22.3.07

"Quando gli albanesi eravamo noi" di Gian Antonio Stella

di Marco Apolloni

Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e... di emigranti! Quando gli albanesi eravamo noi, questo è il sottotitolo di un libro davvero istruttivo del giornalista Gian Antonio Stella. Mai un titolo è riuscito a catturare meglio, nell'immaginario di noi italiani di oggi dalla memoria corta, una verità storica spesso taciuta, occultata, ma non per questo meno vera. Colpa di questa mancanza di memoria nel nostro Paese è talvolta dovuta proprio agli stessi emigranti, che una volta tornati nel suolo natio hanno nascosto ai loro figli le fatiche indicibili e le sofferenze patite all'estero. Non c'è famiglia italiana che non vanti fra le sue fila almeno un proprio familiare emigrato in America, Australia o nei vicini Paesi europei, in cerca di miglior fortuna. In un secolo di storia tra il 1876 e il 1976 ben 27 milioni di italiani sono emigrati all'estero. Di solito chi decideva di emigrare non aveva nulla da perdere e per questo giocava la carta del tutto per tutto. Nei Paesi ospitanti i nostri connazionali non sono stati accolti sempre a braccia aperte, quasi mai anzi. Basterebbe andarsi a riguardare qualche copia d'archivio del New York Times di allora, per vedere come i titoli dell’epoca sono gli stessi che oggi leggiamo tutti i giorni sul nostro Corriere della Sera. L'Italia era vista come un “bel Paese” abitato però da “brutta gente”. Forse qualcuno di voi non lo saprà, ma il primo attentato terroristico nella storia della Grande Mela non è stato quello binladiano alle Twin Towers, bensì quello di un italiano che fece saltare in aria Wall Street, causando 33 morti e 200 feriti. E che dire della mafia che ci ha guadagnato la triste nomea di “pizza, spaghetti e... mafia”. Se ci mettiamo, poi, il carico di briscola apportato dalla filmografia hollywoodiana, con pellicole che sponsorizzano lo stereotipo dell'italiano-uomo-d'onore come Il Padrino, ecco qua che è difficile per noi cancellarne le tracce.
Oggi si fanno tanti bei discorsi sull'identità nazionale. Un popolo senza una identità sua propria, non potrà mai dirsi tale. Quale sarebbe, allora, l'identità italiana di oggi? Quella di abili imprenditori o creativi stilisti, oppure quella dei nostri avi, che con le pezze nel sedere e il sacco in spalla si sono imbarcati alla ricerca del Nuovomondo – titolo, peraltro, di una recente pellicola. Diceva Mark Twain: “La storia non si ripete, ma spesso fa rima”. Questo sembrerebbe essere il caso dell'Italia, dove la storia sembra aver fatto più di una rima. Lo stesso risentimento covato verso quest'orda di invasori, veniva riservato ai nostri avi emigranti. La xenofobia, ovvero la paura del diverso, è un sentimento talvolta inconsapevole di cui, chi più chi meno, tutti ne abbiamo dato prova almeno una volta nella vita. Se poi, però, nascono movimenti politici che per prender voti si appigliano sulle paure ancestrali della popolazione autoctona, ecco qua che questo è il sintomo di un malessere diffuso. Stiamo parlando della Lega nord, partito che nel nostro Paese sembrerebbe richiamarsi a quei principi di razzismo e di superiorità della razza – nel tal caso non la razza ariana, bensì padana, si noti la rima –, i cui echi inquietanti risuonano ancora oggi – vedi alla voce lager nazisti. Il fascismo, in tutte le sue plurime sfaccettature, ha una qualità indiscutibile, cioè quella di mutare forma e adeguarsi allo ZeitgeistSpirito dei Tempi. Come dire, non esisterà più il partito fascista in Italia, ma comunque il fenomeno fascista si è mantenuto lo stesso vivo e vegeto, seppur in altre forme – peraltro ben amalgamatesi in quel “polpettone” fatto di impasti e rimpasti, quale si è ormai ridotta la politica italiana...
Per fortuna bravi giornalisti che fanno bene il loro mestiere, come Gian Antonio Stella, ci rinfrescano la memoria con saggi indispensabili, che andrebbero integrati nelle scuole come “antidoto” al “veleno” xenofobo. A scanso d'equivoci, essere consapevoli del nostro passato mafioso, non dovrebbe farci dedurre che dovremmo pertanto accettare con lassismo le mafie importate, oggi, nel nostro Paese. Piuttosto questa consapevolezza dovrebbe innanzitutto sensibilizzarci su di un tema, sempre più attuale e che lo sarà sempre di più; poiché da questo tema dipende il nostro futuro sviluppo economico-sociale. Basterebbe sentire gli imprenditori nostrani, che dovrebbero chiudere le loro fabbriche se non avessero lavoratori stranieri disposti a fare quei lavori più degradanti, oramai snobbati dai lavoratori italiani. Prima capiremmo che l'immigrazione – quella buona e sana, fatta di padri di famiglia motivati a dare un futuro migliore ai loro figli, da distinguere da una cattiva e criminosa – è una fonte d'inestimabile ricchezza, prima faremmo un piacere a noi stessi e al nostro Paese. Oltretutto, soluzioni isolazioniste – quali possono essere ad esempio: barricarsi all'interno dei propri ristretti confini nazionali – vanno oramai considerate come degli anacronismi storici, che andrebbero ampiamente superati; che lo vogliamo o meno, la storia sembra già aver deciso per noi: stiamo andando incontro a società multirazziali e multiculturali. Perciò, tanto vale adeguarsi. A cominciare dallo smettere di discriminare i nostri immigrati, se non altro per non offendere la memoria dei nostri avi emigranti.
Chiudiamo con la dedica, molto bella e significativa, con cui il giornalista Gian Antonio Stella apre il suo libro L'orda – Quando gli albanesi eravamo noi (Rizzoli, pp. 288, euro 17): «A mio nonno Toni “Cajo”, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e Ungheria, e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui»…

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