27.2.07

"Notte prima degli esami oggi" (2006)

di Marco Apolloni

Una premessa è indispensabile: sono un amante del genere commedia. Da bambino il mio sabato ideale consisteva in: pizza & gelato & commediola. Vi ho raccontato questo mio aneddoto infantile per puntualizzare che l'obiettività, quando si recensisce, è un lusso che non ci si può permettere. Un consiglio: non fidatevi mai di chi dice di essere obiettivo; l'obiettività è un favola che raccontano alcuni critici – non senza un pizzico di ipocrisia. Di solito mi capita di recensire solo pellicole che mi sono piaciute. Infatti non mi reputo tagliato per demolire la creatività altrui, costata chissà quanti sforzi. In questo la penso un po' come il buon Hemingway: per farlo occorre essere frustrati. Ma entriamo nel merito di Notte prima degli esami oggi...
Come lo ha definito il regista Fausto Brizzi – chissà se viene parente allo scrittore Enrico Brizzi, anche lui amante delle storie adolescenziali (ricordate Jack Frusciante è uscito dal gruppo?) – si tratta di un “newquel”, ovvero di un secondo episodio atipico ambientato ai giorni nostri, dove il primo invece era ambientato nei fantastici anni '80.
A ragione è stato affermato da taluni critici che in questo nuovo episodio manca la nostalgia di quell'epoca, che musicalmente ma anche culturalmente ha prodotto degli artisti-icone della nostra modernità, su tutti Freddy Mercury e i suoi Queen. Nel film sono presenti ben due evergreen del gruppo: Don't stop me now e We are the champions. Per quel che riguarda sempre la colonna sonora: oltre al tormentone del momento dei Finley Diventerai un star, astutamente cantato in inglese – si sa, noi italiani siamo poco sciovinisti – segnalo anche una perla di Luca Carboni dal testo carico di pathos e poesia, dal titolo Malinconia. Al di là dell'azzeccata colonna sonora – ornamento assai importante in un film, vista la capacità che hanno le canzoni di catturare stati d'animo istantanei –, anche la struttura stessa del film sembra ben oliata.
Stranamente il secondo episodio mi è apparso, in qualche misura, migliore del primo. Certo, meno originale. D'altronde cos'è l'originalità se non una mera chimera? Tutto è già stato visto, direbbero i post-modernisti. Dunque ciò che è “originale” non è necessariamente migliore di ciò che non lo è... Ad ogni modo, gli attori recitano in maniera più grintosa e la storia appare più fresca e convincente. Un giovane di oggi riesce meglio ad immedesimarsi. Molto bravo è stato il regista, che è riuscito a modificare il carattere dei personaggi, a seconda dei cambiamenti sopraggiunti in questa nuova epoca. Oggi i ragazzi sono più smaliziati, iper-tecnologizzati – cellulari, chat, blog e chi più ne ha più ne metta. Da ciò è derivata l'esigenza filmica di inserire scene di sesso, visto che gli adolescenti di oggi sono più emancipati nei costumi sessuali. Inoltre, un aspetto sociologico davvero interessante che ci viene ben mostrato nel film: è la sottile e invisibile ipocrisia delle famiglie italiane, dove i mariti tradiscono le mogli e sono dei “coglioni” solo perché si fanno beccare – non per il tradimento in sé, anzi segno di virilità per il maschio latino. Il buon Panariello – che, tra l'altro, non fa rimpiangere l'attore-giallista Faletti – rappresenta il prototipo del padre di famiglia del tutto irresponsabile, in preda ad una crisi di mezza età, culminata nel tradimento con la bella prof di matematica – interpretata da una sempre più brava Serena Autieri. Molinari – alias Vaporidis – finalmente riesce a conquistare la “bonazza” Azzurra e la scena della maratona sessuale sull'Eurostar-notte (Roma-Milano, diretto a Paris) è fra le più idilliache: corpi sudati e attorcigliati, che si cercano smaniosi dopo un lento corteggiamento fatto di baciuzzi e litigi, romantiche nuotate in compagnia dei delfini e flash mob – che, a quanto pare, sono la moda del momento, seppur “cretina” – consistente in un divertente happening nudista a Castel Sant'Angelo, dove un centinaio di giovani si sono dati appuntamento per imitare le gesta dei loro beniamini “figli dei fiori”. Sullo sfondo, il rigore vincente di Fabio Grosso che ci ha regalato la nostra quarta Coppa del Mondo! Notti magiche, altroché... Qui, a mio avviso, vi è un involontario rimando alla gustosa commedia tedesca Goodbye Lenin (2003). Anche lì la vittoria mondiale della Germania, ad Italia '90, veniva vissuta come episodio di riunificazione nazionale e il superamento della logica dei due blocchi contrapposti: occidentale-capitalista e orientale-comunista.
Ciliegina finale è la citazione, volontaria, de L'attimo fuggente (1989), con Molinari presentatosi in ritardo il giorno degli esami e quindi messo alla porta da un Presidente di Commissione piuttosto “stronzo” – che il ragazzo, peraltro, si è già inimicato per alcune precedenti bravate. I suoi compagni, in uno slancio di solidarietà, si coalizzano e per protesta rifiutano di dare l'esame senza il loro compagno. Naturalmente il Presidente rinuncerà ai suoi propositi di vendetta nei confronti del ragazzo. E tutti vivranno felici e “maturati”...
Trama a parte, perlopiù scontata e non poteva essere altrimenti, la genialità del film è stata quella di aver saputo catturare lo Zeitgeist o Spirito dei tempi. Credo che chiunque sia andato al cinema si sia potuto riconoscere in almeno uno dei personaggi e appunto questo processo d'empatia è alla base del successo di una pellicola. Più ci s'immedesima e più ci si lascia coinvolgere. Certo, non chiedete a questo film di operare una catarsi, ossia una purificazione dalle passioni negative – per dirlo con Aristotele (vedi la sua Poetica). La catarsi è un concetto riguardante più le tragedie che le commedie. Una commedia per riuscire dev'essere, innanzitutto, gustosa. Se non lo è, vuol dire che ha toppato clamorosamente!
In estrema sintesi, Notte prima degli esami oggi, secondo me ha avuto il merito di ri-definire il genere “commedia all'italiana”, dopo gli ultimi tristi anni egemonizzati dal duopolio Boldi & De Sica. Per usare il gergo “yankee” si tratta di un high-school movie, versione “made in Italy” però. Animal House (1978) di John Landis, con il compianto John Belushi, è stato l'apripista di questo genere di commedia “scolastica”. Poco importa che il film di Brizzi vanti già due precedenti in agro-dolce: La scuola (1995) di Daniele Luchetti e Ovosodo (1997) di Paolo Virzì. Ma come abbiamo già detto, l'originalità è oramai diventata una “chimera”...

25.2.07

Riflessioni su Cechov e sul teatro russo - Intervista a Giulio Scarpati

di Silvia Del Beccaro

«Questa di misurarmi con testi che abbiano alle spalle una riflessione sulla nostra arte è un po' la mia ossessione. Scelgo sempre testi - e autori - che, nel momento stesso in cui li metto in scena, mi diano il modo di riflettere sullo stile di regia di cui si fanno portatori. Se scelgo Čechov è anche perché Stanislavskij ha creato l'impianto del suo cosiddetto sistema proprio su questo autore. Se dico “Čechov”, infatti, viene subito in mente Stanislavskij» (Federico Tiezzi, Pisa, 2004).
Con questa affermazione l’attore Federico Tiezzi ha risposto al quesito “Perché hai scelto di mettere in scena un testo come l'Antigone di Sofocle di Brecht?”, rivoltogli in occasione della sua Prima nazionale[1] a Prato. Nonostante la scelta del testo da interpretare, Tiezzi ama gli scritti checoviani; ma nell’ambito teatrale, non è l’unico artista ad amare Čechov. Anche Giulio Scarpati, intervenuto recentemente a Brugherio (MI) nello spettacolo “Una storia d’amore”, ha svelato la sua attrazione per i testi del drammaturgo russo.


L’idea di recitare nei panni di Čechov mi ha sempre allettato, perché si tratta di un autore che mette una grande passione in tutto quello che fa… Un po’ come me. Più mi sento coinvolto da una storia o da un personaggio e più mi sento spinto ad approfondire gli aspetti che lo caratterizzano. Di Čechov mi ha impressionato la condizione drammatica in cui ha vissuto gli ultimi della sua vita, nella piena consapevolezza di una morte imminente a causa della malattia; ma allo stesso tempo sono rimasto affascinato dalla reazione Čechoviana di fronte a questa tragicità. Faccia a faccia con la morte, Čechov è riuscito sempre a sminuire la sua condizione di malato, ironizzando in maniera ammirevole. Questo binomio, onnipresente nei testi di Čechov, composto da malinconia e ironia, è anche una caratteristica tipica del teatro russo in generale, dal quale sono particolarmente affascinato.[2]


Lo spettacolo, di cui è protagonista Giulio Scarpati insieme a Lorenza Indovina, è incentrato sulla storia d’amore tra il grande scrittore Anton Čechov e Olga Knipper, attrice della compagnia di Stanislavskij. “Una storia d’amore” trae spunto dalle circa 400 lettere che Anton Čechov “lo scrittore” e Olga Knipper “l’attrice” si sono scambiati durante i loro sei brevi anni d’amore. Čechov conobbe la Knipper proprio in occasione del trionfo del “Gabbiano” a Mosca; nel maggio 1901 la sposò. Sulla base di questo epistolario appassionato, ironico, poetico e commovente è stata ricostruita la loro storia intima: il primo incontro, l’amicizia, la relazione clandestina, il matrimonio, la morte di lui (annunciata ma repentina, che avvenne a luglio 1904, durante un viaggio in Germania. Čechov aveva 44 anni).
Knipper e Čechov trascorsero poco tempo insieme nel loro breve matrimonio e le lettere ad Olga sono di una sdolcinatezza imbarazzante, piene di vezzeggiativi quali: “Cucciolina mia”, “mia cara cucciolina”, “carissima cucciola”, “oh, cucciolina, cucciolina”, “piccola cucciolina fulva”, “mia vivace cucciolina”, “adorata bastardina mia”, “mia cara, mia pesciolina”, “mio ghirigoro”, “carissima puledrina”, “mia incomparabile cavallina”, “mio carissimo fringuello”…


Il loro è stato un amore difficile, ostacolato inizialmente anche dalla differenza di età; la Knipper infatti era molto più giovane. Ostacolo che comunque sono riusciti a superare immediatamente e in maniera brillante. Il loro è stato un grande amore, vissuto in piena libertà (tant’è che Čechov non ha mai imposto alla moglie di restare a casa insieme a lui, nonostante la malattia) e molto spesso a distanza (a causa della tournée di Olga). Le lettere che si sono scritti entrambi, e che noi riproponiamo durante lo spettacolo, presentano un amore non tanto diverso da quello dei giovani innamorati odierni. Ovviamente le lettere sono stese in maniera più forbita, essendo stato Čechov un grande scrittore, ma i temi e i vezzeggiativi affettuosi che si rivolgono l’un l’altro sono decisamente paragonabili alle storie d’amore moderne. E questo permette al pubblico di seguire più volentieri lo spettacolo e di rimanerne catturato.


Nelle lettere che Olga scrive dalla tournée, ad un Anton costretto dalla tisi a lunghi soggiorni in campagna, in paesi caldi, o in sanatorio, sentiamo gli echi dello spettacolo, dei successi e degli insuccessi, della vita di compagnia, dei fermenti del grande teatro russo di Stanislavskij. Quest’ultimo fu particolarmente legato al drammaturgo russo per diversi motivi: il successo della scrittura Čechoviana drammatica “Il Gabbiano” fu dovuto proprio a Stanislavskij. Dopo i fischi ottenuti alla Prima al teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo (1896), l’innovazione drammaturgica di Čechov venne presa in considerazione dal Teatro d’Arte di Mosca. Furono infatti Stanislavskij e Dancenko a individuare la novità del teatro Čechoviano e a scorgerne la somiglianza con la loro teoria di antiteatralità. Ma le comunanze con Stanislavskij non finiscono qui… Olga Knipper, moglie di Čechov, come già anticipato, fu un’attrice della compagnia di Stanislavskij così come il nipote dello stesso Čechov, Michail[3]. Nello spettacolo “Una storia d’amore”, si accenna sovente al rapporto di amicizia e lavoro esistente tra Stanislavskij e Čechov; Scarpati ne dà una conferma.


Stanislavskij viene citato spesso nelle lettere. Come ha giustamente accennato, la Prima de “Il Gabbiano” inizialmente fu un vero fiasco e solo grazie alla messa in scena del regista russo riuscì ad ottenere il consenso del pubblico. Ma soprattutto, Stanislavskij viene citato perché spesso Anton nelle lettere scriveva di trovarsi in disaccordo con l’iperrealismo del suo connazionale.

La storia del teatro novecentesco è stata fortemente caratterizzata da una serie di singolari avvenimenti che hanno portato ad una nuova concezione di “fare teatro”; fra questi vi è certamente la nascita del laboratorio teatrale di Stanislavksij.
Il Novecento è stato caratterizzato da un’azione di rinnovamento che ha portato ad una forma di spettacolo che intendeva contrapporsi all’idea di teatro del secolo precedente. Infatti si passa da un teatro basato quasi esclusivamente sulla recitazione enfatica dell’attore ad un altro che si prefigge di determinare un rapporto con gli uomini che abbia valore in sé, cioè che sia in grado di assumere un significato. Nasce quindi un “nuovo teatro” che segue essenzialmente due direttive: all’interno ha come centro l’attore, all’esterno si pone come obiettivo la comunicazione col pubblico.
Proprio da questo spostamento dell’attenzione, focalizzata ora sull’attore come protagonista del processo di rinnovamento del teatro, nasce l’incontro senza precedenti tra quest’ultimo e la pedagogia. Il teatro diventa luogo della scoperta e valorizzazione delle possibilità espressive dell’uomo, luogo in cui la sua creatività e fantasia si manifestano liberamente.
Le prime scuole dedicate esclusivamente agli attori nacquero presso il Teatro d’Arte di Mosca. Queste strutture avevano però un grosso limite, quello di restare troppo legate alla specifica personalità di un determinato insegnante e di non prevedere mai un metodo che si basasse su una solida base teorica e che si fondasse su un organico disegno pedagogico.
Proprio ad un tale modo di concepire la formazione dell’attore si oppose Konstantin Sergeevic Aleksèev Stanislavskij[4], il quale rivoluzionò le tecniche teatrali introducendo una metodologia di ricerca sperimentale sull’attore, basandosi su alcune intuizioni di alcuni suoi predecessori, quali Appia e Craig.


Come molti attori della mia generazione, anche io ho studiato Stanislavskij. Ritengo sia stato un pilastro fondamentale per i metodi di insegnamento e le scuole di recitazione contemporanee, vedi gli “Actor’s Studio”. Non a caso, attori del calibro di Al Pacino provengono proprio da quel genere di scuole, a parer mio più formative rispetto a quelle italiane (almeno in passato).


Stanislavskij giunse a New York e cominciò ad insegnare in una chiesa al centro della città. Molte persone seguivano i suoi corsi: tra queste vi era Lee Strasberg. La cosa veramente memorabile per questi individui fu il fatto che in America ogni attore lavorava per conto suo e solo in seconda battuta con gli altri, quindi non si era abituati a portare avanti un lavoro d’insieme, un lavoro “d’ensemble”. Le compagnie di repertorio, così come il teatro commerciale, non conoscevano questo tipo di prassi, mentre nel teatro di Stanislavskij si faceva un percorso del genere, e alla fine ne uscivano dei personaggi che non sembravano attori, ma persone reali. C’era della vita in ogni personaggio, e fu questo ad appassionare tutti coloro che seguivano i suoi corsi.
Il grande boom del metodo Stanislavskij ebbe proprio luogo in Usa, dove nacque il celeberrimo Actor’s Studio. Fondato a New York nel 1947 da E.Kazan, C.Crawford e L.Strasberg, è ancor oggi la più prestigiosa scuola di recitazione degli Stati Uniti, anche se ha raggiunto il culmine della fama negli anni Cinquanta. Vi hanno studiato attori come James Dean, Rob Steiger, ecc.., e più di recente Jane Fonda e Robert De Niro. L’Actor’s Studio si rifà alle teorie dell'American Laboratory Theatre, fondato negli anni Venti da alcuni attori russi emigrati discepoli di Stanislavskij, sostenitori di una tecnica recitativa improntata al massimo di realismo psicologico. L'Actor's Studio propugna un metodo di recitazione finalizzato alla totale identificazione dell'attore con il personaggio che interpreta, in modo da rivelarne le più intime contraddizioni. Il risultato del metodo è un'interpretazione di grande intensità e coinvolgimento, assai adatta ad esprimere personalità nevrotiche e tormentate, spesso afflitte da conflitti interiori insanabili. Non è più il personaggio che si adatta alle caratteristiche dell'attore, secondo la tradizione hollywoodiana, ma viceversa. L'interprete deve penetrare nel ruolo con tutto se stesso e quindi non solo con le battute della sceneggiatura, ma anche e soprattutto con la gestualità e le espressioni del volto.
In Europa il metodo Stanislavskij venne applicato meno, anche se è stato in parte riscoperto da alcuni registi in anni recenti.


Ritengo personalmente importante dare spazio a Stanislavskij perché, a parer mio, fu il primo a porre le basi del teatro moderno, in collaborazione con Anton Čechov ovviamente. Prima che venissero introdotte e divulgate le innovazioni d’Arte di Mosca, le realizzazioni ottocentesche tendevano ad evidenziare solamente la semplicità e la naturalezza nella recitazione. Con il teatro russo di fine Ottocento-primo Novecento, invece, si sono aperti nuovi orizzonti e si è cercato di dare ai personaggi una maggiore aurea di profondità, riflessività e umanità, riscontrabile anche nelle piccole cose (come ad esempio le indicazioni di regia). Ricordo un buffo aneddoto legato a Il gabbiano. In una delle sue primissime messe in scena, Stanislavskij, per rendere il tutto più reale, voleva mettere sul palco delle rane e delle libellule vere. Ne discusse con Čechov, il quale gli chiese: “Perché?”, e Stanislavskij rispose: “Perché è vero, è più realistico!”. Al che Čechov disse che era inutile, allo stesso modo in cui sarebbe stato inutile togliere da un ritratto ad olio il naso dipinto per sostituirlo con un naso vero. Il realismo di Stanislavskij era interessante da un certo punto di vista, perché si trattava di sperimentazione, ma alla fine non risultava “realistico” in senso teatrale.


Quando in Russia si cominciò a scrivere e recitare in un modo diverso, lo stile predominante era quello del melodramma: personaggi o tutti bianchi o tutti neri, trame dalle forti emozioni. Čechov portò tutto ad un altro livello, un livello pieno di trappole per gli attori: da una parte bisognava aderire di più alla vita, alla realtà quotidiana, dall’altra, però, non si doveva essere solo naturalistici, perché c’era una “poesia” di cui tener conto. È proprio questa poesia a provocare una forma più alta di espressione artistica.
Stanislavskij fu uno di quei personaggi che hanno inciso profondamente sulla storia del teatro; infatti fu il primo regista che possiamo considerare “moderno” a tutti gli effetti. Durante la sua carriera, col tempo, egli tese ad interessarsi sempre meno alla messa in scena e sempre di più all’addestramento dell’attore. Così nacque il celebre “metodo Stanislavskij”[5], il quale è basato sul presupposto che il personaggio debba essere un’entità reale e quindi che non debba essere riprodotto da trucchi e artifici. Un altro concetto-base del metodo è che l’attore deve vivere l’emozione del personaggio come fosse una sua emozione e per far questo deve trovare nella sua biografia una sensazione analoga a quella provata dal personaggio, che gli consenta di rappresentarla.
Lo scopo del grande regista fu quello di far diventare il personaggio una persona a tutti gli effetti. L’attore per rappresentare questa “immedesimazione” deve partire da se stesso, da tutte quelle sensazioni già immagazzinate, dalle quali deve attingere al momento di recitare. Questo processo è chiamato reviviscenza ed è un processo che non si esaurisce alla fine delle prove ma deve necessariamente essere riattivato ogni sera; la “ricerca” deve sempre ricominciare quasi daccapo e quindi, vista la complessità del processo, l’improvvisazione risulta inutile. Ed è per questi motivi che Stanislavskij lavorò sempre con i suoi attori “fedelissimi” in quanto il metodo era difficilmente trasmissibile ad altri attori.
C’è da aggiungere però che la maggior parte del lavoro compiuto in Russia a cavallo tra Ottocento e Novecento – in riferimento al Teatro d’Arte di Mosca - fu lasciato a metà nel momento in cui molti suoi protagonisti emigrarono in Occidente. Questo perché in Russia le cose andavano differentemente - il contesto era molto diverso e la mentalità anche - e in Occidente non ci si rese pienamente conto della portata del cambiamento nella preparazione degli attori. Si presero solo gli elementi più esoterici del lavoro di Stanislavskij e di Čechov, senza sperimentare, senza esplorare, senza vedere cosa poteva accadere nella pratica. Ciò che si fa oggi è essenzialmente un’estensione del lavoro di Stanislavskij e di Michail Čechov, quest’ultimo nipote di Anton e allievo del primo. Certi elementi c’erano già nel metodo originario, ma in Occidente molti elementi iniziali sono stati via via tagliati, rigettati, considerati inutili. Credo quindi che abbiamo perso qualcosa di tutto il processo. “Lo stesso Stanislavskij ha smesso di sperimentare e di esplorare una volta arrivato in quest’altra parte del mondo, ritengo quindi che molte delle questioni da lui sollevate – come da Anton Čechov – sul teatro e sull’attore ancora richiedano una risposta. Il metodo, il sistema di lavoro deve ancora essere perfezionato, deve ancora svilupparsi completamente”[6].
Al giorno d’oggi, con gli attuali tempi di produzione teatrale, l’attore non ha tempo per studiare a fondo il personaggio: c’è troppa pressione, troppa urgenza di emozioni forti, sparate, in condizioni impossibili. Tutto questo tende poi al peggioramento quando entrano in gioco i telefilm, le soap opera e cose simili.






[1] Il 14 aprile 2004 al Teatro Metastasio di Prato è andata in scena, in Prima nazionale, l'Antigone di Sofocle di Brecht diretta da Federico Tiezzi, storico regista dei "Magazzini Criminali".
[2] La dichiarazione è stata rilasciata da Giulio Scarpati in un’intervista, tenutasi in occasione della rappresentazione brugherese dello spettacolo “Una storia d’amore: Cechov e Cechova”.
[3] Michail Cechov (nipote di Anton), l’allievo più brillante del celebre Stanislavskji, scrisse il libro La tecnica dell’attore, in cui percorre e illustra il metodo del Maestro, le sue finalità artistiche e la definizione del gesto psicologico.

[4] La concezione di recitazione il regista russo può essere riassunta in una sua affermazione: “Il mio scopo non è insegnarvi a recitare. Il mio scopo è aiutarvi a creare un uomo vivo da voi stessi” (Konstantin S. Stanislavskij)

[5] “Nel metodo Stanislavskij, l’espressione è qualcosa che nasce, è agitata, è stimolata, è guidata dagli avvenimenti interni; l’attore deve saper dominare e sollecitare la propria natura nascosta per poter agire sull’esterno (sulla maschera) e manifestare la vita emotiva del personaggio. Non solo, ma il personaggio dev’essere dotato di una vita interiore ed esterna: sono i suoi pensieri nascosti che guidano le sue azioni. Creazione, per Stanislavskij, è sinonimo di procreazione” (Gerardo Guerrieri)

[6] Considerazione di Michel Margotta, prima studente del Pasadena Playhouse College of Theatre Arts, poi membro dell’Actor’s Studio di New York e di Los Angeles. A Roma ha fondato ed è direttore artistico dell’Actor’s Center.

22.2.07

Ermeneutica filosofica - Il mito / 1

di Marco Apolloni

Il mito – secondo la definizione dataci dall'Encyclopédie – è storia favolosa di dèi, semidèi ed eroi, ma è anche tutto ciò che è connesso con la religione e la simbologia pagana. Gli illuministi si avvicinavano al mito come dei filologi e si accontentavano di analizzarlo freddamente; diversamente i romantici assegnavano al mito una forte valenza esperienziale e si appagavano soltanto di viverlo – e di bere dalla sua fonte vitale (Kerényi). Secondo Kerényi la Venere del Botticelli è un esempio di epifania o esperienza del mito. Infatti secondo lui nel mito l'uomo subisce l'epifania dell'essere, ovvero l'esperienza di qualcosa che travalica ogni umana comprensione. Gli illuministi credevano, quindi, che conoscere i miti aiutasse e facilitasse la conversazione. Chiunque non avesse miti da raccontare era da considerarsi un parvenue privo del benché minimo esprit – che era appunto la componente più apprezzata nei salotti parigini. Conoscere i miti, inoltre, era ritenuto un requisito necessario per chiunque operasse in ambito estetico (poeti, scultori, pittori, musicisti). Infatti si credeva che la vasta materia mitologica stimolasse la fantasia estetica degli artisti. Dicesi: principio di riduzione allegorica – teorizzato da Evemero di Messene, discepolo platonico ed esponente della scuola cirenaica. Per gli illuministi, perciò, tutti i miti non erano altro che un tentativo di ricostruire l'origine dell'umanità. Essi erano semplicemente delle “escrescenze favoliste” riconducibili, però, ad una componente fattuale (quale ad esempio: la guerra di Troia...). Gli illuministi, inoltre, credevano che l'uomo avesse sempre amato arricchire con decorazioni rococò fatti altresì disadorni. Perciò i miti non erano altro che delle incrostazioni di accadimenti naturali (Strabone). Il termine “mito” – sempre per gli illuministi – è strettamente intrecciato con il termine “favola”. Non a caso le tre accezioni del termine fabula sono sempre state: la prima, mito; la seconda, apologo; la terza, finzione oppure intreccio. Il mito, in estrema sintesi, raccontava qualcosa che era al confine oppure sulla soglia della storia; solo che esso aggiungeva qualche elemento fantastico-favolistico alla storia stessa per abbellirla. A conti fatti per gli illuministi: il mito rappresentava il sonno della ragione, che verrà poi – per fortuna – risvegliata dalla filosofia. Essi erano pienamente convinti che i miti provenissero dall'oscuro Oriente – sede dello spirito originario – in contrapposizione al luminoso Occidente – sede, invece, dello spirito raziocinante. In definitiva credevano che il mito fosse un discorso allegorico e pertanto viziato dall'errore o dal fraintendimento. Già, perché allegoria, vuol dire: dire altro. Infine gli illuministi ritenevano necessario decifrare i miti, cioè spogliarli della loro veste erronea, affinché questi potessero istruire simbolicamente. Essi erano fedeli al motto voltairiano per cui: “La verità è una, la menzogna è molteplice”! In definitiva: se l'allegoria era la via privilegiata dagli illuministi per accedere al mito, diversamente per i romantici questa via d'accesso era costituita dal simbolo.
Bacone nella sua opera Della sapienza degli antichi afferma che il mito sia essenzialmente una produzione mitopoietica – cioè auto-producente dei linguaggi – dunque frutto dell'ingegno dei poeti. Lui ritiene, inoltre, che il mito sia propriamente nascondimento di una conoscenza misterica che deve essere tenuta segreta ai non-iniziati. Il segreto è il non-detto, ossia ciò che è assolutamente indicibile e l'etimologia stessa sta ad indicare ciò che è “separato”. Per Bacone tre sono le facoltà umane: la prima, la memoria connessa alla storia; la seconda, la fantasia connessa alla poesia; la terza, la ragione connessa alla filosofia. Naturalmente tutto sotto la supervisione della scienza: regina di tutte le materie. La scienza con Bacone fuoriesce dall'alambicco dell'alchimista e si fa pubblica, ossia gli esiti degli esperimenti vengono messi in piazza, così che anche l'uomo comune – o order man – potrà beneficiarne. In ultima analisi: per Bacone lo scienziato è il "negromante del sapere"; da qui deriva il celebre motto baconiano: “Sapere è potere”!
Dimentichiamo per vivere, perché altrimenti ricordare ci costerebbe troppo. Attraverso i ricordi proviamo nostalgia per l'impossibilità del nostro passato. Per questo la dimenticanza può essere vissuta come un'esperienza totalizzante e travalicante: esperienza dell'immemoriale o dell'abisso! Nella poesia hölderliniana Eleusi, che trae la sua ispirazione dai misteri eleusini – mangiare il pane e bere il vino –, ambientata sul lago di Bienne – dove Rousseau compone le sue fantasticherie – viene ripreso il topos notturno proprio dei romantici. Qui Hölderlin descrive un'unione trascendentale tra Cerere e Dioniso, che è anche immersione panica nel Tutto della Natura. L'ultima parola viene lasciata al silenzio, simboleggiante l'indicibile che viene racchiuso nella parola “mistero”. Questo è un esempio di poesia mitica poiché, come in ogni mito che si rispetti, anche qui vi è in ultima battuta qualcosa che sfugge a qualunque comprensione razionale, evapora come l'essenza stessa del mito. L'originario – cioè il mito – è assolutamente indicibile. Ciononostante la speranza di dire l'originario rimane ugualmente, parafrasando Eliot: “noi non fummo sconfitti perché continuammo a tentare”. Solo coltivando le parole abbiamo mantenuto viva la speranza di dire l'originario. I poeti sono coloro che osano più di tutti, tentando l'impossibile e mettendosi perciò sulle tracce dell'indicibile, che loro vogliono finalmente sconfiggere con la convinzione che: la vita avrà sempre una parola da opporre alla morte! In Eleusi il messaggio è chiaro: il mistero deve essere preservato. Il mistero qui ha lo scopo di custodire gelosamente il mito originario. Poco importa poi se: il mistero di tutti i misteri è che non c'è nessun mistero. In definitiva il mistero ha solo una funzione protettiva del mito. Per dirla tutta: il mistero è l'involucro esterno che ha lo scopo di proteggere il nucleo interno del mito originario. L'origine è di chi ha una meta...
La meta finale che si prefigge il mito è la liberazione dalle catene degli assolutismi, su tutti lo Stato. Vedi, per questo, lo studio Hegel segreto di Jacques D'Hondt e in particolare Il più antico programma sistematico dell'idealismo tedesco la cui paternità è stata attribuita ad Hegel. Qui le idee del giovane Hegel ci appaiono in netta controtendenza con il cliché che noi tutti abbiamo di lui: un filosofo restauratore al servizio dello Stato. Addirittura arriverà a dire che lo Stato dovrà estinguersi – sembra già delinearsi la “società perfetta” marxiana, che appunto esigeva come requisito indispensabile l'abolizione dello Stato. Hegel vede dunque nello Stato l'ostacolo che più intralcia l'avveramento dell'utopica pace democratica, preconizzata da Kant. Inoltre lui affronta la questione di fondare una “mitologia della ragione” o una “nuova mitologia”, il cui scopo precipuo è appunto quello di rendere il popolo più razionale e i filosofi più sensibili. Hegel affida ai poeti il compito più alto nel far sì che tutto ciò si avveri. Dunque i poeti sono i veri mediatori tra l'umano e il divino e, per giunta, mantengono viva la speranza dell'avvento di un nuovo Messia – dicesi messianismo hegeliano – , il quale redimerà l'umanità tutta instaurando così il Reich Gott o Regno di Dio. Nel frattempo Hegel si augura – in una lettera a Schelling – che “le nostre mani non rimangano oziose”. Questa salvezza verrà condotta sulle ali della bellezza – intesa come comprensione della totalità delle idee – poiché solo questa potrà salvare l'umanità! Secondo Lukàcs il giovane Hegel ci dà già un'anticipazione di profonda critica sociale e anti-borghese, poi radicalizzatisi ancor di più con Marx – almeno in questo, fedele discepolo hegeliano. A tal proposito, suonano inquietanti le affinità di questo Hegel con il Robespierre del famigerato grido a la mort a la mort con cui questi metteva a morte chi era meno virtuoso di lui. Infatti anche il “virtuoso” Robespierre – peraltro finito vittima della sua stessa eccedente virtù – non vedeva granché di buon occhio la macchina statale, che si serviva degli individui come degli ingranaggi. Questi, in sostanza, vedeva nello Stato una sorta di “cimitero” delle libertà individuali. In questa concezione dello Stato-macchina – sorta di Leviatano hobbesiano – Robespierre fu ispirato dal filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau. Robespierre, infatti, si sentì sempre un rousseauiano convinto!
Sulle sfortunate applicazioni storiche dei principi libertari ed egalitari di fratellanza universale, la Rivoluzione francese ne fu la più fulgida riprova. Come recitano le parole profetiche di Danton, salito anch'egli sul patibolo per volontà dell'ex-amico Robespierre: “La rivoluzione divora i suoi figli”! In poche parole essa fu la riprova di come fosse bello, a parole, pronunciarsi per una società più giusta; davanti alla prova dei fatti, però, qualcosa – chissà perché – ha sempre vacillato, venendo a mancare irrefutabilmente. Questo, la storia, ce lo ha puntualmente e ciclicamente insegnato – si pensi ancora alla rivoluzione bolscevica d'ottobre, degna erede di quella francese, e a tutti i vari tentativi falliti oppure zoppicanti di applicazione del socialismo reale in nome del motto giacobino “un altro mondo è possibile”. Le ingerenze dell'etica nella politica – nonostante le buone intenzioni di partenza – non hanno fatto altro che nuocere più di quanto abbiano giovato. Partire da tali assunti non vuol dire, però, negare l'intrinseca bontà e veridicità degli ideali professati dalla Rivoluzione del '89, semmai piuttosto intende diffidare dal ragionare eccessivamente per schemi astratti e di cominciare a poggiare la propria riflessione su una politica meno con gli occhi bendata e perciò più realista. Piuttosto dovremmo fare tesoro dell'insegnamento di un “imprescindibile” rivoluzionario argentino dello scorso secolo, che aveva meglio di tutti capito e centrato appieno il problema dicendo: “Siamo realisti, vogliamo l'impossibile”!
In definitiva, la ferrea volontà marxiana – secondo cui non bisognava accontentarsi di spiegare il mondo, ma cercare altresì di trasformalo – era già contenuta in nuce nella bildung, paideia o formazione originaria dei tre giovani tubinghesi, studiosi di teologia: Hegel, Hölderlin, Schelling. La “nuova mitologia”, fortemente voluta da questi tre, auspicava nientemeno che il ritorno al mito originario vero e proprio. Questa, perciò, rovesciava completamente la precedente concezione illuminista del mito inteso come “regresso”. D'altronde la parola stessa “rivoluzione” significa appunto revolvere e cioè ritornare indietro, ovvero alla dimensione originaria. Non a caso fino al giorno d'oggi si è tramandata, di generazione in generazione, la nuova concezione del mito operata dal Romanticismo: mito inteso come “ritorno all'origine”, all'Esperia – luogo della mitologia greca, dov'erano custodite le mele d'oro – e soprattutto all'originarietà del linguaggio, ovvero quel momento in cui il “vero” si manifesta e in cui gli dèi ci inviano i loro “segni” per intercessione dei poeti. Questi, infatti, più che parlarci sono parlati dalle Muse, divinità custodi della memoria. Non è un caso se un mitologo del pari di Otto e un filosofo del pari di Heidegger, al culmine della loro maturità intellettuale, abbiano intuito la stessa cosa, vale a dire: l'assoluta centralità del linguaggio come evento fondativo della verità. Per chiarire meglio tutto ciò, soffermiamoci un attimo su Rousseau...
Nella Lettera sugli spettacoli il ginevrino ci dà l'immagine di un popolo ritornato all'ingenuità primitiva, che danza felicemente – ed è dimentico di sé – attorno ad un totem, che niente è all'infuori di un simbolo – anche se taluni razionalisti-illuministi, molto grossolanamente, lo definirebbero un feticcio. Questa danza propiziatoria e festante attorno ad un simbolo totemico non è che il rito, il cui scopo è quello di preservare il mito. Per Rousseau, in particolare, l'importanza della “festa” nei popoli primitivi ricorda un po' i riti orgiastici dionisiaci così come ci vengono filtrati da Nietzsche. Anche qui vi è una folla festante, che compie un rito per rinverdire il mito originario. Dunque è a ciò che mirano quei momenti di “estasi collettiva”, quali le feste, che con il rito consolidano quel patrimonio più inestimabile per noi tutti: il mito dell'essere!
Il sacrificio rituale assurge alla stessa funzione del rito, cioè ri-fonda di continuo il mito originario mediante l'evento sacrificale. Ogni società è scaturita da una violenza primigenia, ovvero ciascuna società viene fondata con un sacrificio originario. Dicesi: violenza del fondamento. Dunque, volendo fare uno scioglilingua: la violenza del fondamento è il fondamento stesso della violenza! Si pensi all'indiano urone, ovvero il “selvaggio” per antonomasia, abitatore della landa selvaggia ora nota come Quèbec – ovvero la regione più estesa dell'attuale Canada di madrelingua francese. La mitologia degli uroni consisteva in un vero e proprio “bagno di sangue”, in cui venivano compiute efferatezze e nefandezze d'ogni sorta. Questa era molto emblematica per dipingere l'inaudita violenza del mito...
Il sacrificio di Socrate vibrò il colpo ferale al mito in Occidente. Lui viene sacrificato sull'altare delle idee per cui ha vissuto, perciò decide di non fuggire e di non sottrarsi così alla giustizia della sua città, che lui stesso ha contribuito a plasmare in veste di cittadino. Tale sacrificio è alla base della fondazione cruenta della filosofia occidentale, che ha poi ri-fondato l'intera nostra civiltà in chiave anti-sacrificale e anti-mitologica. Il Cristianesimo si è originato allo stesso modo della filosofia greca, cioè attraverso il sacrificio fondativo di Cristo, che ha posto fine all'eterna ripetizione del sacrificio rituale. Questi meccanismi di “capro espiatorio”, per dirlo utilizzando il lessico di René Girard, sono fondamentali per interrompere il “circolo vizioso” e spezzare così la catena rituale del sacrificio. In questo modo vengono interrotti i legami con il passato mitico ed essenzialmente violento. Del resto la storia del pensiero occidentale ha sancito il trionfo dei pensatori monisti o monoteisti – dell'unico principio, secondo cui “tutto è uno”, Galimberti lo ha definito il “monoteismo della ragione” – sui pensatori pluralisti o politeisti – dei più principi, secondo cui “tutto è molteplice”. Posto in altri termini: la teologia monista ha superato la mitologia pluralista. In ultima analisi, il mito è lo scatenamento delle potenze ctonie – o divinità femminili – della terra. Il “circolo ermeneutico” è quanto più si avvicina al cerchio formato dal mito. Esso potrebbe venire rappresentato dal Caradrio, animale mitico che divora tutto, ma che lo evacua simultaneamente. Il suo divorare è un evacuare – o meglio un trapassare continuo – simboleggiante un desiderio insaziabile di conoscenza. Diversamente dal Caradrio, l'ermeneuta ha il compito non di assimilare tutto – sinonimo questo d'ignoranza poiché la vera saggezza sta appunto nel saper discernere –, bensì di scovare le pepite d'oro – e con esse la versione autentica del mito – dalle acque torbide del fiume – inquinato dalle versioni inautentiche del mito stesso.

17.2.07

Filosofia Teoretica: Il fenomeno razziale e la disumanizzazione

di Silvia Del Beccaro













Le riflessioni di autori come Dal Lago, Bauman, Arendt e Foucault forniscono lo spunto per un approfondimento su tematiche comuni: il fenomeno razziale, la necessità di conoscere il passato, la disumanizzazione.

Esaminare il fenomeno razziale e comprenderlo non è certo un compito facile. Occorre innanzitutto capire il significato del termine razzismo per poi risalire alle sue origini e ripercorrerne la diffusione fino ai giorni nostri.
Gli autori Dal Lago, Bauman, Foucault e Arendt sono riusciti in questo intento, seppur ciascuno a modo proprio e con un proprio stile linguistico. Ma tutti e quattro, comunque, hanno utilizzato ragionamenti profondi ed accurati per esaminare quel complesso fenomeno che è il razzismo.

Alessandro Dal Lago, ad esempio, si è espresso nei seguenti termini. Egli è convinto che quello che noi chiamiamo razzismo, nelle sue forme vecchie e nuove, sia il prodotto di circostanze storico-economiche precise, che vanno ricostruite e conosciute.
In particolare, analizza il razzismo economico odierno, legato allo sfruttamento dell’immigrato e al mondo del lavoro in nero, sottopagato.
L’autore crede che la conoscenza di tali circostanze possa permettere di combattere o di ostacolare quello che noi chiamiamo razzismo. A detta di Dal Lago, infatti, “conoscenza” e “responsabilità” servono se si vuole comprendere come la comparsa di stranieri in cerca di lavoro o di opportunità sociali abbia fatto sparire d’incanto diversi luoghi comuni sull’umanità, tolleranza e razionalità propri della nostra cultura.
In che modo, dunque, oggi è possibile combattere il razzismo?
«Riconoscendo i diritti dei lavoratori emigranti, combattendo l'idea che questi siano necessariamente delinquenti, criticando la stampa o gli intellettuali che prendono per vere queste leggende».

Le affermazioni sopra citate trovano conferma nel testo “Non-Persone. L’esclusione dei migranti in una società globale ”, scritto dallo stesso Alessandro Dal Lago.
Ripercorrendo alcuni fatti di cronaca realmente accaduti, l’autore pone in evidenza l’atteggiamento di ostilità e superiorità degli italiani nei confronti degli stranieri che sono scappati dal loro Paese, per trovare in Italia un po’ di fortuna ma soprattutto un po’ di lavoro.
La sua non è una semplice ricostruzione dei fatti, bensì la descrizione di un complessivo atteggiamento di chiusura della società italiana verso gli stranieri, trasformati in nemici sociali attraverso la doppia spirale di panico ed esclusione. Dal Lago utilizza termini come inferiorizzazione e valorizzazione negativa, per spiegare l’atteggiamento timoroso degli italiani nei confronti degli stranieri. E la paura che essi provano, al contrario di quanto si possa pensare, non “paralizza” gli italiani, piuttosto li spinge a reagire sfruttandoli, comandandoli, dominandoli, facendoli lavorare in condizioni di pericolo e in nero.
Questa strategia di controllo impone, allo stesso tempo, una lagerizzazione degli stranieri immigrati; il controllo sul diverso da sé, infatti, diventa una condizione eccellente per rafforzare l'idea di sé, per produrre consenso, per incanalare malcontento, per rassicurare i cittadini di diritto di uno stato nazionale in un orizzonte apparentemente globale e transnazionale. Ma mentre i cittadini del Paese ospitante rafforzano l’idea di sé, gli stranieri immigrati vedono negarsi, davanti ai loro occhi, i propri diritti. Quasi sempre essi giungono nel nostro Paese senza documenti e, a detta di Dal Lago, «chi non ha un documento di identità che lo rende pezzo di una compagine nazionale, chi non è dunque un cittadino, non gode di diritti sociali e, di conseguenza, non ha diritti umani». Persone che non hanno la cittadinanza e quindi possono essere espulse in qualunque momento, evidentemente non possono far valere i propri diritti. Ecco dunque che, a partire da un atteggiamento di ostilità e di paura, si giunge ad un atteggiamento di disumanizzazione del diverso, che si trova privato di ogni diritto.

Ma il concetto di disumanizzazione, qui utilizzato da Dal Lago, in realtà ha origini ben lontane. Addirittura si può ricollegare all’epoca dell’Olocausto. Esso infatti viene ripreso anche da Zygmunt Bauman, nel testo “Modernità e Olocausto”.
In esso l’autore dichiara che la disumanizzazione ha avuto inizio nel momento in cui gli ebrei catturati (i nemici) sono diventati “oggetti” dell’attività burocratica nazista e sono stati ridotti ad una serie di misurazioni quantitative.
Secondo Bauman, i burocrati non hanno avuto a che fare con degli esseri umani, bensì con un carico, ovvero con un’entità costituita esclusivamente da quantità misurabili e priva di qualità. Per la maggior parte dei burocrati, infatti, ciò che contava davvero erano solo gli effetti finanziari delle proprie azioni; il loro fine, infatti, era solamente il denaro.
Ridotti, come tutti gli altri “oggetti” della gestione burocratica, a semplici quantità misurabili, gli esseri umani hanno perso allora la propria specificità. A questo punto essi sono stati disumanizzati.
E se, riferendoci alle stragi dell’Olocausto, a noi oggi sembra più corretto parlare di genocidio (pensando alle migliaia di persone uccise da nazisti), alcuni preferiscono parlare di disumanizzazione, trattandosi di oggetti (della burocrazia). Ciò viene confermato dal linguaggio utilizzato all’epoca delle stragi. Ai soldati, ad esempio, veniva ordinato di sparare a dei “bersagli”, i quali cadevano quando venivano colpiti.

Agli occhi dei criminali, quelle stragi brutali sembravano normali. Essi obbedivano solamente agli ordini dei loro comandanti, niente di più. La loro coscienza non si sconvolgeva, tutt’altro. Loro eseguivano solamente un ordine. Che si trattasse di uccidere un uomo, piuttosto che trasportare centinaia di deportati non aveva importanza. Si trattava sempre e comunque di un ordine.
Questo atteggiamento di banalizzazione del male ha scioccato Hannah Arendt, la quale seguì (nel 1961) le 120 sedute del processo ad Eichmann come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme.

(ndr. Otto Adolf Eichmann aveva coordinato l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio).

Contrariamente alle aspettative, la Arendt sostenne che «le azioni naziste risalenti all’epoca dell’Olocausto furono mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso».
La Arendt esprime così la sua opinione nel testo “Origini del totalitarismo”. Il male non è più qualcosa di eccezionale, ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Eichmann ne è un esempio. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, infatti, egli sostenne sempre che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini.
Secondo Hannah Arendt, la banalizzazione del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali. Ed è proprio questo che mancò ad Eichmann: quello che lei chiama “lo spazio pubblico”, cioè lo spazio per giudicare quello che avviene.

Di normalità parla anche Alessandro Dal Lago, il quale studia la ragione (lo straniero lavoratore, i diritti di cittadinanza) attraverso la follia (noi e le nostre fobie).
Egli vuole far emergere il paradosso costitutivo della nostra esistenza quotidiana, per cui sembra di vivere in un mondo rovesciato, dove il buon senso non ha cittadinanza e la follia si manifesta nella “normalità” del senso comune: «un’impressionante coro di luoghi comuni, di dati orecchiati se non inventati, di banalità spacciate per realismo, di pregiudizi da trivio».

Come combattere allora questo senso comune, questi luoghi comuni? Dal Lago chiede di ritrovare oggettività nei resoconti della realtà, che talvolta viene occultata o modificata attraverso i media e le parole di opinion leader quali magistrati, avvocati, poliziotti, giornalisti ed operatori sociali.

La stessa necessità di far emergere la verità è chiamata in causa anche dal francese Michel Foucault, il quale si interroga sull’esistenza di un problema storico di fondo, che consiste nel sapere perché l’Occidente non ha voluto vedere, così a lungo, il potere che esercitava se non in un modo giuridico-negativo, invece che vederlo in un modo tecnico-positivo.
Michel Foucault è stato autore di opere fondamentali che hanno contribuito a mettere in luce aspetti poco studiati dal pensiero politico, in particolare i cambiamenti avvenuti nel modo in cui il potere viene esercitato. Lo studio del potere non dovrebbe passare tanto attraverso il concetto di sovranità e contratto sociale, a detta di Foucault, quanto piuttosto analizzare “le relazioni di assoggettamento”.
L’analisi del filosofo francese parte dalla constatazione del cambiamento che si è verificato nell’esercizio del potere; il diritto di morte è stato infatti sostituito dal potere sulla vita.Il sovrano disponeva del diritto di vita e di morte sui suoi sudditi. Questo potere però, con il passare del tempo, si è modificato: il diritto di morte, infatti, è stato sostituito con un potere che si dava come priorità la gestione stessa della vita, con precisi controlli e regolazioni d’insieme. Questo potere sulla vita, che si sintetizza bene nel termine bio-politica, a partire dal XVII secolo si è polarizzato attorno a due nuclei principali: il primo considera il corpo una macchina da disciplinare con delle tecniche opportune e precise, il secondo polo è centrato sul corpo-specie e su tutta una politica della popolazione.
Il primo meccanismo, quello della disciplina, è stato realizzato con la sorveglianza e l’addestramento, che si sono sviluppate tra il XVII e XVIII secolo attraverso istituzioni come la scuola, l’ospedale, la caserma e la fabbrica.
Alla fine del XVIII secolo si è poi verificato il secondo adattamento, quello che ha coinvolto i fenomeni globali di popolazione, con una bio-regolazione a livello statale, per quanto riguarda ad esempio le nascite e la longevità.
Il bio-potere è stato anche un elemento importante per lo sviluppo del capitalismo, che è riuscito ad affermarsi grazie all’inserimento dei corpi negli apparati produttivi, funzionali ai processi economici. Le istituzioni dello Stato hanno assicurato il mantenimento dei rapporti di produzione e hanno agito favorendo l’instaurarsi di una certa gerarchia sociale, che garantiva rapporti di dominazione e di egemonia. Così, gli esseri umani si sono dovuti adeguare all’accumulazione del capitale e alla ripartizione del profitto.
I problemi legati alla società industriale, come gli infortuni, e l’impossibilità di lavorare oltre una certa età, hanno fatto sì che la bio-politica producesse tutta una serie di istituzioni di assistenza, che esistevano già in quanto legati alla chiesa ma che sono stati resi più sottili e razionali con le assicurazioni e le varie forme di risparmio e sicurezza sociale. Nel XVIII secolo si ha avuto quindi l’ingresso della vita nella storia, cioè l’ingresso dei fenomeni propri della vita della specie umana nell’ordine del sapere e del potere, nel campo delle tecniche politiche.

Per concludere, infine, mi ricollego alla Arendt, la quale, come Dal Lago e Foucault, insiste sull’importanza del sapere, anche se l’autrice si concentra più sulla necessità di conoscere il passato, perché, a detta sua, ogni problema attuale è espressione di un altro problema passato o di un insieme di problemi.
Dietro agli elementi che stanno alla base del totalitarismo (antisemitismo, razzismo, imperialismo), si nasconde un problema irreale e irrisolto: dietro l'antisemitismo, la questione ebraica; dietro il decadimento dello Stato nazionale, il problema irrisolto di una nuova organizzazione dei popoli; dietro il razzismo, il problema irrisolto di una nuova concezione del genere umano; dietro l'espansionismo fine a se stesso, il problema irrisolto di riorganizzare un mondo che diventa sempre più piccolo e che siamo costretti a dividere con popoli la cui storia e le cui tradizioni sono estranee al mondo occidentale.

11.2.07

"Non bussare alla mia porta"

di Paolo Musano

Innanzitto due parole sul regista, Wim Wenders. È il mio preferito. Come sempre succede, l’ho scoperto per caso qualche anno fa, passando su Rete4 in seconda serata: mi ritrovai a guardare “Al di là delle nuvole”, un omaggio a Michelangelo Antonioni che dirige assieme a lui, con sguardo visionario, un cast prestigioso attraverso quattro storie parallele che si incontrano alla fine del film proprio nella figura di un regista, interpretato da John Malcovich. Da allora, comunque, il mio rapporto con il regista tedesco si è decisamente consolidato.
Qualche nota biografica: ha studiato arte ed è anche fotografo. Nei suoi film, quindi, è molto importante la fotografia; si può dire che sono le immagini che cominciano a raccontarci una storia. Anche la colonna sonora è fondamentale (c’è solo un altro grande regista, americano, che dedica altrettanta cura alle musiche: Cameron Crowe). È un amante del rock. Non sono casuali le collaborazioni con gli U2 (Bono ha scritto per lui anche “Million Dollar Hotel”).
Per quanto riguarda l’aspetto creativo, preferisce avere un autore o uno sceneggiatore, perché, altrimenti, scrivendo da solo, non riesce a distaccarsi dalla materia del soggetto (in “Faraway so close” è successo questo).


Ma ora veniamo a noi. Un famoso attore di western, girando un film, si accorge che si sta autodistruggendo. Vizioso, egoista e dedito agli eccessi, capisce di essersi perso, di non sapere chi è, di aver sacrificato qualcosa. Così lascia il set, facendo perdere le tracce. Dopo trent’anni ritorna nella sua città natale, Butte, va a trovare la madre che a stento lo riconosce e scopre di avere due figli. Attraverso di loro ritroverà le radici e rimetterà insieme la sua vita andata in pezzi.

La fotografia, come in quasi tutti i film di Wim Wenders, è spettacolare. I paesaggi del West si trasformano nella desolazione malinconica di Butte. Questo mutamento degli elementi è già una chiave per capire quello che sta succendendo nell’anima tormentata del protagonista, Howard Spense.

Howard Spense è interpretato magnificamente da Sam Shepard, che non solo è un bravissimo attore, ma è anche uno scrittore, probabilmente uno dei più grandi scrittori di teatro contemporanei. Il suo personaggio ci mostra subito le sue debolezze, per questo suscita nello spettatore prima simpatia, poi compassione. Quando si rende conto che è diventato la caricatura di se stesso, allora si può dire che, togliendosi la maschera che credeva incollata alla sua faccia, comincia a vivere davvero. La sua parabola della star in declino dovrebbe essere presa molto sul serio da tutta quella schiera di vip che si lascia prendere nella morsa dell’avidità e dell’egoismo.
Quello di Tim Roth è il personaggio più interessante. L’uomo in nero, freddo e serio, incaricato di stanare e riportare al set il confuso e capriccioso Haward Spense, rivela un umorismo involontario che non può non far breccia nello spettatore. Alla fine anche lui depone la sua maschera, dimostrando di non essere un superficiale. Anzi diventa un filosofo quando, durante il viaggio di ritorno in macchina, espone ad Howard la sua personale teoria sul mondo: il mondo è davvero un brutto posto. Dalla notte dei tempi, non è cambiato niente, perciò è necessario tagliare il più possibile le influenze esterne (si sospetta, però, che dopo aver osservato l’addio [che è più un arrivederci] struggente di Haward ai suoi due figli, anche dentro di lui sia cambiato qualcosa).

Da ogni grande film cerco di imparare qualcosa, di trarre una lezione. In questo, come in tutte le storie “di formazione”, ci vedo la rappresentazione di un cammino spirituale. Un uomo che crede di avere tutto (o peggio, di poter avere tutto), si ritrova con un pugno di mosche: quanto spesso succede? E perché si arriva a quel punto? Non è per niente facile trovare il bandolo della matassa, ma bisogna accettare il fatto che, a volte, perdersi è l’unico modo per ritrovarsi.

10.2.07

L'uomo dei Sogni

di Silvia Del Beccaro

Che frastuono. Da dove proviene questo sibilo? I freni di un treno stridono contro le rotaie. È sicuramente un treno in arrivo. Chissà da dove proviene e dove si dirigerà. Ho sempre amato questo andirivieni: ogni convoglio implica una meta, un sogno, un desiderio differente. Oggi posso trasformarmi in un regista e viaggiare verso la patria del cinema, Roma. Domani sarò un innamorato e partirò per Venezia, la città degli amanti per antonomasia. Chissà...
Quant’è bello sognare. Fino a qualche minuto fa anche io ero immerso nelle mie fantasie. D’altronde fuori è ancora notte.
L’orologio segna appena le 6. Ma chi sono tutte queste persone che passeggiano velocemente di fronte a me? Che chiasso. Non vedete che sono ancora nelle braccia di Morfeo? Questi pendolari… Ogni giorno la stessa identica storia. Come sorgono le prime luci, ecco che frenetici accorrono in centinaia per prendere il loro treno giornaliero. Che facce scure. Sembrano tutti tristi. Colpa della routine: sopprime gli entusiasmi.
Però cos’hanno da guardare? Mi scrutano, mi evitano, mi temono. Vesto di cenci e brandelli d’abito, lo so, ma mi sento un Re. Sono coperto da fogli di giornale ingialliti, ma sento che questa è casa mia. Mi appisolo sopra un blocco di marmo freddo, che è certo più comodo del letto d’aghi dei fachiri. Ho il volto scuro, sì, ma per la polvere.
Invece voi pendolari, piuttosto… Ditemi perché la tristezza segna le vostre espressioni, così plumbee e ferrigne? Per quale motivo vestite abiti da cerimonia che imprigionano il vostro spirito libero? Ma guardatevi. Sembrate far parte di un unico mondo oscuro, dispensato dalla vivacità della vita. Pensate di essere più liberi di me ma, badate bene, siete voi quelli ancorati alla vita abitudinaria. Ebbene sì, signori: tra di noi quello veramente libero sono io!
Vivo in questa stazione, la Centrale, da parecchi anni. Ci approdai per puro caso e da allora non me ne sono più staccato. Il soffiare del vento è la mia buonanotte e il tubare dei piccioni musica lo scorrere del tempo. Non ho alcun vincolo se non con me stesso. Questa è la mia casa. Conosco tutti e tutti mi riconoscono.
Sono l’uomo dei sogni, io. Alcuni compagni-di-sventura mi affibbiarono questo soprannome il giorno del mio arrivo, per la mia abilità nell’esporre storie incredibili. Diciamo che possiedo un dono particolare: ho la capacità di rendere verosimile, solamente attraverso le parole, quel desiderio profondo che cova silenzioso in fondo al cuore.
Volete conoscere il mio, di sogno? Ricordare la ragione che mi ha condotto fino a qui. Sono pienamente cosciente della mia attuale libertà, ma non ricordo il mio passato. Ma guardandovi, oggi, qualcosa mi riaffiora alla mente.
Una volta ero come voi. Io ero un avvocato: ora capisco la mia abilità nel parlare. E ricordo che è stata una donna a cambiare la mia esistenza. La routine! Mi ha devastato l’animo facendomi credere che la salvezza consistesse nella pazzia. E così eccomi, folle come volle lei. Ho creduto di trovare la liberazione raccogliendo brandelli di giornali e scolando bottiglie di vetro. Solo ora, ripercorrendo l’excursus degli anni, trascorsi in solitudine, concepisco i miei sbagli e comprendo che la vera salvezza non consiste nella follia bensì nell’estro, nella creatività, che permette di re-inventare se stessi giorno dopo giorno. Grazie pendolari miei: per avermi fatto capire quanto sia fondamentale la fantasia.
Ma che succede? Il capo-stazione annuncia un treno in partenza. Sono le 7. I miei occhi hanno ancora bisogno di riposo. Penso che mi accascerò ancora un po’…
NON SI SVEGLIÒ PIÚ.

9.2.07

Civiltà greco-latina: Premessa storico-sociale / 1

(corso tenuto dal professor Giuseppe Girgenti)
Appunti, considerazioni, riflessioni

di Marco Apolloni
Solitamente si fa cominciare la storia antica con la storia greca e più precisamente con la nascita delle poleis, avvenuta attorno al IX secolo a.c.
La civiltà greca fu caratterizzata, sostanzialmente, da tre fasi:
- ellenizzazione: periodo in cui il mondo ellenico si espande a macchia d'olio grazie alle conquiste di Alessandro Magno;
- romanizzazione: sincretismo tra civiltà greca e latina – non a caso la lingua colta a Roma diviene il greco;
- cristianizzazione: la religione cristiana ingloba entrambe le civiltà.
I primi storici greci furono Erodoto e Tucidide, che vissero e raccontarono la storia in presa diretta; per questo all'epoca non fu possibile distinguere la storia dalla cronaca – distinzione questa che avverrà in seguito. Il primo, Erodoto, raccontava la guerra contro i persiani, mentre il secondo, Tucidide, narrava la famosa guerra del Peloponneso tra ateniesi e spartani. Entrambi furono per la storia quello che Platone e Aristotele furono per la filosofia.
La storia, va precisato, non è una scienza esatta e non ha alcun interesse a diventarlo. Essa ha a che fare con fatti contingenti ma non necessari; può essere ideologica, intesa come fattore che cerca di giustificare o spiegare un determinato accadimento storico (vedi l'esauriente spiegazione data da Marx ne L'ideologia tedesca).
Le civiltà minoica e micenea furono le progenitrici dirette di quella greca. A proposito di queste due civiltà si hanno solo fonti mitologiche e perlopiù indirette. Si sa che la civiltà minoica confluì poi in quella micenea. Non è un caso dunque che si faccia cominciare la storia greca attorno al 1200 a.c., cioè quando la civiltà micenea venne conquistata da un popolo nordico (di area germanica), gli achei – coi quali si mescolò. Altre popolazioni colonizzatrici furono i dori, ovvero gli spartani – i quali si consideravano discendenti di Eracle o Ercole e per questo si facevano chiamare anche eracli; gli ioni, nell'Attica e nelle Cicladi; gli eoli, in Tessaglia. A poco a poco queste tribù divennero stanziali, pur rimanendo gruppi senza un'unità politica vera e propria. Tuttavia si conservò pressoché intatto l'ideale panellenico, che pretendeva l'unificazione degli eterogenei popoli greci, ma pur sempre provenienti dallo stesso ceppo e professanti la medesima religione olimpica.
La città di Sparta era la più antica delle poleis greche e venne costituita dai dori, popolazione indoeuropea. Sparta era strutturata in tre classi sociali:
- gli spartiati, appartenenti al ceto dominante;
- i perieci (letteralmente “quelli che abitavano intorno”), ovvero commercianti e artigiani;
- gli iloti, i cosiddetti “servi della gleba”.
I giovani spartani venivano formati in un'educazione fortemente militarizzata. Nello specifico essi venivano riuniti in speciali confraternite, dov'erano addestrati sia in esercizi ginnici ma anche poetici. L'istituzione del matrimonio godeva di scarso credito presso gli spartani. Emblematico fu il fatto che tre fratelli potevano, addirittura, spartirsi una moglie. Contro simili costumi si scagliò la potente invettiva dell'ateniese Pericle, che non tollerava il sacrificio del singolo individuo sull'altare della collettività. Pericle fu altresì persuaso che l'interesse della polis coincidesse con la somma degli interessi privati, cioè era convinto che più si fosse lasciato campo d'azione al singolo e maggiore sarebbe stato l'apporto che questi avrebbe dato all'intera collettività! Memorabile fu un suo discorso riportato da Tucidide, in cui il grande uomo politico ateniese sintetizzava efficacemente la filosofia della sua polis: “Siamo attratti dal bello ma con misura. Amiamo la sapienza ma non con mollezza. Noi siamo la scuola dell'Ellade”. In una diversa prospettiva si pose Platone, invece, il quale fu uno dei più grandi estimatori del forte modello di governo spartano, presieduto da un'irreprensibile aristocrazia militare; a differenza del debole modello ateniese, presieduto altresì da una corrotta plutocrazia commerciale. Egli considerava: governo dei migliori, il primo, e, governo dei più ricchi, il secondo. Del resto non poteva essere diversamente per l'acclamato autore de La repubblica – opera questa che più di ogni altra risulta il suo testamento filosofico vero e proprio, scritta peraltro nel periodo in cui Atene uscì sconfitta dalla guerra contro Sparta e dove, appunto, al governo vi era una tirannide d'ispirazione spartana. Non a caso queste due diverse concezioni, una spartana e l'altra ateniese, sarebbero proprio all'origine delle moderne divisioni e incomprensioni tra socialisti e liberisti.
Nel libro II delle Storie, Erodoto si soffermò sulla religione greca. Omero ed Esiodo invece furono quelli che cominciarono a fissare la religione olimpica, dando così un preciso ordine al pantheon delle divinità: il loro numero fu fissato a dodici ed esse procedettero a coppie, a partire dalla prima coppia formata da Zeus/Era. Sant'Agostino, riguardo agli dèi pagani, formulò alcune ipotesi tra cui: o non esistono e sono solo invenzioni dei poeti; oppure esistono ma sono nientemeno che demoni, vie di mezzo cioè tra il divino e l'umano i quali si prendono gioco dei poveri e sciocchi umani (questa, tra l'altro, era la convinzione dello stesso Agostino). Questa concezione agostiniana sui demoni verrà poi ripresa dal Cristianesimo medievale, ossessionato dalla presenza incessante di queste divinità maligne, in contrapposizione con il Dio buono.
La religiosità greca è di natura mitica, a differenza di quella romana, che è di natura politica. Oltre ad essere una teologia mitica è anche fisica, ossia gli dèi vengono fatti coincidere con gli elementi naturali – credenza questa diffusa dagli stoici. La teologia mitica non è propriamente la migliore, poiché assegna delle passioni fin troppo umane, spesso anche negative, alle divinità. Come afferma Platone ne La repubblica, onde evitare spiacevoli equivoci occorre dunque sorvolare sulle passioni negative delle divinità per non pregiudicare l'ordine naturale all'interno della polis. Infatti egli sostiene che sia meglio bandire quei poeti che inculcano strane credenze sulle divinità e nel sostenere ciò pensa, soprattutto, alle figure di Omero e di Esiodo. La teologia fisica, invece, nella misura in cui demitologizza, porta dritta all'ateismo e al peggior nemico di qualsivoglia religione: il materialismo, ovvero quella credenza secondo cui la materia non è che la risultante di un aggregato di atomi. Materialismo che verrà poi ripreso dalla setta degli epicureisti. Quella epicurea fu una morale privata che si pose in alternativa alla morale pubblica platonica-aristotelica.
Oltre al materialismo vi fu però anche un'altra corrente che fa capo al sofista Protagora: l'agnosticismo. Agnostico era colui che dice – come Protagora – né di credere né di non credere, principalmente per due ragioni: l'oscurità e la brevità della vita umana. Infine c'era chi, come Poseidonio, credeva in un'unica Sapienza, capace di accomunare tutte le dottrine e tutti i popoli – la filosofia perciò può venire intesa come ricerca di questa antichissima Sapienza sepolta. Tanto più un testo era antico, tanto più questo si approssimava al divino! In sostanza, secondo Poseidonio, gli antichi erano fra tutti quelli più vicini al divino.
Il platonismo venne pian piano conglomerato nel cristianesimo. Filone di Alessandria credeva, addirittura, che il Timeo platonico non fosse nient'altro che una rielaborazione della Genesi. Clemente Alessandrino credeva, invece, che il platonismo fosse stato una fase preparatoria del cristianesimo. Questi affermava, inoltre, che il figlio di Dio fosse scaturito dal Logos – o Logica – del Padre, oltre ad essere il medium che ha fatto da tramite per la creazione del mondo. Il Logos con Clemente, quindi, assunse i connotati di un disegno razionale, riconducibile al “mondo delle idee” platonico. Ogni uomo, in quanto essere razionale, poteva connaturare qualche frammento o “scintilla” divina – per usare un'espressione tanto cara alla “gnosi” –, che gli permetteva di giungere alla Verità. Clemente sottolineò, infine, che l'aspetto della ratio divina fosse derivato dagli ebrei (con Mosè e gli altri profeti) e dai greci (con Platone e gli altri filosofi). Dunque secondo quest'ottica, Cristo divenne il mediatore tra due civiltà: ebraica ed ellenica. In definitiva, il Cristianesimo fondeva mirabilmente due esperimenti ad esso precedenti quali: la tradizione profetica ebraica e la filosofia greca.
A Babilonia si fece discendere l'origine della filosofia a Zoroastro, vivente all'epoca di Ciro il Grande. Dallo zoroastrismo, poi, si originò la filosofia greca. Queste influenze dello zoroastrismo furono particolarmente evidenti nel pitagorismo. Non è da escludere che Pitagora, vivendo a Samo – isola vicina all'Anatolia, dunque aperta alle influenze persiane – e viaggiando molto, si fosse potuto trovare a stretto contatto con lo zoroastrismo, rimanendone a sua volta direttamente influenzato.
Riassumiamo ora le tappe principali della storia greca:
Il periodo compreso tra il 1200 e l'800 a.c. rimase piuttosto oscuro, non a caso diversi storici furono concordi nel definirlo – data la sua pressoché totale oscurità – “Medio Evo ellenico”, l'unico evento degno di nota fu la guerra di Troia e la successiva produzione, nonché diffusione, dei miti omerici.
Nel 776 a. c. si svolse, ad Olimpia , la prima Olimpiade, il cui obiettivo fu quello di veicolare l'ideale panellenico mediante i Giochi e l'agonismo. Qui infatti confluirono membri di tutte le tribù greche.
Dal VII al IV secolo a. c. si ebbe l'apogeo della civiltà greca. Quest'epoca costituì il “faro” del periodo classico e vide la fioritura di tutte le fondamentali discipline. La regina incontrastata di questo periodo fu la filosofia, grazie a Platone e ad Aristotele. Inoltre, sempre prodotto di questo periodo, fu il cosmopolitismo diffusosi con l'avvento al potere del carismatico e leggendario Alessandro Magno.
L'impero costruito da Alessandro, subito dopo la sua morte, si sgretolò e si frazionò in più dinastie, tra cui quella dei tolomei che stabilì la propria sede ad Alessandria – luogo in cui venne conservata un'imponente biblioteca. Qui appunto si spostò il baricentro culturale della civiltà greca.
Nel 146 a.c. Roma conquistò la Grecia. Il rapporto tra la civiltà greca e quella romana non fu mai lineare. A differenza dei greci, i romani non schiavizzarono mai i popoli sottomessi e lo stesso fecero coi greci. I romani, infatti, si appropriarono degli aspetti migliori della civiltà greca. Si pensi alla religione romana, ricalcata sullo stesso modello di quella greca. Esse si differenziavano soltanto per i nomi delle singole divinità, mentre il loro ruolo rimase pressoché invariato. In definitiva, con il sopraggiungere dell'Impero romano, vi fu un ritorno al cosmopolitismo di Alessandro e dalla polis si passò definitivamente alla cosmopolis...

8.2.07

Introduzione alla Geopolitica

di Marco Apolloni

La geopolitica spesso è stata tacciata di essere una pseudo-scienza, ma in realtà essa tenta soltanto di spiegare i fenomeni sociali con la potente lente d'ingrandimento della geografia; per far sì che abbia una maggiore valenza bisogna affiancarle la teoria delle relazioni internazionali, che appunto interpreta le relazioni che intercorrono tra gli stati, gli imperi e i cittadini. La geopolitica mono-causale, che spiega tutto in funzione di una sola causa – quale la geografia appunto – è destinata però a venire continuamente smentita da una realtà ben più complessa di quanto s'immagini. Dunque occorre distinguere una geopolitica in senso stretto, fin troppo legata ad un determinismo di tipo geografico, da una geopolitica in senso lato, che altresì cerca di combinare una serie di cause disparate per ottenere così una teoria più completa.
Nel corso delle sue Lezioni di Glasgow, un pensatore del calibro di Adam Smith avanzò l'ipotesi che la prosperità e la libertà dell'Inghilterra fossero in gran parte dovute alla sua connaturata natura geografica d'isola separata dal continente europeo. Fu appunto la sicurezza dei suoi confini via mare a far sì che l'Inghilterra divenisse la potenza mondiale egemone. Dopodiché Madison, influente uomo politico federalista americano, riprese l'ipotesi di Smith estendendola però al suo paese, gli Stati Uniti, i quali essendo separati dal continente euro-asiatico da due barriere naturali quali i due Oceani, il Pacifico e l'Atlantico, potenzialmente avevano tutte le possibilità e le condizioni auspicabili per poter affermare la loro libertà interna. Da ciò ne conseguì il seguente assunto teorico: la libertà di uno stato è inversamente proporzionale alla minaccia dei suoi confini! Madison, il quale era solito firmare i suoi articoli con lo pseudonimo di Publius – dietro a cui si celavano anche Hamilton e Jay – era coautore – insieme agli altri due summenzionati – della rivista The federalist in cui veniva auspicata la creazione di una nazione federalista, che avrebbe scongiurato la creazione di più nazioni separate all'interno del territorio americano. Queste ultime avrebbero reso l'America un campo di battaglia, così come lo era stata l'Europa sin dalla sua fondazione – martoriata da conflitti plurisecolari fra le varie potenze europee, in perenne lotta per la supremazia.
Il capolavoro di Tucidide, La guerra del Peloponneso, indagò un nesso particolarmente caro alla geopolitica, ovvero l'opposizione terra-mare sussistente appunto tra una potenza di terra, Sparta, e una potenza di mare, Atene. In ambito geopolitico, oltre ad esistere un'opposizione terra-mare, ve ne sono pure altre due: una, tra popoli nomadi e sedentari; l'altra, tra città e campagna. Nel primo caso, i nomadi nel corso della loro storia percorsero sconfinati spazi, facendo terra bruciata dovunque si fermavano a fare razzie. Essi stavano fermi in un territorio finché non si fossero stancati oppure non avessero consumato tutte le risorse ivi presenti. Dopodiché ripartivano a caccia di nuove conquiste e di nuovi territori. Mentre i sedentari per tutto il corso della loro storia potevano venire razziati e torturati e assassinati dai nomadi, pur tuttavia nessuno riuscì mai a smuoverli dai loro appezzamenti di terra. I governi cambiavano, i conquistatori si succedevano, ma bastava gettare uno sguardo ai campi coltivati per vedere come questi venivano incessantemente – e in ogni epoca – tenuti con la stessa amorevole cura dai contadini. Nel secondo caso, relativo all'opposizione tra città e campagna, due diverse visioni dello spazio – quali quelle di un abitante della città e quelle di un abitante della campagna – provocavano e provocano tuttora delle conseguenti e altrettanto diverse visioni del mondo. La storia ci ha insegnato, fin dai suoi albori, l'importanza rivestita dal Palazzo per il mantenimento e il consolidamento del Potere centrale. Era qui, infatti, che tutte le ricchezze si accentravano. Questa ricchezza delle città era però parassitaria, poiché non si faceva scrupoli a sfruttare fino all'ultima goccia l'immane riserva costituita dalle campagne. A cavallo del Mille, poi, con l'affermarsi dei poteri comunali si realizzò definitivamente la supremazia delle città a scapito delle campagne. Nella Firenze medicea tutta la ricchezza delle campagne veniva organizzata nei mercati. La stessa Atene del IV-V secolo a.c. arrivò al suo notevole grado di sviluppo come potenza, grazie al potere esercitato mediante il commercio. Tale aspetto ne conferma tutt'oggi la sua incredibile modernità! Prima dell'avvento al potere dei comuni, per uno stato o impero era di vitale importanza avere il maggior numero possibile di territori da sfruttare. Mentre con le rivoluzioni comunali ciascun territorio divenne fiore all'occhiello per il singolo comune, che ne poteva tranquillamente godere i frutti! Rimase esclusa da queste rivoluzioni comunali l'Italia meridionale, a differenza dell'Italia centro-settentrionale interamente scossa da questo fenomeno irrefrenabile, insieme al resto del Nord-Europa.
Ne L'introduzione alla geopolitica lo studioso francese Philippe Moreau Defarges cerca di dare un'esauriente spiegazione della geopolitica in senso stretto, cioè tenendo conto principalmente dell'indiscutibile fattore geografico. Qui lui ci spiega come nei calcoli di un geopolitico si tenda ad analizzare lo spazio in tre termini differenti: il primo, costrizioni; il secondo, ostacoli; il terzo, vincoli o opportunità. Il geopolitico guarda il mondo infatti come ad un'arena in cui si consuma la lotta per il potere. Inoltre, egli pensa allo spazio come alla posta in gioco più contesa nei conflitti! Non a caso in passato più un impero aveva a disposizione delle terre e più le poteva spremere come dei limoni. Ciò è vero anche oggi, ma solo in parte. Si pensi, ad esempio, allo stato-continente dell'Australia, sì sterminato ma perlopiù spopolato e abitato solo lungo la fascia costiera: la sua complessa realtà geografica tuttora costituisce un insormontabile ostacolo per far sì che esso venga colonizzato – un po' come accadde in passato con l'America. Un'altra componente che nondimeno dovrebbe determinare la potenza di uno stato è indubbiamente la popolazione. Ma anche qui non è sempre detto che per uno stato una popolazione in continua crescita ne determini il grado di potenza. Si pensi al caso dell'Egitto. Questo stato presenta una popolazione in crescita esponenziale, tuttavia invece che essere un fattore catalizzatore è semmai l'opposto, ossia un elemento frenante. Infatti le numerose carestie dovute alle secche del Nilo, colpiscono con una buona dose di sfortuna la popolazione locale, e rallentano pertanto la potenziale rincorsa di questo stato ad un “posto al sole” nel lotto delle potenze mondiali che contano. Poi ancora la componente religiosa, che rende da sempre il Medio-Oriente un teatro bollente, fa di questa fetta di territorio un unicum su scala planetaria. Dunque tutti questi casi c'insegnano che la geopolitica in senso stretto scade talvolta in un iper-determinismo geografico che non può efficacemente spiegare tutto; ovvero esso, come tutte le spiegazioni mono-causali, è destinato ad avere una visuale fin troppo ristretta e parziale di un determinato fenomeno – altresì molto più complesso...
La geopolitica in senso stretto, diventa in auge attorno alla prima metà del XX secolo. Tuttavia essa scompare nel periodo che intercorre tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda dopo il crollo dell'Urss (nel 1991, mentre la caduta del muro era già avvenuta nel '89). Questo per due ragioni: la prima ragione, perché la geopolitica veniva ritenuta la disciplina nazista per antonomasia al servizio della follia imperialista del Terzo Reich; la seconda ragione, invece, perché durante il periodo della guerra fredda si scontrarono due diverse visioni universalistiche del mondo fin troppo inconciliabili fra di loro, quale quella capitalista-americana e quella comunista-sovietica – e con la geopolitica di mezzo non si sarebbe fatto che gettare benzina sul fuoco in un conflitto sì sotterraneo, ma dal potenziale spaventevole per tutto il genere umano! A tal proposito, infatti, basti pensare agli scenari inimmaginabili che si venirono a creare con il concretizzarsi di una sconvolgente rivoluzione tecnologica, che prefigurava nuovi potenziali conflitti con missili nucleari capaci di bucare lo spazio in brevissimo tempo e annientare pertanto bersagli all'altro capo del mondo. Del resto è ben noto il monito lanciato dallo scienziato-inventore della bomba atomica Albert Einstein che senza mezzi termini affermò, paventando l'incombere della minaccia nucleare: “Non so con che armi sarà combattuta la terza guerra mondiale, se mai ci sarà. Ma posso dirvi con cosa sarà combattuta la quarta: con clave di pietra”.
La parola “geopolitica” assunse il significato – che noi tutti conosciamo – alla fine del XIX secolo grazie ad un professore svedese di storia e di scienze politiche Rudolf Kjellén. Ad ogni modo, il primo pensatore geopolitico degno di questo nome fu il geografo-storico inglese Mackinder (1861-1947). Egli – a differenza dell'importanza data all'egemonia nei mari dall'ammiraglio americano Mahan (1840-1914) secondo cui era a ciò imputabile il motivo della supremazia inglese – affermò che chi fosse riuscito ad avere il controllo del Continente euro-asiatico avrebbe ottenuto la futura egemonia mondiale. Precisamente lui riconobbe un'area specifica, detta “area Pivot”, nel possesso della quale si sarebbero giocate le chance decisive di supremazia per qualunque nuova potenza avesse voluto cimentarvisi. Essendo quest'area il teatro d'azione più instabile in tutto il globo, lui era dell'avviso che chi si fosse assicurato tale perno cruciale avrebbe poi ottenuto una potenza incalcolabile. Memorabile fu il giorno in cui Mackinder espose le sue idee. Era il 25 gennaio 1904. Lo fece nientemeno che al cospetto della Royal Geographic Society, tenendo una conferenza dal titolo The Geographical Pivot of HistoryIl perno geografico della storia. Questa sua bizzarra teoria – com'era lecito attendersi – suscitò un certo scalpore in quanto andava certamente controtendenza, visto che i destini della potenza nel mondo fino a quel momento si erano tutti giocati nei mari, invece che nella terraferma, come lui di lì in avanti preconizzò... Mackinder quindi spartì il mondo in due macro-isole: l'Isola mondiale o World Island (comprendente Africa, Asia ed Europa) e le Isole periferiche o Outing Islands (comprendenti le Americhe e l'Australia), entrambe separate da una sconfinata massa d'acqua (l'Oceano mondiale o World Ocean).
Inoltre, lo studioso inglese individua due punti nevralgici definiti heartlands: un heartland del Nord, comprendente l'Eurasia fino ai deserti dell'Asia centrale, che ha per confini il Mar Baltico e il Mar Nero; e un heartland del Sud invece, che si estende a Sud del Sahara e sancisce la linea di demarcazione tra il mondo bianco e quello nero. La cosiddetta “area Pivot” si concentra altresì dalla catena dell'Himalaya fino all'estrema porzione orientale del Continente asiatico. Essa è sempre stata un'area pressoché proibitiva da colonizzare. Basti pensare che tutte le più importanti invasioni, succedutesi nell'arco della storia, non sono riuscite a darle una consistente unità politica. Da qui deriva l'assunto di Mackinder: chi controllerà quest'area, dominerà l'intero globo! Contemporaneo di Mackinder è lo studioso olandese – poi divenuto americano d'adozione – Spykman (1893-1943). Se Mackinder si focalizzò sul concetto di heartland, Spykman diversamente si soffermò sul concetto di rimland, concernente quelle terre della fascia esterna del globo. Questo perché il suo contributo sortì proprio nel bel mezzo del secondo conflitto mondiale. Dunque si trattava di prefigurare un ruolo futuro per la potenza emergente statunitense, appunto situata nella fascia esterna del globo.
Finita la veloce carrellata dei pensatori delle potenze marittime, passiamo ora ad un'altra carrellata riguardante invece la potenza continentale: la Germania. Il primo geopolitico tedesco in ordine cronologico fu Ratzel (1844-1904), che operò in età guglielmina. Il contesto storico in cui visse il pensatore tedesco era questo: la Germania – da lui definita la “nazione in ritardo” nel senso che venne unificata tardi rispetto alle altre potenze europee (la Germania infatti si unificò solo nel 1871) – si stava lentamente affermando sul palcoscenico mondiale. Era appena uscita gloriosa vincitrice dalla guerra franco-prussiana (1870-71) e subito dopo subì un incremento a dir poco esponenziale della sua popolazione (basti pensare che nel 1871 i tedeschi erano 41 milioni, mentre già nel 1914 divennero 68 milioni). Dunque la prima necessità per il popolo tedesco fu quella di assicurarsi nuove colonie, giacché da che mondo è mondo una potenza per poter dirsi tale doveva necessariamente essere una potenza coloniale. Ratzel fu innanzitutto un prodotto della sua epoca. È di questo periodo, infatti, la diffusione del “darwinismo sociale”, ossia quella particolare rielaborazione della teoria darwiniana sulla selezione naturale, espressa dallo studioso inglese Herbert Spencer, che la estese appunto anche all'ambiente sociale – quindi degli uomini e degli stati –, lo stesso Ratzel ne risentì indirettamente gli influssi. Essendo la Germania chiusa al centro dell'Europa essa non aveva altra alternativa se non quella di lottare per assicurarsi la propria sopravvivenza, magari estendendo oppure consolidando i propri confini nazionali. Come vedremo, da qui a teorizzare il cosiddetto “spazio vitale” – per dirlo con Hitler – il passo fu piuttosto breve. Karl Haushofer (1869-1946) fu il continuatore della tradizione geopolitica ratzeliana. Se Ratzel gettò le radici del pangermanesimo, Haushofer si preoccupò di rivestire di folti rami la solida corteccia ideologica dell'albero ideologico ratzeliano. L'incremento demografico della Germania lo spinse finanche a giustificare annessioni territoriali, come quelle con l'Austria e la regione della Cecoslovacchia dei Sudeti, così come a fondare le ragioni per la Blitzkrieg per annettersi la Polonia. Questi per Haushofer furono dei fenomeni del tutto prevedibili e fisiologici: il popolo tedesco, infatti, reclamava il proprio posto nel mondo! Il ragionamento geopolitico di Haushofer, però, non poté fare i conti con la follia di un uomo, Hitler, che non si sarebbe fermato se non davanti alla totale distruzione della feccia marxista-leninista e non prima di aver dato una lezione guerresca alla plutocrazia giudeizzata degli Stati Uniti...
Al termine del secondo conflitto mondiale la profezia di Spykman non si avverò. Infatti nonostante l'Unione Sovietica, potenza vittoriosa, riuscì a controllare politicamente la cosiddetta “area Pivot”, pur tuttavia non si assicurò l'egemonia mondiale, che anzi dopo il suo crollo nel '91 si concentrò tutta nelle mani di un'unica superpotenza: gli Stati Uniti d'America! Gli Stati Uniti inaugurarono così una nuova geopolitica rispondente al sacro comandamento: divide et impera!

6.2.07

Corrado Accordino interpreta "L'idiota" di Dostojevskij

Note di regia a cura di Elisabetta Raimondi

Un personaggio enigmatico e affascinante il Principe Myskin. Ad ogni rilettura L'idiota mi regala suggestioni e riflessioni nuove. A volte rido del Principe Myskin, a volte provo compassione, altre volte lo invidio. Sono travolto dal suo spirito superiore e dalla sua fede cieca negli altri. Eppure non comprendo la sua serena mancanza di volontà, così in contraddizione con l'amore passionale e istintivo che lo pervade. I suoi improvvisi accessi mi disorientano. Parla di epilessia paragonandola a uno stato di beatitudine, a una gioia senza eguali. Lo leggo vivere e mi sembra di conoscerlo da sempre. Ma poi il suo comportamento mi disorienta, torna ad essere l'estraneo di sempre, un diverso che sorprende e non si spiega. Il Principe Myskin non è mai uguale a se stesso, e come tutte le grandi figure della letteratura la sua personalità è una somma di tanti individui. A volte sembra che sia Cristo stesso a parlare con la sua parola infinitamente bella e chiara, altre volte invece sembra il Cavaliere dalla Triste Figura, comico e amaro, tragico e sublime insieme. "… Può darsi che anche qui mi si prenda per un bambino, e sia! Anche idiota mi credono tutti, non so perché, e in realtà un tempo fui tanto malato, che allora ero proprio simile a un idiota; ma ora che idiota potrei essere, quando capisco anch'io che mi ritengono un idiota?…
"Dell'intricatissima sequenza di avvenimenti che vengono raccontati nel libro, ho scelto la preistoria del romanzo. E' la storia di Marie, una ragazza tubercolotica che viene sedotta da un commesso viaggiatore e perseguitata dalla malvagità della gente del villaggio. Il Principe Myskin in un primo tempo farà da spettatore alla vicenda drammatica che circonda Marie e successivamente diverrà protagonista del suo riscatto. Conquisterà l'amore dei bambini e aiuterà Marie a morire senza vergogna.
Appuntamento 8-9 febbraio 2006, al Teatro Binario di Monza (MI).

3.2.07

Civiltà greco-latina: Max Pohlenz e L'uomo greco / 2

(corso tenuto dal professor Giuseppe Girgenti)
Appunti, considerazioni, riflessioni


di Marco Apolloni


Max Pohlenz, filologo tedesco, compose il saggio L'uomo greco nel 1945 e lo pubblicò poi nel '46. Lo dedicò: “All'uomo tedesco nel momento del più estremo bisogno certo di una sua rinascita spirituale”. Il suo intento esplicitato fu dunque proporre ai tedeschi un modello nuovo – possibilmente più edificante di quello proposto dal nazismo – di rinascita spirituale. Un aspetto, in particolare, pervase quest'opera: la fondazione della civiltà greca avvenne grazie alla colonizzazione degli achei, popolo di area germanica. Da qui Pohlenz ricama una sorta di parallelismo tra l'uomo greco di una volta e l'uomo tedesco di oggi e lo utilizzò a mo' di paradigma. Inoltre egli propose un voluto accostamento tra gli stoici di origine semitica e gli achei di origine germanica, per cercare di creare un arduo quanto insperato gemellaggio tra due popoli in così netta antitesi, quale quello ebreo e quello tedesco. Dunque negli intenti di Pohlenz vi fu pure quello di scovare un antidoto all'antisemitismo che dilagò nel suo Paese, finanche a risucchiare il suo popolo nel vortice distruttivo del nazismo, che poi determinò l'ecatombe dell'Olocausto e l'immane carneficina della Seconda Guerra mondiale.
Qui Pohlenz sostenne la tesi per cui: la formazione o paideia della civiltà greca fu essenzialmente di stampo politico-letterario. Egli mirò a rettificare certe linee guida del pensiero greco, limitandosi ad analizzarne giusto tre: il vero, il bello, il bene. Il primo riguardava la filosofia e alle scienze; il secondo invece l'arte in tutte le sue plurime sfaccettature (architettura, scultura, erotica) ma anche lo sport (la bellezza degli atleti spesso e volentieri veniva usata dagli artisti, specialmente dagli scultori, per ricavarne opere memorabili); il terzo, infine, alla politica, ovvero la scienza che persegue il bene comune. Inoltre Pohlenz indagò i tre rapporti intrattenuti dall'uomo greco:
- il rapporto dell'uomo, dell'io, con il destino (la moira), che viene mirabilmente testimoniato nel genere letterario della tragedia; nei poemi omerici infatti, a seconda di come si accetti o meno il proprio destino, scaturisce l'umana felicità oppure infelicità;
- il rapporto, poi, dell'uomo con il divino, vedi i vari culti (orfismo, misteri eleusini, religione olimpica, eccetera);
- il rapporto, infine, con la comunità; l'uomo greco infatti non riesce a concepirsi se non all'interno di una qualche collettività, essendo parte integrante della propria polis. Trattasi dell'identificazione uomo-cittadino, in cui un uomo non può dirsi tale se non è al contempo anche un valente cittadino – tant'è che in epoca ellenistica, in cui si affermava preponderante l'ideale cosmopolita di Alessandro, l'equiparazione uomo-cittadino subisce un forte decadimento.
Esistevano, poi, secondo Pohlenz tre termini basilari per i greci:
- psyche, anima (in Omero è l'ombra del morto che vaga errabonda nell'Ade);
- thymos, animo;
- phren, ragione.
Tutti e tre possono simboleggiare la stessa cosa ed essere considerati “sede dell'io”. La psyche ha una connotazione orfica e sottende il demone interiore o daimon socratico. Inoltre, possiede due differenti accezioni: la prima, soffio vitale, respiro, adito; la seconda, ombra errabonda – come risulta nei poemi omerici. Thymos è propriamente l'aspetto passionale dell'impeto umano ed ha quattro diverse accezioni: la prima, vita, principio vitale; la seconda, desiderio, brama, componente afrodisiaco-erotica; la terza, riguarda due aspetti negativi dell'anima passionale quali la concupiscenza e l'irascibilità – all'estremo opposto si collocano invece la temperanza e il coraggio; la quarta, piaceri del sesso, del bere, del cibo. Phren è strettamente connesso alla ghiandola pineale o epifisi collocata nell'encefalo e sede – secondo alcuni – dell'anima; esso ha una sola accezione: ragione, saggezza – ovvero coinvolge l'aspetto razionale, in Omero come in Platone.
Pohlenz, quindi, si soffermò sulle differenze che intercorrevano tra la religione cristiana e quella olimpica – a parte il fatto, per i più scontato, che la prima era monoteista, laddove la seconda invece era politeista:
- per la religione cristiana, la creazione avviene ex nihilo, ossia dal nulla, mentre per la religione olimpica la creazione è già preesistente;
- il Dio cristiano crea gli uomini, mentre gli dèi e gli uomini secondo la religione olimpica sono increati, inoltre, mentre i primi sono immortali, i secondi sono mortali;
- per i cristiani Dio si è rivelato, mentre per gli dèi greci non vi è necessità alcuna di rivelarsi; essi infatti credono che il divino sia espressione della forza cosmica e addirittura gli stoici ritengono che i nomi degli dèi rispecchino, con una certa approssimazione, i nomi degli elementi naturali;
- il Dio cristiano impone i suoi comandamenti, mentre le divinità olimpiche non impongono alcunché e vengono oltretutto accese da passioni “umane troppo umane”;
- per la religione cristiana il peccato è un comportamento offensivo nei confronti della divinità, mentre per la religione olimpica il termine “peccato” non esiste neppure e semmai il comportarsi male è piuttosto indice di “non sapere”;
- per i cristiani la colpa è frutto della disubbidienza verso Dio e quest'onta può essere lavata solo mediante la redenzione, mentre i greci non avendo alcuna colpa da lavare non si pongono nemmeno l'esigenza di redimersi.
Pohlenz, infine, individuò anche dei punti deboli della civiltà greca quali:
- l'omosessualità;
- l'eugenetica, ovvero quella tendenza – poi fatta propria dai folli scienziati nazisti – di migliorare artificialmente la propria razza, che vide in Sparta la sua più nefanda espressione. Si pensi a quei neonati handicappati che venivano buttati giù dalla rupe perché inquinanti la virile razza spartana, con la loro spregevole debolezza;
- la donna nella grecità antica veniva ritenuta inferiore all'uomo, seppur con qualche rara eccezione – vedi il ruolo che ne dà Platone ne La repubblica;
- giustificazione della schiavitù per motivi di natura economica – persino Aristotele la giustificava;
- sopravvalutare la forma e di conseguenza screditare il contenuto;
- l'impulso all'autodeterminazione di ciascuno si è via via tramutato in un egoismo sfrenato che liquida la libertà stessa degli individui (n.d.r: questa è la medesima critica che, in un certo senso, può venire fatta all'odierno capitalismo...).