prendiamo alcuni esempi più luminosi in cui gli ingranaggi democratici sembrano funzionare alla perfezione, ovvero i paesi nordici e fra questi quello tenuto da tutti in più gran conto: la Svezia. Qui, stranamente, tutti sono abituati a pagare più tasse per avere dei servizi migliori. Il welfare, o “stato sociale”, funziona a meraviglia! Da noi, ad esempio, diversamente le tasse sono viste da tutti come un autentico “spauracchio”. Tant’è che, ogni qual volta andiamo a votare, gli indecisi di turno scelgono quasi sempre il candidato premier che gli promette “meno tasse per tutti”. Poco importa se ciascuno nel proprio piccolo le ri-paghi dieci volte tanto in mille altri modi, tanto il popolino è ben lieto che lo Stato gli abbia abbassato le tasse, anche se magari ha tagliato fondi a: ospedali, asili nido, scuole, università (e chi più ne ha più ne metta). Ciò è dovuto, principalmente, all’ignoranza predominante della gran parte della nostra popolazione. Al contrario di noi, dove i libri vengono visti come “entità astratte” visto il clima ideale, la Svezia detiene invece il primato di “popolo che legge di più al mondo”. Anche dietro a questo dato, le ragioni andrebbero ricercate nel clima nordico, dove le giornate sono più brevi e dunque le ore di tenebra sono maggiori di quelle di luce. Perciò esse ispirano maggiormente lunghe letture in casa, magari riscaldati davanti al proprio crepitante caminetto.
Un altro dato, questa volta ben più allarmante, è che in Finlandia si riscontrano più suicidi che in ogni altro angolo della terra. E questo perché il clima locale incute una certa innegabile depressione. In paesi come il Brasile o Cuba, invece, la gente del posto ha in sé il “gene dell’allegria” e non potrebbe essere altrimenti con un clima come il loro, dove il Sole non dico che splende tutto l’anno ma poco ci manca. Infine nell’Africa cosiddetta “nera”, la popolazione si scanna perennemente in sanguinose guerre fratricide. Lo credo bene… Il loro territorio arido è povero e manca della più inestimabile delle risorse, cioè: l’acqua. E allora mi chiedo, come si può impedire il proliferare di dittature “militari” in un simile contesto, dove non c’è democrazia perché, prima di tutto, non c’è conoscenza: la sola capace di rendere le persone davvero libere. A questo proposito, credo che le nostre evolute democrazie occidentali debbano occuparsi con maggiore serietà e presa di coscienza della drammatica situazione in cui versano i paesi del Terzo Mondo. Dunque io ritengo che essere “terzomondisti” sia per noi una scelta obbligata, anche perché loro fanno figli, mentre noi abbiamo da tempo smesso di farli. Quello che ne conseguirà, con il passare degli anni, sarà che loro diventeranno sempre più numerosi mentre noi, invece, saremo sempre meno. Pertanto presto o tardi c’invaderanno – dato il loro esponenziale aumento. Ecco qui, che persino i più ostinati fra noi si dovranno rendere conto della dura e incontrovertibile “realtà delle cifre”, che temo – prima o poi – finirà per schiacciare la nostra arroganza tutta occidentale! Il Terzo Mondo ci riguarda tutti da vicino, anche perché andando avanti forse esso emigrerà da noi…

23.10.06

Emergenze dimenticate: Roberto Bolle ci parla del Sudan

di Silvia Del Beccaro
Da decenni il Sudan vive una situazione di continui conflitti. In Darfur, una regione grande quasi due volte l'Italia e formata dai tre Stati (il Darfur Settentrionale, Occidentale e Meridionale), si sta consumando una grave crisi umanitaria che costituisce solo l'ultima variante di una guerra civile che si protrae quasi senza sosta dall'Indipendenza, ottenuta dall'amministrazione coloniale anglo-egiziana nel 1956.
L'origine del conflitto risale alle profonde disuguaglianze lasciate in eredità dall'amministrazione coloniale, con una concentrazione di risorse economiche e poteri decisionali nel nord arabo a scapito del sud abitato da popolazioni africane. Oggi, mentre il decennale conflitto tra nord e sud sembra giunto a conclusione dopo la firma nel 2005 di un accordo di pace tra il Governo sudanese e il Sudan People's Liberation Army (il principale gruppo ribelle del Sud Sudan), il timore di una spartizione esclusiva del potere tra queste due forze sembra acutizzare le violenze nel Darfur.
Le origini del conflitto nella provincia occidentale del Darfur vanno infatti ricercate nel riassetto di poteri scaturito dal processo di pace tra nord e sud da cui il Darfur è rimasto sostanzialmente escluso, in un contesto in cui si inseriscono le tradizionali tensioni interetniche tra popolazioni africane stanziali e popolazioni di cammellieri nomadi d'origine araba, in un ambito di risorse idriche e agricole profondamente scarse. Il lungo conflitto tra nord e sud del paese e quello in Darfur hanno causato un massiccio sfollamento di civili, la distruzione delle infrastrutture di base e l'erosione dei meccanismi di sussistenza della popolazione, oltre a una grave e diffusa violazione dei diritti umani.
Gli sfollati sono più di 4 milioni, altre decine di migliaia stanno facendo ritorno verso le proprie terre d'origine nel sud del paese; tutti necessitano assistenza umanitaria immediata.
Allo stato attuale, se l'accordo di pace tra nord e sud offre un'opportunità storica per imprimere una svolta alla gravissima condizione di donne e bambini nel Sudan meridionale, in Darfur la fragile tregua siglata all'inizio del 2005 ha subìto numerosi colpi, con guerra e mancanza di condizioni minime di sicurezza che restano all'origine di una crisi umanitaria che coinvolge direttamente un milione e 400 mila bambini, mentre un altro milione e mezzo vivono isolati in comunità rurali completamente tagliate fuori dagli interventi umanitari, e soffrono di malnutrizione, malattie e violenze.
Nonostante l'accordo di pace, in Sudan la salute e il benessere di donne e bambini non sono, nell'ultimo anno, migliorati.
Un'indagine campione sui servizi d'assistenza ostetrica d'emergenza effettuata nel sud Sudan indica che il tasso di mortalità materna potrebbe essere perfino cresciuto rispetto al 2003. Nel nord del Sudan, inoltre, la pratica diffusa delle mutilazioni genitali femminili contribuisce ad accrescere i rischi sanitari affrontati dalle donne.
Malaria, diarrea e infezioni respiratorie acute continuano a provocare la morte, ogni anno, d'oltre 100.000 bambini sotto i 5 anni d'età.
Agli inizi del 2005 è stata accertata una situazione alimentare grave in numerose aree del paese e si stima che circa 17 milioni di persone non abbiano ancora accesso all'acqua potabile e più di 20 milioni a servizi igienici per lo smaltimento di rifiuti organici.
Roberto Bolle testimonial dell'Unicef
Etoile del Teatro alla Scala di Milano, Roberto Bolle ha danzato sui palchi più prestigiosi del mondo e per le più importanti personalità internazionali. Il suo lavoro gli ha dato la possibilità di viaggiare e di entrare in contatto con realtà molto problematiche. Questo ha inciso sulla sua sensibilità spingendolo ad abbracciare la causa dell’Unicef.
Nel 1999 è stato nominato Goodwill Ambassador dell’Unicef Italia “per sensibilizzare e coinvolgere l'opinione pubblica, ed in particolar modo il mondo giovanile, sui problemi dell'infanzia, testimoniando e promuovendo la solidarietà e il sostegno alle iniziative dell’organizzazione”.
Nel 2001 Bolle ha promosso l'iniziativa “Yes for children”, referendum promosso su scala mondiale che ha permesso di raccogliere quasi un milione e mezzo di firme in favore dei diritti dell'infanzia. È stato testimonial delle campagne “Adotta una bigotta” e “Pigotte liriche”, organizzate in occasione delle feste natalizie dall’Unicef Italia per dare in adozione le pigotte, bambole di pezza realizzate da migliaia di volontari che aderiscono a questo progetto. Con un'offerta minima di 20 euro, corrispondente al costo medio di un ciclo vaccinazione in un paese a basso reddito, si assicurava l'immunizzazione completa ad un bambino.
In occasione dei 30 anni del Comitato Italiano per l’Unicef, Bolle ha partecipato all'evento speciale di raccolta fondi “Venezia Cinema for UNICEF”, organizzato nell'ambito della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Dopo la terribile strage di Beslan, in cui morirono 156 bambini, la somma raccolta è stata destinata alla comunità colpita dal drammatico evento.
Il 1 marzo del 2006 Bolle ha preso parte all'anteprima italiana di “All the invisible children”, film collettivo diretto da otto grandi registi (Medhi Charef, Emir Kusturica, Spike Lee, Katia Lund, Jordan Scott e Ridley Scott, Stefano Veneruso e John Woo) dedicato ai bambini privati dei loro diritti. Parte dei proventi del film sono andati a sostegno dei progetti dell’Unicef.
Infine, durante le Olimpiadi di Torino 2006, è stato testimonial della campagna “Un SMS solidale per il Sudan” assieme ad altri due ambasciatori Unicef (Deborah Compagnoni e Paolo Maldini). La campagna ha permesso di raccogliere 500.000 euro, cospicua somma necessaria a vaccinare più di 25.000 bambini.
«Quello in Sudan è stato il mio primo viaggio insieme all’Unicef – ha raccontato Roberto Bolle –. Durante questa esperienza ho potuto scoprire meglio la situazione in cui si trova il Paese, ovvero: una condizione di grandi emergenze e di grandi necessità. Trovarmi a contatto diretto con le sofferenze, soprattutto dei bambini, è stato emotivamente pesante e difficile. Tuttavia è stato incoraggiante vedere come proprio quegli stessi ragazzi, nonostante la condizione di estrema povertà, riescano sempre a salutarti con il sorriso stampato sulle labbra, quando ti incontrano per strada. Inoltre sono rimasto estremamente colpito dal grande lavoro che stanno portando avanti l’Unicef e le altre organizzazioni non governative che lavorano sul campo e che, quotidianamente, sono a contatto diretto con quella realtà».

7.10.06

Doping, un fenomeno in crescita

di Silvia Del Beccaro
Su 100 azioni antidoping, condotte in tutti gli ambiti fra la fine del 2004 e il 2005, ben il 70% delle irregolarità portate alla luce ha riguardato proprio le palestre. Sempre più persone infatti tendono ad assumere sostanze nocive per vedersi più gonfi, più muscolosi, più simili a dei body-builder. Il culto del fisico sta toccando gli eccessi, portando gli atleti ad iniettarsi innumerevoli quantità di ormoni, catastrofici per il proprio corpo.
Steroidi… Anabolizzanti… Già al solo pronunciarli, questi termini implicano in sé qualcosa di losco e pericoloso. Noti come sostanze con azione simile a quella dell’ormone maschile “testosterone”, l’uso di steroidi induce modificazioni fisiche, come ad esempio un aumento della massa muscolare e della forza, uno sviluppo dei caratteri sessuali primari e secondari (sviluppo dei genitali, timbro della voce, barba, distribuzione del grasso e dei muscoli), effetti su vari organi e tessuti (produzione dei globuli rossi, bilancio azotato ecc.).
L'uso terapeutico di steroidi anabolizzanti è sempre stato piuttosto raro e limitato: negli anni 60, ad esempio, prima che fosse disponibile l'ormone della crescita in forma ricombinante, l'ossandrolone è stato utilizzato per il trattamento della bassa statura nella sindrome di Turner. Oggi invece vengono esclusivamente utilizzati per la cura dell'angioedema ereditario, dell'ipogonadismo, dell'anemia aplastica, del cancro della mammella e di alcune forme di malattie croniche degenerative.
Purtroppo, contemporaneamente, negli ultimi decenni si è espanso sempre più il consumo di tali sostanze a scopo non terapeutico, in particolare per potenziare le proprie prestazioni fisiche. Non a caso l’assunzione di ormoni steroidei induce un aumento della massa muscolare e questo, a sua volta, consente di affrontare allenamenti più pesanti e di conseguenza miglioramenti più marcati derivanti dall'allenamento stesso nelle prove di scatto e potenza. Inaugurato dai pesisti sovietici negli anni ‘50, l’uso degli steroidi anabolizzanti si è diffuso anche ai pesisti di tutto il mondo e in seguito agli altri sport: ciclismo, nuoto, calcio, ecc… Addirittura oggi sta coinvolgendo anche i giovanissimi adolescenti che, presi dalla foga di imitare i leggendari Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, si calano sostanze delle quali ignorano tutto: dall’utilizzo corretto e illegale agli effetti collaterali.
Le pratiche di doping più diffuse sono il doping ematico e le manipolazioni chimiche e fisiche dei campioni di urina. Nel primo caso, all’atleta vengono somministrate sostanze di sintesi correlate all’EPO per via endovenosa, che migliorano il trasporto di ossigeno nel sangue. Un’altra pratica è quella dell’autotrasfusione: l’atleta cioè, si sottopone a un prelievo di sangue, che, dopo essere stato adeguatamente conservato e non appena i globuli rossi sono tornati a livello normale, gli viene trasfuso nuovamente, ottenendo così un incremento del numero dei globuli rossi.
I rischi connessi al doping ematico includono reazioni allergiche, possibile trasmissione di malattie infettive, sovraccarico del sistema circolatorio e shock metabolico. Ma non è tutto. Le conseguenze degli anabolizzanti possono essere devastanti:

Effetti su organi riproduttivi e sfera sessuale

Oltre al già riferito rischio di infertilità, che può permanere a lungo anche dopo la sospensione del trattamento, gli androgeni possono promuovere la crescita del carcinoma (tumore) della prostata e della mammella. Inoltre, a causa della conversione periferica del testosterone in ormoni femminili, può verificarsi un paradossale effetto femminilizzante con aumento di volume della ghiandola mammaria (ginecomastia) e riduzione della potenza sessuale.

Effetti sul fegato

Il fegato è uno degli organi più sensibili all’azione degli anabolizzanti. Il grado di compromissione epatica può essere quanto mai vario, oscillando da una lieve alterazione della funzionalità, alla comparsa di cisti ematiche o di tumori.

Effetti sull’apparato cardio-vascolare

È possibile osservare un aumento della pressione arteriosa, probabilmente in rapporto alla ritenzione idro-salina e al tipo di attività fisica prevalentemente anaerobica praticata.

Effetti metabolici
L’uso prolungato di anabolizzanti è un fattore rischio per la comparsa di diabete mellito, soprattutto in soggetti con familiarità per tale malattia, come dimostrato da alterazioni nella tolleranza al glucosio. Inoltre, è spesso riscontrabile un aumento dei trigliceridi e del colesterolo ematici, fattori di rischio di vasculopatie.