Occorre distinguere la tradizione geopolitica europea machiavellico-realista da quella americana messianico-idealista. Questo non vuol dire che alcuni padri della patria americana fossero totalmente sforniti di una certa visione realista; basti ricordare statisti del calibro di Hamilton e Washington, fino ad arrivare ai giorni nostri a Kissinger – la cui origine tedesca è testimonio di una visione geopolitica prettamente europea. Ne L'impero che non c'è lo studioso americano David Polansky afferma proprio che la nazione americana è stata fondata sull'anti-machiavellismo, o meglio sul diniego del modo di fare politica tipicamente europeo. Gli americani sin dalla loro gloriosa fondazione si sono sempre sentiti una “eccezione”. La Provvidenza – forte è il carattere spirituale di questa giovane nazione, colonizzata originariamente da schiere di puritani emigrati dalla Madrepatria inglese – li ha infatti collocati in una posizione di comodo, lontani geograficamente dagli atavici conflitti europei, e ha dato ad essi un territorio immenso sul quale espandersi e proliferare, diventando così una nazione fieramente indipendente.
Proprio alla luce del carattere eccezionalista, di cui si sentono investiti gli americani, possono essere comprese le loro due opposte tensioni. Una all'isolazionismo, mirabilmente espressa dalla dottrina Monroe dal nome dell'omonimo Presidente, il quale voleva che gli americani si occupassero solo delle faccende americane, lasciando agli europei le loro faccende ed estendeva la sfera d'influenza degli Stati Uniti oltre all'America settentrionale anche all'America centro-meridionale – già prefigurata, oltretutto, dal famoso monito del primo Presidente George Washington – il cui succo può essere così reso: non immischiatevi nelle guerre europee poiché la nostra missione è più elevata.
Un'altra invece jeffersoniana – dal nome del Presidente Thomas Jefferson – inneggiante invece ad uno spiccato interventismo per affermare la sicurezza democratica in tutto il globo terracqueo, poiché ovunque vi fosse stato un nemico della democrazia costui sarebbe stato anche un nemico degli Stati Uniti, che minacciava la sicurezza interna della nazione.
Questa seconda tensione ebbe tra i suoi più autorevoli esponenti – nel bene e nel male – il Presidente Woodrow Wilson, ovvero il decisore dell'intervento americano nel primo conflitto mondiale. Intervento, questo, risolutivo che assestò la batosta finale alla smisurata arroganza della Germania guglielmina – che aveva raggiunto il suo culmine con l'affondamento del mercantile Lusitania. Dal nome del Presidente Wilson si originò la cordata dei wilsoniani, attualmente riconoscibili nei cosiddetti “neoconservatori” – ovvero espressione della contestata amministrazione Bush jr., che con una presunzione tutta idealistica sta rispondendo agli attentati di quel maledetto 11 Settembre, con la complessa e potenzialmente interminabile guerra al terrorismo internazionale. Anche se, a dire il vero, la guerra dichiarata al terrorismo ha una sua “ragione d'essere” eminentemente geopolitica. Essa è figlia della necessità propria degli Stati Uniti di ri-consolidarsi come potenza mondiale egemone. Non contrattaccare dopo l'abominevole attacco del 11/9 sarebbe stato percepito in tutto il mondo più che come un atto di generosa misericordia dell'America, come un segnale invece di debolezza. Dunque la guerra in Afghanistan, prima, e in Iraq, poi, rientrano nel segno di un'unica e unilaterale dimostrazione di forza – alla faccia di chi voleva l'America come una potenza in declino –, oltre a servire come preciso monito ai cosiddetti “regimi canaglia” – Iran e Siria su tutti. Gli Stati Uniti, dunque, nonostante siano la potenza incontrastata “numero uno” vogliono a tutti i costi essere la potenza “numero uno plus”. Sta di fatto, però, che l'America oggi – come l'omonimo titolo di un film del regista americano Robert Altman – è molto meno potente di quanto non fosse stata prima dell'undici Settembre. Altrimenti non sarebbero spiegabili certe libertà prese da alcuni suoi alleati. Emblematica è stata in quest'ottica la dichiarazione franco-tedesca, ribattezzata Chirac-Schroeder, contro l'intervento militare in Iraq.
Indubbiamente alcuni errori commessi in passato dagli Stati Uniti, hanno contribuito in misura rilevante a determinare l'attuale situazione di caos. Fu proprio la grossolana logica de “il nemico del mio nemico è mio amico”, che portò gli Stati Uniti ad appoggiare i guerrieri estremisti talebani nella lotta per l'indipendenza dell'Afghanistan, contro l'allora unica minaccia sovietica. Guerra questa che riveste un'importanza geopolitica cruciale, in quanto si mantenne con un piede ancora nella guerra fredda e l'altro nella guerra di oggi al terrorismo.
Ma ritorniamo alle strategie del Presidente Wilson... L'idealismo wilsoniano-americano ha già mostrato i suoi notevoli punti dolenti, vedi il disastro geostrategico del tentativo – miseramente fallito – di conciliare le potenze uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale. Tale fallimento innescò poi, come tutti sappiamo, l'inevitabile quanto inesorabile avvento sulla scena politica tedesca, di Adolph Hitler, la cui follia imperialista trascinò l’intero mondo nel baratro del secondo e – ancor più cruento – conflitto mondiale. Chissà che una maggiore prudenza e un pizzico in più di sano pragmatismo da parte di Wilson avrebbero potuto, forse, scongiurare un epilogo talmente drammatico. Ciò non significa però, attribuire la colpa dei disastrosi accadimenti successivi al Presidente Wilson, pur tuttavia le sue responsabilità oggettive furono e restano pressoché indubitabili. A tal proposito, estremamente intuitiva si rivelò Margaret Thatcher, ex Primo Ministro inglese, nel dire che: “Gli Stati Uniti sono figli della loro filosofia, mentre noi europei siamo figli della nostra storia” – malauguratamente sanguinosa, bisogna riconoscere, ma pur sempre “maestra di vita” (per dirlo con Cicerone).
Cercando di tirare le somme si può benissimo tracciare uno schema ideal-tipico sul modo di pensare americano. Innanzitutto, va detto, l'approccio politico degli americani è decisamente universalistico. Lo stesso Jefferson parlava di obblighi morali inderogabili per gli americani; oppure si pensi allo scrittore Melville, quando si riferiva all'America come alla Nuova Gerusalemme. D'altronde la costituzione americana – indirettamente influenzata dal pensiero politico di Locke e di Montesquieu – si rivolge indistintamente a tutti gli uomini liberi capaci di riconoscersi nei suoi alti e nobili principi. Troppo spesso questo universalismo americano viene però frainteso dagli europei come una sorta di moralismo ipocrita. Un'altra caratteristica del modo di pensare americano è che: gli americani non si impegnano facilmente nei conflitti, ma quando lo fanno diventano irriducibili. Proprio per questo il cittadino-medio americano muove guerra ad un altro paese solo se si tratta di combattere il cattivo di turno, sia esso: Guglielmo II, Hitler, Milosevich o Saddam. Anche l'ottimismo antropologico di cui è profondamente intrisa la cultura americana si risolve, nelle decisioni politiche dell'America, in un'eccentrica forma di sperimentalismo. Chiaro esempio di questo sperimentalismo “all'americana” è l'operazione di esportazione della democrazia in teatri altamente instabili, che l'attuale amministrazione repubblicana sta portando avanti con esiti diremmo “poco fortunati” – per usare un eufemismo. Secondo l'ottica americana: l'umanità è perfettibile a patto che venga, per così dire, americanizzata, cioè venga ri-plasmata ad immagine e somiglianza dell'America.
Tra americani ed europei, in definitiva, vi è una notevole diversità, che emerge in maniera ancor più evidente nell'ultimo conflitto iracheno. Inoppugnabili dati sociologici c'insegnano che: mentre il soldato americano segue il modello John Rambo e combatte in Iraq, con la convinzione di essere un paladino delle forze del bene in lotta contro le forze del male; il soldato inglese è molto più accorto, “prudenza” sembra essere la sua parola d'ordine e, sopratutto, se non altro gli sono state date le nozioni più elementari per meglio orientarsi sul difficile terreno di scontro iracheno, a differenza dei sprovveduti marines americani i quali hanno invaso un paese nemico senza avere la benché minima cognizione di causa su quel che sarebbe stato il dopo-Saddam – responsabilità, questa, più che altro da imputare ai loro generali e ancor meglio ai “falchi” di Washington. L'incapacità tutta americana di pensare al mondo esterno – percepito come un'entità spaventevole e insidiosa – è qualcosa di strettamente connaturato alla natura stessa dell'essere-americano. Basti pensare che l'attuale Presidente Bush jr., prima di ereditare lo scettro paterno, ebbe occasione di maturare un'effettiva esperienza del mondo basatasi soltanto su due mini-viaggi, compiuti nel confinante stato del Messico. Dato questo che dovrebbe farci non poco riflettere sulle percezioni che ha del mondo un americano-medio – peraltro ben rappresentato dal suo attuale Presidente.
Il caso del diverso modo di rapportarsi dei soldati inglesi rispetto a quelli americani nel difficile teatro d'operazione iracheno, rivela un modo di pensare squisitamente europeo. In definitiva, l'approccio europeo è molto più storico. Può sembrare addirittura che: mentre gli americani parlano chiaro, gli europei balbettano. Questo timore reverenziale degli europei è imputabile al fatto che essi sono – come già detto – figli della loro storia. Per le sue sanguinose guerre e difficoltà d'ogni sorta, la storia dell'Europa ha insegnato moltissimo ai suoi stessi abitanti e, soprattutto, ha insegnato loro ad essere realisti e non pessimisti – anche se il realismo può essere facilmente scambiato per pessimismo, pur trattandosi di ben altra cosa. Dunque il realismo degli europei ha fatto sì che essi si rivelassero, oggi, molto più cauti e prudenti sulle questioni politiche davvero cruciali. In una parola, l'atteggiamento europeo – nettamente contrapposto a quello americano – è nemico di ogni sperimentalismo. Per gli europei sperimentare è vietato. Del resto gli europei sanno bene che: “Chi dimentica la storia è condannato a ripeterla” – parafrasando il filosofo messicano Carlos Santayana.
Nei rapporti tra Europa (con particolare riguardo all'Italia, per ovvi motivi sciovinisti) e Stati Uniti, il patto di Yalta (febbraio '45) sancì la spartizione dell'Europa tra le due super-potenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, in virtù del quale: l'Europa orientale divenne un protettorato dell'Unione Sovietica, mentre l'Europa occidentale divenne un protettorato degli Stati Uniti. L'Italia aderì al patto atlantico (NATO), pur con alcune sue specificità interne (PCI). Difatti in Italia si riconoscono due tendenze dominanti in politica estera: una filo-americana legata alla DC e un'altra invece filo-sovietica legata al PCI. Quindi i rapporti tra Italia e Stati Uniti si sono sin da subito contraddistinti sotto il segno dell'ambiguità. Non solo i comunisti ma anche alcuni democristiani non vedevano granché di buon occhio l'Italia come protettorato statunitense. A dimostrazione che, malgrado tutto, vi erano più affinità tra un italiano e un russo, che non tra un italiano e un americano. Generalmente nelle dinamiche della Prima Repubblica quando c'era un ministro della difesa filo-americano, se ne metteva uno all'opposto filo-sovietico (o filo-arabo).
Il Presidente francese Charles De Gaulle fu il primo a parlare apertamente di un'Europa unita, dall'Atlantico agli Urali. Alla lunga l'atteggiamento strafottente degli Stati Uniti venne sempre più mal digerito dagli alleati europei. Essi, perciò, cominciarono presto a stancarsi di lavare i panni sporchi dell’alleato americano. Dal punto di vista americano, infatti, l'Europa è sempre stata niente più che un “albero di ciliegie”, dal quale cogliere: ciliegie buone ed altre meno buone. Per questo alcuni hanno ribattezzato questo tipo di politica come: “cogli la ciliegia”. Occorre precisare, però, che per l'attuale amministrazione neoconservatrice in Europa non ci sono più ciliegie da cogliere. Tant’è che per gli americani l'Europa intesa come unità politica neppure esiste – è giusto una costruzione fragile, al pari di un castello di sabbia, destinata pertanto a crollare poiché priva di fondamenta sufficientemente solide –, anche se esistono gli europei. Difatti, ora come ora, l'Europa sembra essere la summa di molteplici punti di vista divergenti. Il trattato di Maastricht – all'indomani della scomparsa di un mondo bipolare – costituì una spinta propulsiva verso l'attuazione di un disegno paneuropeista, oltre ad essere un tentativo concreto di coordinare gli sforzi dei singoli paesi, incanalandoli in un unico sforzo comunitario. Per inciso, in Italia Tangentopoli sarebbe stata impensabile in uno scenario di guerra fredda. Con l'avvento della Seconda Repubblica in Italia scompaiono formalmente – tranne alcune rare e frammentarie sacche di resistenza, capeggiate da alcuni irriducibili – sia i comunisti interni che esterni. Ciò coincide anche con un tempestivo cambio di segno nei rapporti con gli alleati americani. A ben guardare, lo stato di protettorato americano ha fatto più male che bene all’Italia. Ad ogni modo, questo non può e non deve servire da scusante per la pochezza della politica estera italiana – e, perché no, anche di quella interna. All'origine di tutto, sta l'impossibilità della classe dirigente italiana di riconoscere ed attuare delle direttive comuni cosiddette “bipartisan”. Come se l'Italia non fosse mai uscita dalla guerra civile – perché di questo si trattò – del biennio glorioso ('43-'45) della guerra partigiana contro il nemico nazi-fascista. Oltre a questi problemi di natura storica, se ne deve sommare un altro, ossia l'incapacità di fondo del nostro paese di ragionare in termini soggettivi – semmai solo di vincoli esterni. L'atteggiamento tipico dell'Italia in politica estera potrebbe venire così tradotto: voler restare coi piedi in due staffe. Tali problemi, però, sono principalmente dovuti al mancato intercambio generazionale della nostra ormai avvizzita classe dirigente. Basti vedere il modo in cui i principali decisori politici della Prima Repubblica, oltre a godere – a quanto pare – dell'elisir di lunga vita, si sono avvinghiati alla poltrona del potere, insediandosi persino fra le fila della Seconda Repubblica – a testimonio della veridicità del riuscito motto andreottiano secondo cui: “Il potere logora chi non ce l'ha”. Non essendo avvenuto questo ricambio generazionale tanto agognato, come si può anche solo sperare che nella nostra politica – sia estera che interna – possa cambiare qualcosa? È vero che la speranza è l'ultima a morire, ma anche ad essa vi è un termine.
Proprio alla luce del carattere eccezionalista, di cui si sentono investiti gli americani, possono essere comprese le loro due opposte tensioni. Una all'isolazionismo, mirabilmente espressa dalla dottrina Monroe dal nome dell'omonimo Presidente, il quale voleva che gli americani si occupassero solo delle faccende americane, lasciando agli europei le loro faccende ed estendeva la sfera d'influenza degli Stati Uniti oltre all'America settentrionale anche all'America centro-meridionale – già prefigurata, oltretutto, dal famoso monito del primo Presidente George Washington – il cui succo può essere così reso: non immischiatevi nelle guerre europee poiché la nostra missione è più elevata.
Un'altra invece jeffersoniana – dal nome del Presidente Thomas Jefferson – inneggiante invece ad uno spiccato interventismo per affermare la sicurezza democratica in tutto il globo terracqueo, poiché ovunque vi fosse stato un nemico della democrazia costui sarebbe stato anche un nemico degli Stati Uniti, che minacciava la sicurezza interna della nazione.
Questa seconda tensione ebbe tra i suoi più autorevoli esponenti – nel bene e nel male – il Presidente Woodrow Wilson, ovvero il decisore dell'intervento americano nel primo conflitto mondiale. Intervento, questo, risolutivo che assestò la batosta finale alla smisurata arroganza della Germania guglielmina – che aveva raggiunto il suo culmine con l'affondamento del mercantile Lusitania. Dal nome del Presidente Wilson si originò la cordata dei wilsoniani, attualmente riconoscibili nei cosiddetti “neoconservatori” – ovvero espressione della contestata amministrazione Bush jr., che con una presunzione tutta idealistica sta rispondendo agli attentati di quel maledetto 11 Settembre, con la complessa e potenzialmente interminabile guerra al terrorismo internazionale. Anche se, a dire il vero, la guerra dichiarata al terrorismo ha una sua “ragione d'essere” eminentemente geopolitica. Essa è figlia della necessità propria degli Stati Uniti di ri-consolidarsi come potenza mondiale egemone. Non contrattaccare dopo l'abominevole attacco del 11/9 sarebbe stato percepito in tutto il mondo più che come un atto di generosa misericordia dell'America, come un segnale invece di debolezza. Dunque la guerra in Afghanistan, prima, e in Iraq, poi, rientrano nel segno di un'unica e unilaterale dimostrazione di forza – alla faccia di chi voleva l'America come una potenza in declino –, oltre a servire come preciso monito ai cosiddetti “regimi canaglia” – Iran e Siria su tutti. Gli Stati Uniti, dunque, nonostante siano la potenza incontrastata “numero uno” vogliono a tutti i costi essere la potenza “numero uno plus”. Sta di fatto, però, che l'America oggi – come l'omonimo titolo di un film del regista americano Robert Altman – è molto meno potente di quanto non fosse stata prima dell'undici Settembre. Altrimenti non sarebbero spiegabili certe libertà prese da alcuni suoi alleati. Emblematica è stata in quest'ottica la dichiarazione franco-tedesca, ribattezzata Chirac-Schroeder, contro l'intervento militare in Iraq.
Indubbiamente alcuni errori commessi in passato dagli Stati Uniti, hanno contribuito in misura rilevante a determinare l'attuale situazione di caos. Fu proprio la grossolana logica de “il nemico del mio nemico è mio amico”, che portò gli Stati Uniti ad appoggiare i guerrieri estremisti talebani nella lotta per l'indipendenza dell'Afghanistan, contro l'allora unica minaccia sovietica. Guerra questa che riveste un'importanza geopolitica cruciale, in quanto si mantenne con un piede ancora nella guerra fredda e l'altro nella guerra di oggi al terrorismo.
Ma ritorniamo alle strategie del Presidente Wilson... L'idealismo wilsoniano-americano ha già mostrato i suoi notevoli punti dolenti, vedi il disastro geostrategico del tentativo – miseramente fallito – di conciliare le potenze uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale. Tale fallimento innescò poi, come tutti sappiamo, l'inevitabile quanto inesorabile avvento sulla scena politica tedesca, di Adolph Hitler, la cui follia imperialista trascinò l’intero mondo nel baratro del secondo e – ancor più cruento – conflitto mondiale. Chissà che una maggiore prudenza e un pizzico in più di sano pragmatismo da parte di Wilson avrebbero potuto, forse, scongiurare un epilogo talmente drammatico. Ciò non significa però, attribuire la colpa dei disastrosi accadimenti successivi al Presidente Wilson, pur tuttavia le sue responsabilità oggettive furono e restano pressoché indubitabili. A tal proposito, estremamente intuitiva si rivelò Margaret Thatcher, ex Primo Ministro inglese, nel dire che: “Gli Stati Uniti sono figli della loro filosofia, mentre noi europei siamo figli della nostra storia” – malauguratamente sanguinosa, bisogna riconoscere, ma pur sempre “maestra di vita” (per dirlo con Cicerone).
Cercando di tirare le somme si può benissimo tracciare uno schema ideal-tipico sul modo di pensare americano. Innanzitutto, va detto, l'approccio politico degli americani è decisamente universalistico. Lo stesso Jefferson parlava di obblighi morali inderogabili per gli americani; oppure si pensi allo scrittore Melville, quando si riferiva all'America come alla Nuova Gerusalemme. D'altronde la costituzione americana – indirettamente influenzata dal pensiero politico di Locke e di Montesquieu – si rivolge indistintamente a tutti gli uomini liberi capaci di riconoscersi nei suoi alti e nobili principi. Troppo spesso questo universalismo americano viene però frainteso dagli europei come una sorta di moralismo ipocrita. Un'altra caratteristica del modo di pensare americano è che: gli americani non si impegnano facilmente nei conflitti, ma quando lo fanno diventano irriducibili. Proprio per questo il cittadino-medio americano muove guerra ad un altro paese solo se si tratta di combattere il cattivo di turno, sia esso: Guglielmo II, Hitler, Milosevich o Saddam. Anche l'ottimismo antropologico di cui è profondamente intrisa la cultura americana si risolve, nelle decisioni politiche dell'America, in un'eccentrica forma di sperimentalismo. Chiaro esempio di questo sperimentalismo “all'americana” è l'operazione di esportazione della democrazia in teatri altamente instabili, che l'attuale amministrazione repubblicana sta portando avanti con esiti diremmo “poco fortunati” – per usare un eufemismo. Secondo l'ottica americana: l'umanità è perfettibile a patto che venga, per così dire, americanizzata, cioè venga ri-plasmata ad immagine e somiglianza dell'America.
Tra americani ed europei, in definitiva, vi è una notevole diversità, che emerge in maniera ancor più evidente nell'ultimo conflitto iracheno. Inoppugnabili dati sociologici c'insegnano che: mentre il soldato americano segue il modello John Rambo e combatte in Iraq, con la convinzione di essere un paladino delle forze del bene in lotta contro le forze del male; il soldato inglese è molto più accorto, “prudenza” sembra essere la sua parola d'ordine e, sopratutto, se non altro gli sono state date le nozioni più elementari per meglio orientarsi sul difficile terreno di scontro iracheno, a differenza dei sprovveduti marines americani i quali hanno invaso un paese nemico senza avere la benché minima cognizione di causa su quel che sarebbe stato il dopo-Saddam – responsabilità, questa, più che altro da imputare ai loro generali e ancor meglio ai “falchi” di Washington. L'incapacità tutta americana di pensare al mondo esterno – percepito come un'entità spaventevole e insidiosa – è qualcosa di strettamente connaturato alla natura stessa dell'essere-americano. Basti pensare che l'attuale Presidente Bush jr., prima di ereditare lo scettro paterno, ebbe occasione di maturare un'effettiva esperienza del mondo basatasi soltanto su due mini-viaggi, compiuti nel confinante stato del Messico. Dato questo che dovrebbe farci non poco riflettere sulle percezioni che ha del mondo un americano-medio – peraltro ben rappresentato dal suo attuale Presidente.
Il caso del diverso modo di rapportarsi dei soldati inglesi rispetto a quelli americani nel difficile teatro d'operazione iracheno, rivela un modo di pensare squisitamente europeo. In definitiva, l'approccio europeo è molto più storico. Può sembrare addirittura che: mentre gli americani parlano chiaro, gli europei balbettano. Questo timore reverenziale degli europei è imputabile al fatto che essi sono – come già detto – figli della loro storia. Per le sue sanguinose guerre e difficoltà d'ogni sorta, la storia dell'Europa ha insegnato moltissimo ai suoi stessi abitanti e, soprattutto, ha insegnato loro ad essere realisti e non pessimisti – anche se il realismo può essere facilmente scambiato per pessimismo, pur trattandosi di ben altra cosa. Dunque il realismo degli europei ha fatto sì che essi si rivelassero, oggi, molto più cauti e prudenti sulle questioni politiche davvero cruciali. In una parola, l'atteggiamento europeo – nettamente contrapposto a quello americano – è nemico di ogni sperimentalismo. Per gli europei sperimentare è vietato. Del resto gli europei sanno bene che: “Chi dimentica la storia è condannato a ripeterla” – parafrasando il filosofo messicano Carlos Santayana.
Nei rapporti tra Europa (con particolare riguardo all'Italia, per ovvi motivi sciovinisti) e Stati Uniti, il patto di Yalta (febbraio '45) sancì la spartizione dell'Europa tra le due super-potenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, in virtù del quale: l'Europa orientale divenne un protettorato dell'Unione Sovietica, mentre l'Europa occidentale divenne un protettorato degli Stati Uniti. L'Italia aderì al patto atlantico (NATO), pur con alcune sue specificità interne (PCI). Difatti in Italia si riconoscono due tendenze dominanti in politica estera: una filo-americana legata alla DC e un'altra invece filo-sovietica legata al PCI. Quindi i rapporti tra Italia e Stati Uniti si sono sin da subito contraddistinti sotto il segno dell'ambiguità. Non solo i comunisti ma anche alcuni democristiani non vedevano granché di buon occhio l'Italia come protettorato statunitense. A dimostrazione che, malgrado tutto, vi erano più affinità tra un italiano e un russo, che non tra un italiano e un americano. Generalmente nelle dinamiche della Prima Repubblica quando c'era un ministro della difesa filo-americano, se ne metteva uno all'opposto filo-sovietico (o filo-arabo).
Il Presidente francese Charles De Gaulle fu il primo a parlare apertamente di un'Europa unita, dall'Atlantico agli Urali. Alla lunga l'atteggiamento strafottente degli Stati Uniti venne sempre più mal digerito dagli alleati europei. Essi, perciò, cominciarono presto a stancarsi di lavare i panni sporchi dell’alleato americano. Dal punto di vista americano, infatti, l'Europa è sempre stata niente più che un “albero di ciliegie”, dal quale cogliere: ciliegie buone ed altre meno buone. Per questo alcuni hanno ribattezzato questo tipo di politica come: “cogli la ciliegia”. Occorre precisare, però, che per l'attuale amministrazione neoconservatrice in Europa non ci sono più ciliegie da cogliere. Tant’è che per gli americani l'Europa intesa come unità politica neppure esiste – è giusto una costruzione fragile, al pari di un castello di sabbia, destinata pertanto a crollare poiché priva di fondamenta sufficientemente solide –, anche se esistono gli europei. Difatti, ora come ora, l'Europa sembra essere la summa di molteplici punti di vista divergenti. Il trattato di Maastricht – all'indomani della scomparsa di un mondo bipolare – costituì una spinta propulsiva verso l'attuazione di un disegno paneuropeista, oltre ad essere un tentativo concreto di coordinare gli sforzi dei singoli paesi, incanalandoli in un unico sforzo comunitario. Per inciso, in Italia Tangentopoli sarebbe stata impensabile in uno scenario di guerra fredda. Con l'avvento della Seconda Repubblica in Italia scompaiono formalmente – tranne alcune rare e frammentarie sacche di resistenza, capeggiate da alcuni irriducibili – sia i comunisti interni che esterni. Ciò coincide anche con un tempestivo cambio di segno nei rapporti con gli alleati americani. A ben guardare, lo stato di protettorato americano ha fatto più male che bene all’Italia. Ad ogni modo, questo non può e non deve servire da scusante per la pochezza della politica estera italiana – e, perché no, anche di quella interna. All'origine di tutto, sta l'impossibilità della classe dirigente italiana di riconoscere ed attuare delle direttive comuni cosiddette “bipartisan”. Come se l'Italia non fosse mai uscita dalla guerra civile – perché di questo si trattò – del biennio glorioso ('43-'45) della guerra partigiana contro il nemico nazi-fascista. Oltre a questi problemi di natura storica, se ne deve sommare un altro, ossia l'incapacità di fondo del nostro paese di ragionare in termini soggettivi – semmai solo di vincoli esterni. L'atteggiamento tipico dell'Italia in politica estera potrebbe venire così tradotto: voler restare coi piedi in due staffe. Tali problemi, però, sono principalmente dovuti al mancato intercambio generazionale della nostra ormai avvizzita classe dirigente. Basti vedere il modo in cui i principali decisori politici della Prima Repubblica, oltre a godere – a quanto pare – dell'elisir di lunga vita, si sono avvinghiati alla poltrona del potere, insediandosi persino fra le fila della Seconda Repubblica – a testimonio della veridicità del riuscito motto andreottiano secondo cui: “Il potere logora chi non ce l'ha”. Non essendo avvenuto questo ricambio generazionale tanto agognato, come si può anche solo sperare che nella nostra politica – sia estera che interna – possa cambiare qualcosa? È vero che la speranza è l'ultima a morire, ma anche ad essa vi è un termine.
4 commenti:
Se ho capito bene hai studiato filosofia, e si vede. Io, che sono più pragmatico anche nell'esposizione, apprezzo però moltissimo il tuo modo di esposizione, che oltretutto dimostra una approfondita conoscenza dell'attualità e della storia moderna.
Una piccola imprecisione sul Lusitania, non era un mercantile ma una nave passeggeri e fu affondata da un U-boot. Per tutta le guerra l'affondamento del Lusitania fu utilizzato come stimolo ai soldati americani che addirittura in qualche assalto urlavano "Lusitania". Poi sembra che la nave trasportasse anche rifornimenti all'Inghilterra quindi, come sempre, ci fu un pò di ipocrisia.
Hai detto un'altra cosa giusta, spesso gi ameircani vengono solo scambiati per guerrafondai senza cervello, invece loro hanno davvero la convinzione di essere i salvatori del mondo. Forse in parte lo sono davvero se andiamo a vedere la storia occidentale dalla seconda guerra mondiale in poi.
Sulla politica estera italiana, basta vedere cosa scriveva (riportato nel mio blog su "parliamo di interesse nazioanele") Sergio Romano che ha parlato di "interesse nazionale come concetto un pò superato".
Oltre che far cascare le braccia certi atteggiamenti danno anche stimoli contrati, come lo scrivere proprio di geopolitica e di interesse nazionale, un saluto
Da corregionale a corregionale,
grazie per avermi segnalato del Lusitania. Effettivamente, adesso che ci penso, si trattava di una nave mercantile. Al più presto correggerò la svista.
Ti confesso che la mia preparazione è più filosofica, ad ogni modo la geopolitica credo sia strettamente connessa alla mia specializzazione che è la filosofia della storia. Perciò prediligo di gran lunga una geopolitica concettuale che una analitica.
A proposito degli americani, prima di studiare questa disciplina, li credevo "stupidi" ora invece ho appurato che sono degli "stupidi idealisti" che è assai più pericoloso... Non resta che aspettare le prossime elezioni per sperare in un ritorno di buon senso del popolo democratico. Ma spesso e volentieri anche i democratici si rivelano inaffidabili. Il popolo americano è più semplice di quanto non si pensi. Si può capire molte più cose sul loro conto vedendo films come "American Pie" che leggendo "The New York Times"; è nelle provincia americana che si riesce a carpire al meglio l'anima viscerale dell'America e non nelle grandi metropoli, dove vi è una maggiore consapevolezza "geopolitica", pur tuttavia vi è scarsamente impresso lo spirito americano - ovvero quello dei padri fondatori. L'America che io amo e con la quale sono cresciuto è quella dei romanzi "on the road" di Keorouac, un america viscerale e palpitante, multietnica e multicolore, dove la parola d'ordine è "tolleranza" - fra le culture. L'America "operaia" cantata da Bruce Springsteen, l'America di J.F.K.e di M.L.K. A proposito, esiste ancora quel "sogno" tanto acclamato ma spesso dimenticato del grande Reverendo assassinato a Memphis.
In una parola: l'America aggressiva e timorosa di Bush sia "senior", che peggio ancora "junior", è il contrario dell'America che io amo...
Scrivimi pure quando vuoi, mi fa piacere chiacchierare di queste cose. Salutami la nostra terra marchigiana, io purtroppo per motivi di studio mi sono dovuto trasferire nella cementificata metropoli milanese. A presto!
Marco
Ognuno commenta come vuole per difendere vita, Italia e prole. Per aiutare chi subisce, chi vuol capire ca....e.
http://www.mobbing-sisu.com/poesie/italia_jim.htm
http://agimurad.splinder.com
SUICIDIO PER TIMORE DI UNA MALATTIA O ALTRO?
di Giacomo Montana
Oggi si sente dire che si è rimasti presi da choc per il suicidio compiuto col gesto tragico di un avvocato. Purtroppo se si osserva la questione generale da vicino, di motivi per essere presi da choc ce ne sono a fiumi, solo che si preferisce tacerli, ignorarli, beffarli! Si dice che il suicida forse temeva una malattia, si trova una supposizione per tutto, ma mai che ci sia sempre una lunga sequela di fattori, cause e concause che generalmente si sommano in un essere umano, prima del gesto estremo chiamato suicidio.
Anche un avvocato per il lavoro che svolge vede scandali, politica corrotta e corruttibile, lussuria, avidità, imbrogli, ferocia, efferatezza di giudici tra apparati pittoreschi delle varie correnti politiche, che per ciò che fanno sono tutto e il contrario di tutto al tempo stesso. Sono impulsi che pesano anche sulle spalle di chi li ascolta, viene a conoscere i protagonisti, sa più di quanto può dire per il segreto che lo lega alla professione di avvocato.
Tutti fatti e persone che improvvisamente appaiono sorprendenti, sia nella forma che nella sostanza. Sono pesi che col tempo senti sulle spalle e ti chiedi: dov’è finita l’umanità, la giustizia, la religione. Dov’è finita la vita più naturale, quella fisica, intellettuale e morale?
Quando si vede annientare verità e Giustizia, con una forza del sistema al servizio di fuorilegge con la maschera da persone per bene, si vede lo snaturamento della legge, nonché trasformare l’espropriazione in diritto e la legittima difesa in disturbo, in modo da potere discriminare, denigrare e presto insabbiare quello che fa comodo a qualcuno.
La giustizia oggi è simile a una brezza marina: si solleva, si fa vedere assemblando con sé una frescura e un profumo incredibile, una bellezza estatica, ma poi il fuoco della vergogna te la fa vedere come fosse un miraggio del deserto, mentre improvvisamente ti dolgono le inaspettate “scottature”.
Comprendi molto bene che quando il diritto individuale può essere impunemente violato da qualcuno, sino all’espropriazione legale, le regole dall’esterno non ti saranno mai più di nessun aiuto, devi fingere, nascondere, tacere, fuorviare scottanti verità, per rimanere seduto in quella stessa poltrona che il mondo della politica ti permette di mantenere, senza che tu venga rovinato e distrutto a cominciare dalla professione. Devi soggiacere all’ignominia di dovere sopportare di vedere annientare identici diritti dei nostri fratelli, venendo eluso il Diritto.
Sai che se vuoi ricominciare a vivere non dovresti curarti delle regole ambigue, fatte per imbrogliare le persone oneste, la gente che spera in te, che ti apre il suo cuore, ti sorride con tutta l’anima e la ricchezza interiore, che ti si accende dentro, la comprensione. Eppure devi tuttavia sopprimerla, perché sei uno dei prigionieri del sistema.
Oggi gli schiavi sono ovunque, anche dove non lo immagineresti mai. Molti di essi vivono obbedendo a qualcuno, ma lontani dalla strada maestra dei maestri delle religioni come per esempio Gesù che diceva: sono la via, la verità e la vita, o Buddha che dice: sii una luce per te stesso. Seguendo tali Maestri la libertà ci farà divenire sempre più consapevoli, cambiando la nostra oscurità in luce e la moralità in vita eterna.
Ci sono invece persone che si costruiscono un codice morale che li porta ad essere grandi moralisti, puritani, etc., ma non sanno che pur facendo ciò che è giusto, il loro comportamento è imposto e non spontaneo. E’ una facciata: non nasce dal loro essere ma da un’imposizione.
Sono convinto che fino a quando non ci si toglierà di torno la rogna e la lebbra delle falsità e delle ipocrisie, non potremmo creare una luce dentro il nostro essere, quella luce che avevamo quando eravamo bambini e che ci hanno fatto spegnere, per farci restare sempre degli schiavi da dominare. Condurre un buon tenore di vita e avere un lavoro sicuro non sono tutto per l’uomo, presto ti accorgi che c’è qualcosa che ti manca e che c’è molto è da dovere rifare.
La legge usata per fini perversi e sviata dal suo naturale fine per far piacere a qualcuno del mondo della politica, in cuor tuo non lo accetti, se sei una luce per te stesso. Non può dare pace vedere applicare la legge per perseguire un fine completamente opposto!
Per saperne di più come esempio trasparente di fatti e prove di ingiustizie, di criminalità, di impunità e di conseguenti torture psico-fisiche nascoste addirittura da un ospedale, sino a spingere a gesti estremi una donna nata in Veneto (Auronzo di Cadore), si possono visitare i seguenti Blog:
http://sisu.leonardo.it
http://agimurad.splinder.com
e il sito:
http://www.mobbing-sisu.com
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