30.11.06

Paolo Rossi "straparla" di censura

di Silvia Del Beccaro
Milanese d’adozione, Paolo Rossi spazia da trent’anni dai club ai grandi palcoscenici, dal teatro tradizionale al cabaret, dalla televisione al tendone da circo: è caratterizzato dal suo personale modo di “fare spettacolo” che, pur immergendosi appieno nelle tematiche dell’oggi, non prescinde mai dall’insegnamento dei classici antichi e moderni, da Shakespeare a Molière a Bertolt Brecht, alla amatissima Commedia dell'arte.
Recentemente, Paolo Rossi è tornato all’attacco con un nuovo spettacolo, che recupera i migliori brani – scritti con Gino e Michele, David Riondino e Giampiero Solari – di Chiamatemi Kowalski ma che allo stesso tempo propone nuovi testi – frutto della collaborazione con Carolina De La Calle Casanova, Emanuele Dell’Aquila, Carlo Giuseppe Gabardini e Riccardo Pifferi. Il tutto arricchito con fatti di vita vera, in un percorso quasi autobiografico dell’attore. Dunque, a distanza di 18 anni dal successo dello spettacolo Chiamatemi Kowalski, che lo fece conoscere al grande pubblico del teatro italiano, Paolo Rossi presenta, al Teatro Binario 7 di Monza, Chiamatemi Kowalski. Il ritorno.

«Ho voluto riproporre il personaggio di Kowalski nel tentativo di ricostruire questo spettacolo, di cui sono andate perdute le tracce, i video e la memoria – spiega l’attore –. Di fatto, ho recuperato il mio vecchio protagonista, costruendo intorno a lui una storia completamente nuova, anche se non nego che sono presenti anche alcuni brandelli del primo spettacolo, ma che compaiono solo al termine della serata».

Chi è il "Signor Kowalski" e quando è nato questo personaggio?

Altri non è che il mio alter-ego, per cui mi risulta difficile stabilire con esattezza il momento in cui è nato. Diciamo che quando c’è lui non ci sono io, e viceversa. Dovresti riuscire a chiamarmi quando c’è lui e parlargli direttamente.

A quale genere teatrale appartengono le Sue pièce?

Sicuramente a quello comico.

Si considera più un attore o un satirico?

Satirico assolutamente no, anche perché ritengo che la satira sia solo una delle tante tecniche teatrali che si possono utilizzare. Piuttosto mi definirei un racconta-storie.

In un’intervista che Fabio Fazio Le ha rivolto durante la trasmissione “Che tempo che fa”, Lei ha ironizzato sulla definizione “teatro dell’assurdo”, esponendo un breve aneddoto. Può gentilmente ricordarcelo?

Ho semplicemente detto che il termine “assurdo” deriva dall’esclamazione che gli spettatori esprimono al termine di uno spettacolo come “Waiting for Godot”. In pratica, durante la pièce tutti i personaggi sul palco aspettano questo Godot insieme agli spettatori, i quali, a spettacolo concluso, ancora non capiscono chi esso sia ed esclamano: "Ma tutto ciò è assurdo!". Da qui deriva l'espressione “teatro dell’assurdo”.

Scherzi a parte, come definirebbe questo genere teatrale?

Naturalmente ciò che ho detto da Fazio altro non è che uno scherzo, una parodia. Io apprezzo il genere, anche perché l’ho praticato recitando proprio in “Waiting for Godot” di Samuel Beckett. Tuttavia lo ritengo un genere un po’ datato. Nel teatro bisogna sempre tener conto del rapporto tra società attuale e testo, e credo che il teatro dell’assurdo non riesca a soddisfare le esigenze dalla realtà odierna. Potrei però ricredermi...

È mai stato censurato nel corso della Sua carriera lavorativa?

Sono stato censurato periodicamente.

Quali forme di censura esistono secondo Lei?

Ce ne sono di diversi tipi. La più grave, però, è quella che si è concretizzata con i tagli al fondo unico dello spettacolo, che hanno penalizzato tutti gli attori ma in particolare le compagnie minori. Io ho risentito di questa decisione in maniera indiretta, ma fortunatamente ho una grande fetta di pubblico che mi segue assiduamente e sulla quale posso fare affidamento. I più giovani invece ne hanno risentito tantissimo: addirittura, credo che tutto ciò penalizzerà le prossime due o tre generazioni di teatranti.

Personaggi come Guzzanti, Luttazzi o Santoro sono stati prima censurati e poi scacciati dalla televisione… Pensa che la gente senta la loro mancanza e crede che qualcosa cambierà con il nuovo Governo?

Francamente non lo so. In realtà, a causa dell'enorme distacco della classe politica da ciò che avviene nel nostro Paese, stiamo vivendo una situazione paradossale in cui, a seguito di decisioni come la par condicio, noi cittadini siamo costretti a proteggere i politici e non viceversa. Dunque, essendo questa una situazione paradossale non esistono certezze. Di conseguenza vengono a mancare diritti e libertà (come quella d’espressione), irrimediabilmente pregiudicate.

28.11.06

"Crash, contatto fisico"

di Silvia Del Beccaro

Recensire Crash, vincitore di ben tre statuette in occasione dell’ultima notte degli Oscar, non è stato certo un compito semplice. Premiato come miglior film dell’anno, dotato di una sceneggiatura originale e di un montaggio eccezionale, Crash si è meritato in tutto e per tutto la statuetta d’oro. Difficile sintetizzare in poche parole la trama del film. Forse compito ancor più arduo, però, è riuscire a mettere “nero su bianco”, senza dare per scontato e senza banalizzare, il messaggio che il regista-sceneggiatore Paul Haggis ha voluto trasmettere nei suoi 113 minuti di pellicola. È palese che il filo conduttore di questo film è il razzismo: alcuni riferimenti espliciti, alcuni atteggiamenti e fraseggi discriminatori, rendono più semplice la comprensione di questo messaggio. Ma sotto questo aspetto, se ne nasconde uno ancor più profondo.
Crash non è certo un film scontato. Tutto fin dal principio è calcolato nei minimi dettagli. Nulla è lasciato al caso. E così, in un intricarsi di vicende personali, si snoda la morale (secondo una mia libera interpretazione del capolavoro di Haggis), ovvero: le apparenze ingannano. Può sembrare un luogo comune, una frase semplicistica, banale, qualunquista. Ma non è così.
In una società come quella americana, inesorabilmente multietnica, prevalgono ancora troppi pregiudizi nei confronti dell’Altro. In merito a questo argomento, ho letto un interessante libro scritto da un docente universitario nonché critico cinematografico, Gianni Canova. Nel suo lavoro "L'alieno e il pipistrello", Canova affronta il tema dell'alterità attraverso due note figure del cinema contemporaneo: Batman e Alien, protagonisti di due fortunate serie degli anni Novanta. Batman e Alien sono indicati come due figure paradossali dell'esperienza visiva contemporanea, due punti di scambio impossibile fra interno ed esterno: Batman è lo straniero interno, che abita a Gotham City, l'ibrido dalla doppia identità che, se da un lato rassicura l'atmosfera cittadina, dall'altro la turba forse anche più di quanto non facciano i delinquenti. Alien è un estraneo più familiare di quanto possa sembrare, che intrattiene un rapporto equivoco con la giovane astronauta Ripley, sua nemica e sua interlocutrice, è una "minaccia inoffensiva" che solo come tale entra nel cinema commerciale.
Totalmente diversa l'alterità interpretata da Paul Haggis, che mostra il timore nei confronti dell'altro, visto come una minaccia per via del colore della pelle (che differisce dal nostro) e della sua lingua (che ci fa sentire appartenenti ad un altro mondo, apparentemente "migliore", "corretto" e "puro"). È proprio questo timore nei confronti del nostro vicino (nero, rosso, giallo che sia) che ci fa pensare all’altro come al nemico, al cattivo o addirittura al male.
A fronte di tutto ciò, però, nella sua più totale imprevedibilità, Crash dimostra proprio come le apparenze possano ingannare. Chi a prima vista sembrava essere “il buono” si trasforma in un criminale; chi esteriormente poteva presentarsi come “il cattivo” della situazione, invece, si rivela essere un puro-di-cuore. In ogni istante, Crash cattura, rapisce la nostra attenzione, lasciandoci perennemente in uno stato di suspense.
Inizialmente la trama appare intricata, essendo composta da un susseguirsi di vicende personali, che si svolgono contemporaneamente in diversi quartieri della città degli Angeli, ovvero Los Angeles. Una casalinga e il marito procuratore, un iraniano proprietario di un “24hours shop”, due detective di polizia, un regista e sua moglie, un fabbro latinoamericano, due ladri di automobili, una recluta della polizia. una coppia coreana… Tutti personaggi interpretati da un cast d’eccezione: Matt Dillon, Sandra Bullock, Ryan Phillippe, Don Cheadle, Brendan Fraser per citarne alcuni…

22.11.06

I vangeli dell'infanzia

di Marco Apolloni
Il Vangelo di Matteo e il Vangelo di Luca sono gli unici che trattano dell'infanzia del Salvatore. Queste due narrazioni, pur nell'unitarietà del loro intento – cioè: divulgare l'operato terreno di quell'essere ultraterreno quale fu il Cristo, tracciando così la portata escatologica del suo messaggio –, presentano alcune divergenze, in special modo: stilistiche. L'opera di Matteo sembrerebbe essere scritta più sotto il segno dell'antecedente tradizione giudaica – numerosi sono i rimandi testuali all'AT – e per certi versi è anche quella più rigorosa. L'opera altresì di Luca – la cui ispirazione paolina non può che apparire evidente sin dal suo Prologo – si presenta in maniera molto più originale; nel senso che pur essendo come l'altro ricco di dettagli storici – delineanti, appunto, un contesto storico ben preciso – la sua forma narrativa è il dittico, com'era nella tradizione ellenistica – occorre, infatti, ricordare che la lingua con cui è stato redatto questo vangelo è il greco, a differenza dell'altro scritto invece in aramaico.
Diversamente dal pubblicano Matteo – il cui vangelo è rivolto soprattutto ai giudei convertiti al cristianesimo e inizia subito preannunciando l'ascendenza davidica, quindi regale, di Gesù – Luca, medico di Antiochia, comincia la sua narrazione con la promessa, da parte del Signore, del concepimento di Giovanni detto il Battista. Analogo fu l'episodio del concepimento di Isacco – chiamato: “figlio della promessa” –, nato per volontà dell'Onnipotente da Abramo e da sua moglie Sara. Nel caso specifico del Battista, i protagonisti sono il sacerdote Zaccaria e la moglie Elisabetta, parente di Maria – poi madre di Gesù – la quale esclama riconoscente: «Ecco cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna tra gli uomini» (Lc 1, 25). Tale castigo divino, la sterilità per l'appunto, viene tolto dal Signore ad Elisabetta proprio per dare alla luce il Battista, ovvero colui che preparerà l'avvento messianico di Cristo fra i fedeli, avvertendoli di agire rettamente secondo i nobili principi di giustizia e carità (c 3): poiché le porte del “regno dei cieli” non vengono precluse a nessuno, purché ciascuno adempia al volere divino e si renda rispettoso della Legge. Qui emerge di nuovo la stretta consonanza con il messaggio egalitario e universalistico della dottrina dell'apostolo Paolo, di cui Luca è un devoto discepolo.
Parallelamente alla nascita di Giovanni, Luca porta avanti la narrazione di quella del Messia. Appena nato, questi viene deposto “in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo” (2,7) – il bue e l'asinello verranno surrettiziamente introdotti da una pia leggenda. Tutto ciò per dare maggiore risalto alle misere condizioni in cui è stato dato alla luce il Re degli uomini! Luca si lascia più volte trasportare durante la narrazione dal “lieto annunzio” (1, 19) oppure dalla “buona novella” (3, 18) racchiusa dalla provvidenziale venuta del Messia. Egli restituisce con appassionate parole la straordinaria figura del suo Maestro venuto ad impartire, all'intera compagine umana, insegnamenti d'indubitabile fratellanza universale!
Gesù nasce a Betlemme, in questo piccolo capoluogo della Giudea, adempiendo così a quanto è stato detto dal profeta Michea (Mi 5,1). Tant'è vero che la citazione del profeta viene riportata da Matteo (2, 6). Costui nel suo vangelo si sofferma maggiormente sull'episodio dei magi accorsi a glorificare il nascituro, guidati nel loro periglioso viaggio dall'oriente – luogo da dove provenivano – dalla scia luminosa di una fantomatica stella. Essi, informati in sogno, non solo non riferirono a re Erode dell'avvenuta nascita del Redentore, ma oltretutto ritornarono in segreto nel loro paese natio (2, 12). Una particolare notazione da fare è che, come nell'AT, anche nel NT il volere divino viene spesso e volentieri comunicato mediante l'esperienza estatica dei sogni. Nel Vangelo di Matteo, ad esempio, Giuseppe viene avvertito in sogno che dal grembo di Maria sta per nascere un bambino prodigio – in base a questa rivelazione lui non ripudierà la sua compagna (1, 24). Il racconto di Matteo poi prosegue con il truce episodio della strage degli innocenti, avvenuta in Egitto e ordinata da re Erode, infuriatosi per l'inganno in cui venne tratto dai magi. Tale episodio si richiama implicitamente a quanto avvenne dopo la nascita di Mosè, quando il faraone – come Erode – ordinò di sterminare i bambini neonati. Esso assume una precisa funzione simbolica in Matteo, che vuole creare un metro di paragone – per i giudei convertiti al cristianesimo – tra: gli avvenimenti della vita di Mosè e quelli della vita di Cristo. Quest'ultimo, infatti, compirà la legge mosaica con la sua venuta, preannunciata dai profeti. Giuseppe viene avvertito ancora una volta in sogno e perciò si sposta con la famiglia a Nàzaret, adempiendo pure stavolta a quanto era stato già profetizzato sul conto del nascituro: «Sarà chiamato Nazareno». In definitiva, la venuta di Gesù sta ad indicare per Matteo l'adempimento delle scritture e a dimostrazione di ciò lui cita alla lettera il profeta Isaia (7, 14): “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa: Dio con noi” (Mt 1, 23).
Merita una particolare menzione l'episodio narrato da Luca (2, 46-50), in cui il fanciullo Gesù si trova a disquisire coi dottori nel tempio, rimasti meravigliati dall'acutezza delle sue domande e delle sue risposte. Ad un certo punto sua madre, dopo averlo a lungo ricercato insieme al compagno Giuseppe, se lo ritrova davanti in quel luogo: il tempio appunto – piuttosto impensabile se si pensa all'allora dodicenne Gesù. Quindi Maria domanda al figlio: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Questi con una penetrazione d'animo disarmante le risponde, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Le sue enigmatiche parole rimasero perlopiù incomprese, anche se oggi, ripensate col senno di poi, non possono che apparire per quel che sono, vale a dire: fin troppo premonitrici...
Infine, analizzando accuratamente la genealogia di Gesù, riportata sia da Matteo che da Luca, appare chiaro ed evidente che: per l'uno il Messia è il “figlio d'Israele” – discendente della stirpe di re Davide –, per l'altro invece è il “figlio dell'Uomo” – discendente diretto di Abramo, il primo uomo posto da Dio sulla terra. Ad ogni modo però entrambi, elencando la discendenza del Salvatore, hanno avuto un intento comune, ovvero quello di fondare la venuta messianica di Cristo come cifra assoluta delle profezie degli antichi profeti!

12.11.06

L'autenticità della seconda lettera ai Tessalonicesi

di Marco Apolloni
Facendo una debita comparazione stilistica e contenutistica tra la prima e la seconda lettera ai Tessalonicesi, sembrerebbe che l'autore sia lo stesso, nonostante il mare di dubbi sollevato in proposito. Le tematiche qui affrontate, infatti, sono troppo simili. Nella prima lettera l'apostolo Paolo formula l'ipotesi di un'imminente Parusia o Seconda Venuta del Cristo, il quale verrà a giudicare i vivi e i morti. Da ciò scaturirà il Giorno del Giudizio che apparirà come un fulmine a ciel sereno per tutti quelli che non credono, o per usare le sue stesse parole come un “ladro di notte”. Per questo lui invita i fedeli di Tessalonica ad essere vigilanti nel sonno e pronti a quel giorno risolutivo, che frutterà loro la salvezza tanto agognata per chi ha fede in Cristo. Mentre nella seconda lettera l'apostolo si preoccupa per l'atteggiamento di alcuni fedeli che, aspettandosi da un momento all'altro l'immediato ricongiungimento con il Padre celeste, si danno ad un'oziosità irrequieta – altrimenti detta pusillanimità – attendendo il fatidico Giorno del Giudizio. Giorno questo che verrà senz'altro, fa capire Paolo nella seconda lettera, ma che dovrà essere atteso nell'operosità quotidiana, poiché appunto l'ozio viene considerato nemico dello spirito, dell'anima e del corpo. Tre componenti queste che divengono un tutt'uno inscindibile, secondo l'ottica paolina ma più in generale secondo l'ottica cristiana stessa. Nella seconda e più discussa lettera viene anche illustrata, pur non facendone alcuna menzione esplicita, la figura dell'Anticristo come segnale inconfondibile del sopraggiungente secondo avvento messianico del Cristo, che annienterà il nunzio di Satana – o Satana stesso, non si capisce con precisione – e condannerà eternamente tutti coloro che si sono lasciati ingannare dalla menzogna satanica. Tutto questo per incitare alla perseveranza i fedeli “scelti come primizia per la salvezza”, poiché difatti “non di tutti è la fede” ma solo di coloro che crederanno nel Cristo vivente.
L'unico indizio che può in qualche modo farci dubitare dell'autenticità della seconda lettera può essere l'eccessiva premura con cui Paolo fa sapere che è stata scritta di suo pugno. D'altronde, però, a pensarci bene l'apostolo scrive questa lettera per distogliere i credenti della comunità di Tessalonica dal depistaggio attuato da taluni, che darebbero appunto per imminente la resa dei conti finale. Motivo che giustifica l'agitazione di molti fedeli, che s'interrogano su che senso abbia allora perseverare in un incessante operosità quotidiana se la Fine dei tempi è ormai prossima. In tal caso potrebbe sembrare più che plausibile la premura con cui l'apostolo attesta la paternità della lettera, per paura di risultare alla stessa stregua di molti altri falsificatori, i quali coi loro fasulli scritti sviarono diversi credenti. Ad ogni modo, pur facendo delle fantasiose ipotesi, risulta evidente l'impronta paolina del testo, comunque ascrivibile alla tradizione dell'apostolo, se non altro per le tematiche ivi affrontate. Occorre non dimenticarsi, inoltre, del fertile humus culturale da cui Paolo proveniva, ossia dalla tradizione messianica ebraica. Paolo fu innanzitutto un gran mistico, prova ne fu la sua misteriosa folgorazione sulla via di Damasco. Sicché da persecutore dei cristiani questi divenne l'evangelizzatore prescelto. A lui, prima che a ogni altro, dobbiamo l'opera di evangelizzazione che comportò la diffusione a macchia d'olio del cristianesimo, grazie ai suoi innumerevoli viaggi fino al cuore dell'Impero – cioè Roma. Qui lui innescò la miccia che poi avrebbe fatto auto-implodere l'Impero stesso, già minato al suo interno da vizi inverecondi e dalla mollezza dei suoi costumi – per dirlo con Rousseau. Lo spiccato universalismo della religione cristiana fu proprio ciò che sconvolse maggiormente i romani, abituati com'erano alle singole religioni di ciascun popolo conquistato. Mentre la scelta dei cristiani – non facilmente allineabili tra le fila di un popolo delimitato –, che predicavano ovunque i principi della loro religione, risultò essere tanto più una minaccia concreta per l'Impero romano. Oltretutto la Storia c'insegna che se ci sono persone da temere di più quelle sono senza dubbio: coloro che non hanno niente da perdere. E tali furono i cristiani, che non considerandosi creature mondane – cioè non di questo mondo – già se ne chiamarono al di fuori. Secondo costoro questa vita terrena era solo il viatico per conquistarsi la maggior gloria di una vita ultra-terrena. Dunque si capisce bene come per costoro il vivere e il non-vivere su questa terra apparisse come una questione del tutto superflua e sicuramente non decisiva. Ecco perché molti di loro preferirono farsi sbranare dai leoni nelle arene romane, piuttosto che rinnegare apertamente il loro Dio iper-cosmico. Nel Vangelo di Filippo – scritto gnostico pervenutoci nel corpus ritrovato casualmente a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945 – vi è un magnifico brano che attesta la potenza deflagrante costituita dai cristiani, e cioè:

[...] Se dici: «Sono ebreo», nessuno si commuove; se dici: «Sono romano», nessuno trema; se dici: «Sono greco, barbaro, schiavo, libero», nessuno si agita. Se dici: «Sono cristiano», trema il mondo. Riceva io questo segno che gli arconti non possono sopportare, allorché odono il suo nome [...]

9.11.06

Paolo: un ebreo illuminato

di Marco Apolloni

Negli Atti degli apostoli (capitolo 10) si racconta la conversione del centurione Cornelio, “uomo pio e timorato di Dio” (10,2), a cui per volontà del Padreterno – e contrariamente ai rigidi precetti della legge mosaica – viene concesso il privilegio del battesimo, seppure egli sia un pagano e non un circonciso. L'episodio ha una funzione simbolica ben precisa, ossia delinea già le mire universaliste della religione cristiana che vuole prefigurarsi come culto, rivolto a tutti coloro i quali ripongono le loro speranze salvifiche in Cristo! Come si suol dire, in simili casi, Paolo tiene il piede in due staffe, e cioè: pur nascendo ebreo, egli fu anche cittadino romano – fatto dovuto, secondo le fonti storiche a nostra disposizione, al ruolo importante svolto dalla sua famiglia come appaltatrice di tende per l'esercito romano. Se si pensa, quindi, che il ruolo di evangelizzare i pagani venne affidato ad un pagano stesso, ecco che il disegno divino non può che apparirci di una logica inoppugnabile, ossia: chi meglio Paolo poteva convertire i pagani, lui intellettuale di prim'ordine oltre che fine conoscitore della cultura ellenica – non solo scriveva in greco, ma pensava pure con la stessa sottigliezza di un greco. Dunque, appare evidente come il solo uomo-ponte che poteva edificare un terreno fertile d'incontro tra due civiltà, quella ebraica e quella greco-romana – da sempre in perenne scontro fra di loro –, poteva essere solo lui. Paolo, per le succitate ragioni, cominciò così quell'opera minatoria che avrebbe poi portato secoli dopo a ribaltare le fondamenta dell'Impero romano, facendo pertanto del cristianesimo: inizialmente una religione bandita, successivamente una religione dominante.
L'episodio del centurione ci porta così alla controversia di Antiochia (capitolo 15) in cui Paolo si fa portavoce del diritto alla salvezza dei pagani che credono in Cristo. L'argomento all'ordine del giorno – poi mirabilmente ripreso in alcuni passaggi della Lettera ai romani – è quello della giustificazione della salvezza per mezzo della fede nel Salvatore, contrapposta invece alla giustificazione per mezzo delle opere. Qui si produce una netta spaccatura rispetto alle strette osservanze della legge mosaica, che viene appunto minimizzata da Paolo finanche subordinata alla venuta del Cristo, banditore della stessa legge oramai superata. In sostanza, Cristo si fa legge a sé! Il fatto che i pagani non fossero circoncisi nella carne – anche se nulla vieta che lo fossero nel cuore – appare del tutto insussistente per l'apostolo. Si può dire che Paolo, in questo senso, sia nemico di ogni culto puramente esteriore e che il suo spirito ardente confidi esclusivamente sulla fede verace dei cuori. Se quella cristiana, non a caso, è ritenuta una delle religioni più liberali nonché meno vincolanti, gran parte del merito lo dobbiamo all'operazione di sganciamento dell'apostolo nei confronti della precedente tradizione ebraica. In definitiva, Paolo pone l'accento sugli aspetti concernenti la fede in Cristo nell'assolvimento del piano soteriologico, ridimensionando nettamente la legge. Un po' come se lui incitasse i fedeli a ribellarsi ad una legge decaduta, dopo l'avvento messianico del Cristo. Emerge così tumultuosa tutta la portata innovativa e – per ciò stesso – rivoluzionaria del messaggio paolino. Il kerygma, la predicazione di Paolo è tutta ammantata da una Luce nuova e rigenerante: Cristo!
Nei capitoli 9, 10, 11 della Lettera ai Romani Paolo mette in guardia il popolo “eletto” ebraico nel credersi erroneamente fin troppo intoccabile dalla giustizia divina, che altresì non fa sconti a nessuno. I piani dell'Onnipotente, infatti, sono imperscrutabili per tutti, perciò occorre riporre in essi una fiducia totale. Come vi è stato dato, può anche darsi che vi sarà tolto; questo, in soldoni, è il preciso monito che egli fa al suo popolo, che rischia di smarrire la via. L'apostolo ritiene una grave ottusità: quella di non riconoscere la grazia concessa da Dio ai pagani, che possono – come ogni altro – beneficiare della salvezza in Cristo. Conta un'unica cosa: credere. Tutto il resto è vacuità!
Nella Lettera ai Galati vi si trovano gli stessi temi. Qui Paolo dice: “Mediante la legge, io sono morto alla legge” (Gal 2, 19). Più avanti ci viene delineata la figura di Cristo come colui che disgrega la legge e apporta nuovi valori. Infatti “se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano”. Lui non è venuto in mezzo a noi per ristabilire la legge, semmai per porvi fine e rimettere tutto in discussione, capovolgendo una morale proibizionista. Le catene dell'obbligo e della costrizione non hanno mai apportato alcun giovamento all'agire umano. Con il divieto non si ottiene nulla, se non l'effetto contrario: la trasgressione. Ammesso si possa parlare di legge per Cristo, questa è senz'altro la Legge dello Spirito! Mosè non ha fatto altro che preparare il terreno all'avvento di Cristo, il cui compito non è stato tanto quello di legiferare quanto indicare la retta via da seguire. Nel Vangelo di Maria – testo gnostico rinvenuto a Nag Hammadi, in Egitto, nel '46 – si riporta il seguente insegnamento del Maestro:

[...] Andate, dunque, e predicate il Vangelo del Regno. Non ho emanato alcun precetto all’infuori di quello che vi ho stabilito. Né vi ho dato alcuna legge come un legislatore, affinché non avvenga che siate da essa costretti. [...]

Il solo precetto irrinunciabile è “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19, 18). Tutto il resto vien da sé! L'interpretazione estrema di questo precetto ci viene data da Sant'Agostino – paolino fino alla radice nonché altro “folgorato”, per così dire – il quale ha adottato come regola di condotta morale questa potente massima: “Ama e fa ciò che vuoi!”.
Sempre nella summenzionata lettera paolina alla comunità di Galazia, l'apostolo riporta che l'eredità non è ottenuta mediante la legge, bensì grazie alla promessa originaria che tutto trascende. Fino all'avvento di Cristo, la legge mosaica ha svolto il ruolo come “pedagogo” del popolo; poi però essa ha cessato automaticamente il suo regolare corso. Per Paolo occorre recidere il cordone ombelicale con la legge, poiché per salvarsi è sufficiente avere fede in Cristo. Grazie a ciò il cristianesimo si pone come alternativa religiosa all'ebraismo, circoscritto ad un solo popolo, poiché nella visione universalistica cristiana – per usare le parole di Paolo: “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).
Nei suoi scritti l'apostolo si rifà spesso a diversi episodi dell'Antico Testamento per rendere più convincenti e rafforzare i propri esempi. Come quando per discernere la funzione della legge e quella invece della fede, riporta l'esempio di Abramo il quale, proprio quando non ci sperava più, ottenne due figli: uno dalla schiava Agar, Ismaele, frutto della carne e della legge, che simboleggia la Gerusalemme terrena, cioè soggetta agli “elementi del mondo”; l'altro dalla moglie Sara, Isacco, frutto della promessa e della fede nella Parusia o Seconda Venuta del Cristo, simboleggiante invece la Gerusalemme celeste, dell'escatologia finale. In definitiva, si può dire che: chi vive nello Spirito, cammini anche secondo lo Spirito (Gal 5, 19), cosicché non inciampi nei desideri e nelle passioni biecamente carnali.
Paolo fu davvero un ebreo illuminato, sui generis, e passò come una folata di vento tra la sua gente, creando consensi ma anche dissensi – come spesso capita ai pensatori radicali come lui –, pur senza nulla togliere al ruolo cruciale da lui svolto per l'affermazione dell'intera cristianità. La sua figura infatti, all'interno della galassia cristiana, fu seconda solo a quella del suo Maestro-fondatore: Gesù Cristo!

7.11.06

Lo sfruttamento nei centri commerciali

di Silvia Del Beccaro
Correva l’anno 2001. Era il mese di settembre e Morgana (per motivi di privacy la chiameremo con questo nome) entrava a far parte del team di un grosso centro commerciale brugherese. “Sono contenta di aver dato una buona impressione – dichiara in una testimonianza, pubblicata sul sito www.vivereacomo.com – e che il fatto di avere trentasette anni non abbia precluso il mio rientro nel mondo lavorativo. Mi assumono… Evviva!”. Morgana stentava a crederci. La sua felicità era immensa, ma non sapeva che da quel momento in poi la sua vita avrebbe preso una brutta piega. Sarebbe stata costretta a lavorare ore e ore in cassa in piedi, senza nemmeno uno sgabello su cui sedersi; avrebbe dovuto affrontare “casse di punizioni”, più precisamente la “cassa 35” dove il lavoratore è costretto a guardare ininterrottamente il muro; sarebbe stata obbligata a presenziare in orari straordinari indotti. “Sono stata assunta con un contratto part-time in apprendistato e dopo un mese sono stata licenziata. Il loro motivo? Non ero adatta a quel tipo di lavoro”. Assunta in panetteria, Morgana svolgeva mansioni di diverso genere: dalle pulizie alle casse. Ha lavorato per un mese facendo un totale di 196 ore, con turni giornalieri anche di dieci ore. “Senza contare la loro fissazione di timbrare il cartellino quattordici minuti prima di iniziare e quattordici minuti dopo aver finito” aggiunge. Morgana è stata licenziata direttamente dai responsabili del centro commerciale, per cui non ha subito gravi forme di terrorismo psicologico. Viceversa, coloro che hanno manifestato l’intenzione di dimettersi, hanno subito alcune ritorsioni. “Ricordo un ragazzo che da responsabile venne declassato e si trovò a lavorare nel reparto ortofrutticolo e poi in cassa. Lo sballottavano da una parte all’altra, dopo averlo umiliato e trattato come un idiota. Ho visto anche delle colleghe che pulivano in ginocchio le basi delle casse, nonostante l’ipermercato fosse aperto. Poi quando si formavano le code dei carrelli, pieni di spesa, venivano richiamate in cassa così come si trovavano, con camici rossi sporchi e mani nere. Sudate e imbarazzate, riprendevano così il loro lavoro”. Ma non c’è da stupirsi. Le condizioni di sfruttamento nei centri commerciali sono ben note ai sindacati, i quali ancora oggi, nel 2006, faticano ad operare in posti simili. “Quello delle catene alimentari è un settore disgraziato – spiega Domenico Guerriero, segretario Ficams Cgil Brianza – perché vige un clima di terrore perenne. Le persone hanno paura, vivono aggrappate al loro lavoro e temono che rivolgendosi a noi possano subire delle ripercussioni da parte dei loro capi”. Basti pensare che la recente conquista epica dei sindacati, nei confronti di alcuni centri commerciali, è consistita nell’ottenere uno sgabello per le cassiere, su cui sedersi durante i turni lavorativi. “Figuriamoci se dovessimo incontrarci per una contrattazione di secondo livello – afferma ironicamente Guerriero –. Il fatto è che sono pochi quelli che si iscrivono ai sindacati. Si tratta per lo più di mosche bianche che oltretutto, per paura di farsi scoprire, non si presentano neppure alle assemblee da loro richieste”. Anche Morgana, nel suo piccolo, ha tentato di ribellarsi a questa situazione, facendo addirittura causa al centro commerciale. Le due parti si sono incontrate in tribunale, dove ovviamente i responsabili del centro hanno negato tutto. “I cartellini timbrati erano spariti per magia, andati persi” confessa Morgana. “Sono avvilita per il modo in cui riescono a prendersi gioco della giustizia. E nessuno può farci nulla”. Stando alle sue parole, i suoi ex capi le avrebbero proposto mille euro per mettere tutto a tacere, ma lei ha rifiutato. La sua speranza ora è quella di riuscire a trovare dei testimoni per denunciare la situazione; ma a detta sua è una missione impossibile, perché nessun dipendente andrebbe apertamente contro il proprio datore di lavoro.