Il libro della settimana : “Il circolo dei nichilisti”.
Un romanzo sui “beati” anni universitari. Di Marco Apolloni.
30.12.07
I però della vita
26.12.07
Il volo degli "Angeli" sulla pista da ghiaccio
Elisa Angeli. Ventotto anni. Una lunga carriera alle spalle da agonista. Un presente roseo da pattinatrice professionista. Questo il tuo percorso, in sintesi, che ti ha condotta da Monza alla Grande Mela: New York. Ma come sei approdata sugli scenari internazionali?
È successo un po’ per caso. Nel 2005 sono andata in vacanza a New York e naturalmente avevo i pattini con me. Cercavo una pista al coperto e ho trovato il Chelsea Piers. Mentre pattinavo due coreografi dell'Ice Theatre, che provavano i loro balli, mi hanno notata.
Se fossi rimasta in Italia pensi che avresti avuto le stesse opportunità?
In Italia quasi nessuno riesce a vivere di professionismo. Forse due o tre persone al massimo possono permettersi di farlo, giusto qualche campione olimpionico.
È vero che professionismo corrisponde solo a sacrificio?
Certo conciliare la vita personale con quella lavorativa è difficile, ma si fanno delle scelte. In Italia insegno pilates, danza e pattinaggio e devo cercare dei sostituti per i periodi in cui sono via. Fortunatamente non sto mai lontana per più di tre mesi consecutivi.
In ogni caso le soddisfazioni sono tante.
Si, molte. Specialmente mamma Maria e papà Benito sono orgogliosi di questa esperienza. Mia mamma tra l’altro, essendo una brava sarta, mi sta dando una mano con i costumi di scena.
Ci sono differenze sostanziali fra Italia e America nelle metodologie d’insegnamento e negli allenamenti?
Forse in America puntano più sull’estetica del movimento. Sono più sensibili alla danza, applicata ovviamente al pattinaggio, e all’armonia delle acrobazie. In Italia invece ci si concentra più sull’agonismo e sulla qualità di una tecnica in relazione ai punteggi da ottenere in competizione.
In America tra l’altro hai potuto esibirti nei teatri. Una novità assoluta, questa, rispetto agli standard italiani.
È stata una bellissima esperienza, soprattutto per ciò che concerne il contatto con il pubblico. In un palazzetto gli spettatori sono molto distanti rispetto alla pista, mentre nei teatri sono a pochi passi da noi.
Sei stata invitata al Madison Square Garden dagli organizzatori del “Circus de Soleil”, per prendere parte alla presentazione generale della compagnia. Come ricordi questa esperienza?
È stato bellissimo. Avevano realizzato una specie di città totalmente in ghiaccio, in cui gli spettatori potevano camminare liberamente e assistere alle varie performances.
Negli ultimi 20 anni non hai mai abbandonato il pattinaggio, anche se a un certo punto hai deciso di rompere con l’agonismo. Per quale motivo?
Purtroppo anche quello del pattinaggio è un ambiente un po’ inquinato e quando inizi a non piacere più, soprattutto come coppia, non ottieni le soddisfazioni che magari meriti. E così mi sono ritrovata a 21 anni a decidere se continuare o smettere.
Da febbraio riprenderai la tournée con l’Ice Theatre e fra le varie tappe toccherai anche la Francia.
Per gli altri sarà un viaggio fuori dal Paese, per me sarà un avvicinamento a casa.
24.12.07
14.12.07
"300", le gesta eroiche dei prodi spartani
Perfetti. Gli abitanti di Sparta erano semplicemente perfetti. Nella sembianza, nella prestanza, nell'animo. Era un popolo nato per combattere, quello spartano, forgiato da trecento anni di una società guerriera e tenace fino al midollo, con l'audacia insita nel proprio Dna. Non c'era posto per la debolezza, a Sparta. Solo i duri e i forti avrebbero potuto definirsi spartani e la loro prestanza fisica era la concretezza di quella convinzione – un pensiero oggi forse incomprensibile, ma un tempo considerato quasi un obbligo morale. Fisici statuari e muscoli possenti erano una prerogativa del popolo maschile spartano. Non che le loro donne fossero da meno, s'intende: quanto a coraggio esse eguagliavano i loro mariti e i loro figli. Ne è un chiaro esempio l'atteggiamento della regina Gorgo – moglie di re Leonida – la quale, in un momento di adulterio forzato, viene definita dal suo violentatore come «la guerriera». Lei, che andrà a parlare di fronte al consiglio di Sparta per difendere le azioni di suo marito e arrecargli supporto. Lei, che ucciderà il suo violentatore e gli pronuncerà le stesse parole subite durante il rapporto forzato: «Sappi che non finirà tanto presto e che non sarà piacevole». Ma la guerra era un “privilegio” per soli uomini. Non c'era spazio per le donne in battaglia. Essere soldato era un mestiere destinato alla popolazione maschile. Fin da bambini infatti i ragazzi venivano addestrati nell’aghōghē e, una volta terminato, sarebbero dovuti tornare fra la loro gente, da spartani – o non sarebbero tornati affatto. Valore e onore erano due termini inesorabilmente legati al nome di Sparta e dei suoi cittadini. La città era simile ad un accampamento militare, governato sulla base dei principi del cameratismo e dell’austerità. Il senso di disciplina per cui gli spartani erano noti veniva inculcato agli abitanti sin da piccoli. Il sistema di istruzione, l’aghōghē per l’appunto, era un elemento centrale nella vita dello stato spartano e tutti i cittadini dovevano avervi partecipato. Era diretto da un importante magistrato, il “guardiano dei fanciulli”, che aveva sui ragazzi un potere simile a quello di un generale in battaglia sui suoi soldati. Ivi venivano insegnati solo i rudimenti del leggere e dello scrivere, poiché l’accento era posto più che altro sull’insegnamento dell’obbedienza, della prestanza fisica e del coraggio3: «E se la morte è un rischio, essa è anche la ricompensa per l’atleta vincitore»4.
Nel periodo di addestramento i giovani spartani venivano sottoposti a prove di forza continue – sia mentali che fisiche –, culminanti nella prova finale, uno scontro faccia-a-faccia con un animale feroce – un lupo – in cui avrebbero dovuto dimostrare tutto il loro valore. In fondo era la società di Sparta ad esigere tutto questo. D'altronde non poteva essere altrimenti, visto che la società spartana era basata sul militarismo e sul rigore. Una società le cui fondamenta erano da ricercare nel rispetto e nell'onore. Una società in cui la paura non doveva essere vista come un male, ma come una compagna di battaglia che il soldato avrebbe dovuto accettare per rivelarsi ancora più forte.
Gli spartani non si ritirano mai. Gli spartani non si arrendono mai. Figli miei. Non ci ritiriamo. Non ci arrendiamo. Questa è la legge di Sparta.
Marciamo. Per le nostre terre. Per le nostre famiglie. Per la nostra libertà. Marciamo. Per l'onore. Per il dovere. Per la gloria. Marciamo […] Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti.
Militarismo, combattività. Sì. Ma nei cuori degli spartani, per lo meno quelli ritratti da Zack Snyder, c'è anche tanta umanità. Le parole di re Leonida – il gigante buono che sa amare la sua donna e i compagni d'arme – in più occasioni rivelano il lato umano di questi soldati robotici, che agiscono quasi meccanicamente ad ogni ordine dato dal loro comandante. Speciale, in questo senso, è lo scontro verbale che Leonida ha con Serse, quando questi minaccia il greco di invadere le sue terre e tenta in tutti i modi di farlo inginocchiare davanti a sé affinché riconosca la supremazia della Persia sulla Grecia. In un momento di ira, Serse confessa a Leonida che sarebbe disposto a sacrificare ciascuno dei suoi soldati per poter ottenere la vittoria. Dopo aver udito le sue parole, lo spartano replica che – diversamente – sarebbe disposto a morire per ognuno dei suoi uomini. Re Leonida non manca di ricordare il carattere combattivo del suo popolo e si rivolge ancora al re persiano folgorandolo con questa battuta – che racchiude l'essenza dell'eroismo spartano: «Tu possiedi molti schiavi, Serse, ma nessun guerriero».
Seppur rielaborato in chiave leggermente fumettistica, dunque, 300 narra la storica guerra fra le flotte orientali del sovrano persiano Serse e l’esercito greco del re spartano Leonida. Serse procedeva attraverso la Tracia, la Macedonia e la Tessaglia.
Appena giunta la notizia del suo arrivo nella Pieria, i greci si sistemarono nelle loro postazioni. Spostandosi verso sud, Serse si accampò a ovest delle Termopili e l’esercito greco si fermò sul passo. L’armata ellenica era composta da trecento5 spartiati, duemilaottocento opliti provenienti da altre regioni del Peloponneso, millecento da due città della Beozia, un numero non specificato di locresi e mille focesi. Il comandante in carica era il re spartano Leonida6. Nessuno si aspettava che lo scontro coi persiani sarebbe arrivato così presto; ma quando Serse si spostò all’entrata del passo con l’intento di spaventare il nemico solo facendo mostra dell’entità delle sue forze, Leonida si preparò a sferrare l’attacco ai persiani e chiese immediatamente rinforzi da tutti gli stati alleati. Prima che le città greche potessero dare aiuto agli spartani, l’armata ellenica fu coinvolta nell’assalto dei persiani – che durò tre giorni consecutivi7.
Inizialmente Leonida e il suo esercito riuscirono a resistere, ma un traditore condusse i persiani sulle montagne, attraverso il sentiero su cui erano di guardia i focesi. Così quando cominciarono a rendersi conto che stavano per essere circondati, i soldati ellenici scapparono impauriti. Rimasero solo gli spartani8. Trecento uomini, trecento corpi, trecento facce squadrate, trecento lance e trecento scudi, trecento corpi nudi, bronzei, lisci e oliati, che fendono lo spazio con la precisione di trecento macchine da guerra9. Sebbene combatterono con estremo coraggio sino alla fine e inflissero gravi perdite nell’esercito nemico, i soldati di Leonida furono sopraffatti10.
1 Verso tratto da La spigolatrice di Sapri, composta alla fine del 1857 da Luigi Mercantini. Narra la sfortunata spedizione di Carlo Pisacane nel Regno delle Due Sicilie.
3 Hooker J.T., Gli spartani (Traduzione di Valeria Camporesi), Milano, Bompiani, 1984, pag. 120
4 Oates J.C., Sulla boxe (Traduzione dall’americano a cura di Annarosa Miele), Roma, Edizioni E/o, 1988, pag. 15
5 Stando ai dati forniti da Erodoto.
6 Hooker J.T., Gli spartani (Traduzione di Valeria Camporesi), Milano, Bompiani, 1984, pag. 144
7 Siamo a fine agosto del 480.
8 Secondo Erodoto, Leonida si sarebbe votato a morte sicura a causa di un oracolo di Delfi indirizzato a Sparta all’inizio della guerra. La profezia diceva che se non avessero perso un loro re in battaglia, gli spartani sarebbero caduti nelle mani di Serse.
9 Matteucci M., Cinemaplus.it
10 Hooker J.T., Gli spartani (Traduzione di Valeria Camporesi), Milano, Bompiani, 1984, pag. 145
11 Hooker J.T., Gli spartani (Traduzione di Valeria Camporesi), Milano, Bompiani, 1984, pag. 143
7.12.07
"L'ultima tentazione di Cristo" (1988)
L'ultima tentazione di Cristo è l'inspirata trasposizione cinematografica diretta da Martin Scorsese dell'omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis. D'altronde un film cristologico, per uno con il background italo-cattolico quale Scorsese, non ci sorprende più di tanto. A differenza dell'ultimo film-splatter sulla vita del Messia – ci riferiamo a The Passion di Mel Gibson – ne L'ultima tentazione ci si concentra di più sul Cristo spirituale, rispetto a quello carnale. Scontate e immeritate le critiche piovutegli addosso dal Vaticano, accompagnato dalla suggestiva colonna sonora targata Peter Gabriel – che ben s'intona con le scene a cui fa da sottofondo. Forse siamo davanti al più bel film sulla storia di Gesù. Si risentono gli echi della cristologia rock anni '70 e il modello implicito a cui si fa riferimento è senza dubbio Jesus Christ Superstar. L'azzeccato, e se vogliamo anche atipico, interprete di Gesù è Willem Dafoe, attore molto espressivo e dalla particolare fisionomia, tant'è che ogni piega del suo volto riesce a restituire adeguatamente tutta la complessità umana di quest'uomo-dio, il cui avvento è stato talmente cruciale per la storia dell'Occidente da costituire un autentico spartiacque, per mezzo del quale si distinguono gli evi prima e quelli dopo la sua venuta...
Un dissidio interiore lacera questo Cristo di Scorsese, la cui natura divina risulta un fardello troppo pesante da dover sopportare da solo e di cui vorrebbe essere liberato. La sua più grande paura – tanto da confessare che la paura è il suo unico dio – è quella di non risultare all'altezza della missione salvifica assegnatagli dal Padre Onnipotente. Un fedele compagno di cammino, però, lo allevia almeno in parte del suo insopportabile fardello. Questi è Giuda Iscariota. Proprio lui, il più infimo traditore della storia secondo i vangeli canonici. Nell'operare questa rivalutazione della figura di Giuda, Scorsese sembra prestar fede alla canzone dylaniana With God on his side. Effettivamente alla luce della sconvolgente e recente scoperta del Vangelo di Giuda pare che l'Iscariota, nel tradire il suo Maestro, avesse davvero Dio Padre dalla sua. A pensarci bene, in effetti, pure senza la scoperta di questo vangelo appartenente alla tradizione gnostica-sethiana, non si può certo negare come Giuda abbia svolto un ruolo stranamente decisivo nell'economia della salvezza. Senza di lui, difatti, nessun Cristo avrebbe potuto lavare i peccati dell'umanità e redimerla una volta per tutte. In un dialogo chiarificatore Cristo rivela a Giuda: «Di tutti i miei discepoli, tu sei il più forte» e poi aggiunge «senza di te non ci sarà la redenzione». Giuda sbalordito prova ad obiettare che non vuole tradire il suo Maestro e gli domanda: se al suo posto farebbe altrettanto e Gesù gli risponde di no, che non lo farebbe, precisando poi: «Per questo Dio mi ha dato il compito più facile». Dunque, rivisto sotto questa diversa ottica, Giuda più che il traditore sembrerebbe proprio il compitore delle Scritture. Disquisizioni teologiche a parte, Giuda nel film – interpretato da un coriaceo Harvey Keitel – si rivela l'unico vero amico di Cristo, colui che cerca in tutti i modi di farlo sentire meno solo nel suo cammino di ascesi spirituale. Per questo si può dire che se Gesù è stato la mente, Giuda è stato il braccio armato grazie al quale si è resa possibile la prassi, ovvero la teoria-in-azione cristiana che ha saputo operare una genuina rivoluzione d'amore.
Altro personaggio-chiave del film è senz'altro Maria Maddalena, l'amante di Gesù, divenuta prostituta solo in seguito al continuo ritrarsi di quest'ultimo. In fin dei conti l'Ultima Tentazione di Cristo crocefisso consiste appunto nel rinunciare a sacrificarsi per il genere umano, in cambio di una semplice vita da uomo, vissuta nel porto-franco di una casa accogliente e al sicuro fra le braccia di una moglie amorevole, la Maddalena appunto. La sola parte del film a discostarsi in maniera eclatante dai vangeli dell'ortodossia è proprio quando nel finale Gesù acconsente a scendere dalla croce, rinfrancato dalla rivelazione fattagli da uno strano angelo, il quale gli assicura di non essere lui il Messia tanto atteso. Quindi ecco che l'angelo lo inizia ad una nuova vita: una vita da piccolo-uomo. Questa, però, gli riserva delle spiacevoli sorprese: fra tutte la morte inaspettata di Maria Maddalena. Colui che si spaccia per suo angelo custode, altri non è che Satana, il quale lo consola dicendogli: «Esiste una sola donna al mondo, una donna con innumerevoli volti». Così Gesù passa dalla braccia della Maddalena a quelle di un'altra Maria, la quale gli dà dei figli e che ha una sorella, Marta, la quale anch'ella si concede al cognato.
Intanto il film seguita, Gesù invecchia e assiste sbalordito alla creazione del suo mito di Salvatore dell'umanità. S'indigna ascoltando i vaneggiamenti di Paolo di Tarso, che racconta come Gesù abbia sconfitto la morte e sia risorto – eliminando così la paura più atavica degli uomini. (Del resto la resurrezione è il pilastro su cui si fonda l'intera dottrina cristiana.) Perciò Gesù prende da parte Paolo, gli rivela la sua vera identità e lo prega di non mentire oltre ai suoi adepti. Paolo però, con un moto istintuale di ribellione, gli dà del bugiardo e gli confessa che ormai è troppo tardi: la sua menzogna ha messo radici nei cuori degli uomini, dando loro qualcosa in cui vale la pena credere. Infine eccolo sul suo letto di morte visitato dai discepoli, tra cui il più inseparabile di tutti – Giuda stesso – che lo disconosce come Maestro tant'è la repulsa nei suoi confronti per non essersi immolato sulla croce. Giuda gli dice: «Non c'è salvezza, senza sacrificio», poi continua dandogli del «traditore»1, del «codardo». Con una nota di disprezzo nella voce Giuda rammenta ancora al suo Maestro: «Io ti amavo così tanto, così tanto che ti ho tradito» e inoltre «ciò che è bene per un uomo, non è bene per un dio». Le parole al vetriolo dell'indomito discepolo hanno l'effetto di risvegliare in Cristo la scintilla sopita del divino ridonandogli la consapevolezza che non nel letto di vecchiaia deve morire il Messia, bensì sulla croce per il bene dell'umanità.
Qui il viaggio allucinatorio di Cristo s'interrompe e riappare lui crocefisso sul Golgota. Si scopre così che si è trattato solamente di un sogno, fuorviante e menzognero. Eccolo lì, allora, il Salvatore dell'umanità, mentre adempie al compito assegnatogli dal Padre, dall'alto della sua Onniscienza. Anche Gesù, infatti, nonostante il divino che abita in lui, si rivela per quel che è: una pedina mossa dalle sapienti dita paterne nello scacchiere del mondo. Così egli, dopo aver finalmente domato le sue paure, spira ridendo e pronunciando le sue ultime parole: «Tutto si è compiuto». Del resto il suo sacrificio non è poi per lui così drammatico come si voglia far credere, vista la sua celestiale ricompensa: sedere alla Destra del Padre nei secoli dei secoli amen!
1 Giuda che dà del «traditore» a Gesù ci sembra una scena davvero imperdibile, tant'è ironica e si scontra contro tutto quello che ci è stato insegnato sulla complessa figura del Messia.
1.12.07
Africa "in corsa" verso la libertà
di Silvia Del Beccaro
Non sono qui per fare demagogia, sia chiaro. Ma il quesito che intendo porre credo necessiti davvero di una riflessione seria. Esistono un’Africa ricca e un’Africa povera? E se sì, dove finisce l’una e dove comincia l’altra? È vero che l’Africa ricca è quella degli hotel internazionali, dei convegni, delle grandi città, dei commerci e degli smerci? Ed è altresì vero che l’Africa povera è fatta di sole baraccopoli in fango e legname, di bestiame e di malattie? Dal nostro punto di vista “occidentaloide” non esiste altra risposta all’infuori di un “sì”. Io stessa sono cresciuta con l’immagine di un Terzo Mondo fatto di siccità, denutrizione, guerriglie e Aids. A chiunque verrebbe da dire: “È normale!”, “QA, Questa è l’Africa” – citando Leonardo Di Caprio, che fa questa affermazione nel film Blood Diamond. Ma tutto questo è davvero “normale”? O forse no?!
A detta mia è tutta questione di semantica. Attribuire un senso al concetto di ricchezza forse è il primo passo da fare per poter iniziare una riflessione approfondita sul continente nero. Essere ricchi significa disporre di qualcosa in più rispetto ad altri. Significa essere consapevoli di possedere qualcosa che altri non hanno. Dunque partendo da questo presupposto che cos’ha l’Africa in più degli altri? Qual è quella caratteristica che contraddistingue gli africani dagli altri cittadini del mondo?
I migliori maratoneti di calibro mondiale, per esempio, sono africani. Nelle olimpiadi specialmente, come nelle competizioni minori, sono invidiati da tutti. La loro leggiadria, la loro scioltezza, la loro resistenza… Hanno un carattere forte, loro, forgiato dal fuoco di mille battaglie – anche quelle non realmente combattute. Sangue competitivo scorre nelle loro vene e nulla e nessuno potranno mai levarglielo di dosso. Non a caso proprio gli africani fanno parte di quell’élite di maratoneti – se non addirittura gli unici – in grado di allenarsi per ore ed ore sotto il sole cocente, a piedi nudi, senza mai risentire minimamente della stanchezza o delle insolazioni.
In questo i maratoneti africani sono identici ai leoni loro conterranei, unici felini al mondo ad essere davvero liberi. Sì, liberi di girovagare sui percorsi polverosi della savana senza dover essere ammirati o fotografati al di là di una gabbia (come accade viceversa negli zoo o nei circhi). Per entrambi quella corsa un po’ selvaggia, all’impazzata, sui deserti aridi dell’Africa Nera concretizza un desiderio intrinseco di indipendenza. La stessa indipendenza che il popolo africano reclama da secoli e che ancora oggi non riesce ad ottenere. Come la falcata del maratoneta verso la vittoria, così la corsa infinita degli africani verso un cambiamento decisivo è assai sofferta. Il traguardo sembra sempre più distante e l’idea di non giungere mai a un termine, alla meta prefissata, disorienta il popolo e lo conduce a provare rabbia e sfiducia nei confronti del loro governo. Specialmente nei Paesi presieduti dagli eserciti militari, i rapporti fra semplici cittadini e governo in auge non sono dei più idilliaci.
Tuttavia la speranza non cessa di esistere, nonostante la sfiducia fra le due componenti cresca in maniera del tutto sproporzionata. Ma ecco allora che la speranza tenta una sua concretizzazione in qualcosa di più pratico, ovvero: quella corsa sfrenata che maratoneti e leoni condividono, accomunati anche da un istinto di sopravvivenza innato e da un Dna che reclama da sempre la libertà – sia d’animo che fisica. Sono proprio questi due esemplari autoctoni – leone e maratoneta –, dunque, ad incarnare il sogno africano di un futuro roseo – e non nero come il continente – in cui questo popolo possa veramente dirsi libero. Libero da luoghi comuni e pregiudizi. Libero da schiavitù ed eserciti padroni. Libero di essere solo se stesso di fronte al mondo intero, senza dover essere continuamente contrassegnato dal bollino nero del debito economico. Quando questo accadrà, allora sì che il popolo africano potrà sentirsi pienamente soddisfatto e proverà cose che non hai mai provato finora. Solo allora, infatti, sarà in grado di interpretare la grande soddisfazione che un maratoneta prova quando, per primo, taglia il traguardo olimpionico. Una sensazione che non è minimamente paragonabile alla vita appariscente dei grandi “ricchi” africani negli hotel di lusso delle metropoli. Una sensazione che nessun “ricco” – all’infuori di quello d’animo – è capace di provare. Perché quello sguardo, quella gioia, quel coinvolgimento che un corridore prova al termine di una lunga ed estenuante corsa olimpionica non sono affatto lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un singolo individuo che sta correndo per se stesso, per vincere un titolo che lo renderà noto per tutto il resto della sua esistenza e negli anni a venire. No. Quelli sono lo sguardo, la gioia e il coinvolgimento di un intero continente, che proprio in quel magro, scuro, stanco maratoneta ripone la speranza di una vita migliore. Perché la libertà è un tesoro che non ha prezzo. Per tutto il resto c’è...