24.4.07

Il rapporto perverso tra la democrazia e la guerra

di Marco Apolloni

I regimi politici si suddividono in: regimi democratici, misti e autoritari. C'è un rapporto sconcertante che riguarda la democrazia e la guerra, ovvero i dati statistici dimostrano che le democrazie fanno la guerra come e quanto gli altri regimi politici. Tuttavia le democrazie prima di scendere in guerra necessitano di addomesticare la propria opinione pubblica e lo fanno servendole su un piatto d'argento la testa del nemico – un po' com'è recentemente accaduto agli Stati Uniti per dichiarare guerra al regime sanguinario di Saddam. Dopo aver appioppato i soliti luoghi comuni sul nemico opportunamente demonizzato, ecco che allora le democrazie possono sentirsi libere di muovere guerra a chicchessia. In questo, però, le democrazie hanno un certo svantaggio: non possono mai scendere a patti con il nemico-demonio, quindi devono combattere fino alla resa incondizionata di quest'ultimo, costi quel che costi – anche a costo di dover radere al suolo due centri nevralgici, facendo incetta di civili innocenti, come nei casi delle due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Nei regimi non-democratici il dittatore di turno non deve fare alcuna fatica per convincere l'opinione pubblica a lui sottoposta. Guarda caso un aspetto che salta particolarmente all'occhio è il caos che precede una dichiarazione di guerra in un regime democratico, a differenza di un regime dittatoriale in cui vi domina una calma apparentemente piatta – non a caso, qui, ogni minima forma di protesta viene subito smorzata e di solito non fanno una gran bella fine i dissidenti interni di un regime siffatto. Peccato poi che, mentre le democrazie in guerra si saldano, le dittature altresì si sfaldano: sciogliendosi come neve al sole.
Un dato sulle democrazie in guerra: queste in genere vincono le guerre, tranne in casi sporadici – come nel clamoroso episodio della guerra del Vietnam. Un altro dato è che le democrazie più giovani, in genere, sono le più bellicose – per ovvie ragioni di consolidamento del loro sistema interno ancora inceppato.
Le democrazie fra di loro formano delle autentiche “oasi di pace”. Difatti una regola empirica ci dice che le democrazie ben consolidate non si sono mai fatte la guerra fra di loro, tranne in rare eccezioni – peraltro spiegabili servendosi della lente d'ingrandimento della geopolitica. Come nel caso della Finlandia che nella seconda guerra mondiale si alleò con la Germania nazista solo, però, per non essere invasa dall'Unione Sovietica. Eccezioni come questa, tuttavia, fanno sì che nelle scienze sociali – tra cui la geopolitica stessa – non esistono leggi, ma solo regole empiriche...

18.4.07

Hedley Bull o dell'idealismo politico

di Marco Apolloni

L'ordine internazionale si poggia sul sistema degli stati. Capostipite di tutti gli stati-nazione è la Francia. L'utopia kantiana della pace perpetua potrà avere compimento solo se si parte dal presupposto che tale sistema scomparirà del tutto. In tal caso si prefigurerebbe un nuovo assetto mondiale non più basato sul sistema – fin troppo rischioso – degli stati.
Il politologo australiano Hedley Bull parla di relazioni tra stati e non tra nazioni, poiché non tutti gli stati sono strutturati come stato-nazione. Nell'ultima parte del suo saggio intitolato La società internazionale, Bull ci illustra alcuni possibili scenari mondiali futuri tra cui: la profonda riorganizzazione del sistema degli stati o addirittura il superamento dello stesso sistema – come già detto –, a cui farebbe seguito l'utopia del disarmo totale. Ciononostante la minaccia incombente della guerra non sarebbe affatto scongiurata, dato che si potrebbe: o ritornare a fare la guerra con armi primitive – com'è già avvenuto in Rwanda con il “machete”, perciò ecco già dimostrato il rapporto causale: elimino le armi, tolgo di mezzo le guerre. Oppure qualcuno potrebbe aderire in un primo momento al patto di disarmo per poi procedere subito dopo al proprio riarmo – la malafede propria della natura umana non può quindi farci dormire sonni tranquilli –, ingenerando così una reazione a catena, che condurrebbe inevitabilmente ad un riarmo complessivo. Per fortuna o per sfortuna – dipende dai casi – si sta andando incontro ad uno scenario che vede sempre più paesi in possesso di armamenti nucleari. Il problema dell'Iran che vorrebbe entrare anch'esso nel “club del nucleare” coinvolge sì in prima battuta la natura fortemente radicale ed estremista del regime interno, quanto però anche la reazione conseguente che susciterebbe in quella regione del mondo. Solo per citarne i due più importanti, potrebbe provocare una corsa generale alla proliferazione del nucleare in paesi come Egitto e Arabia Saudita. Per i motivi sopraelencati uno statista come De Gaulle era molto scettico su quel che concerneva la deterrenza al nucleare, da lui ritenuta solo un “bluff”. All'epoca l'arguto statista francese, in previsione di una possibile e futura invasione sovietica, sosteneva di non fare granché affidamento su un repentino aiuto da parte degli Stati Uniti – che secondo lui si sarebbero frenati a loro volta per paura di possibili rappresaglie sovietiche. È in virtù di tali considerazioni che lui provvide a fornire il suo paese, la Francia, di armi nucleari che avrebbero così scoraggiato a priori qualunque probabile o improbabile futura invasione. Da qui deriva la celebre espressione “il re è nudo”, ad indicare l'inconsistenza di una teoria, come quella summenzionata della deterrenza al nucleare.
Piuttosto, secondo Bull, occorrerebbe favorire lo sviluppo di una ben più sicura omogeneità ideologica a scapito di una pericolosa eterogeneità ideologica. Poiché solo la comunanza degli intenti può funzionare come deterrente per i conflitti. Quest'idea era già presente nel giacobinismo e venne fatta propria dall'imperatore Napoleone, anche se poi decadde con la sua sconfitta. Per poi venire ripresa da Marx, che intendeva usarla per propagare a macchia d'olio il suo “socialismo reale”. D'altronde la creazione dell'Internazionale comunista svolse appunto questa funzione. Marx riprende la “dittatura del proletariato” – come stadio finale della “lotta di classe” – dalla cultura politica dell'antica Roma, per poi far avverare il sogno chimerico di una “società perfetta”. Bull pensa contrariamente all'ideale dell'omogeneità ideologica come a qualcosa di storicamente smentito – si pensi, non a caso, alla brutale fine a cui è andata incontro, inconsapevolmente, l'Unione Sovietica. Dunque l'omogeneità ideologica rivela tutta la propria debolezza. Essa infatti porterebbe ad un Governo mondiale dal quale Kant – il fautore della “pace democratica”, da lui teorizzata nel saggio Per la pace perpetua del 1795 – ci ha detto che non vi sarebbe più alcuna via d'uscita e che invece di essere la “panacea” di tutti i mali, determinerebbe l'instaurazione di una nefanda tirannia mondiale – il peggiore di tutti i mali e non il rimedio. Stesso dicasi per l'eterogeneità ideologica, che invece di assicurare le ragioni di tutti gli stati, al minimo sgarro di uno di essi richiederebbe un'eccessiva dose di coercizione. Quindi qualcosa ci dovrebbe far pensare che entrambe queste soluzioni – omogeneità ed eterogeneità – siano poco affidabili e vadano necessariamente comprovate all'atto della loro concreta realizzazione.

6.4.07

Viaggio attraverso la rotta dei clandestini africani

di Silvia Del Beccaro

Nel 2003 il "Corriere della Sera" ha pubblicato il reportage dell’ inviato Fabrizio Gatti. Il giornalista ha raccontato, in cinque puntate, il viaggio intrapreso e vissuto al fianco di numerosi clandestini africani, in fuga da Sierra Leone, Liberia, Costa d’Avorio, Nigeria e Camerun. Partenza da Dakar, arrivo a Lampedusa: ecco il tragitto che gli immigrati clandestini devono seguire, per arrivare in Europa. Come vivono? Cosa li porta ad attraversare tutta l’Africa? Quali violenze sono costretti a subire per vedere realizzati i propri sogni? A queste domande, Fabrizio Gatti ha risposto attraverso le fotografie e le parole pubblicate all’interno del suo reportage.
Seguiva già da tempo l’arrivo in Italia degli immigrati, spesso clandestini. Così nel 2002, dopo i numerosi naufragi nel mar Mediterraneo, tra il Nord Africa e la Sicilia, Gatti ha proposto di raccontare la storia di queste persone e dare loro un nome, poiché spesso, per noi, erano solo dei numeri (n.d.r. 210 morti nel Mediterraneo, 365 dispersi nel nord della Tunisia). Era un’idea che aveva in mente già da tempo, ma era sempre mancata l’occasione giusta per realizzare un servizio di questo genere. L'estate del 2002, poi, ha proposto l’idea al suo direttore; gli ha spiegato di voler raccontare chi fossero queste persone e di voler condividere con loro il viaggio che compiono, a suo parere eroico.
Così il giornalista e i colleghi si sono messi subito all’opera per cercare di trovare più informazioni possibili e per organizzare un viaggio che, certamente, sarebbe stato estremamente difficile e faticoso. La preoccupazione maggiore, prima della partenza, era data dalla scarsità di punti di riferimento nel Sahara.
Lungo il percorso nel deserto ci sono solo 5 pozzi d’acqua. E non bisogna mancarne neanche uno, altrimenti si rischia la vita. In maggio, un camion si è guastato nella sabbia e sono morte 63 persone. La stessa cosa è successa ad altri due piccoli fuoristrada, nel mese di giugno: uno si è guastato, l’altro si è insabbiato. Sono rimaste coinvolte 30 persone”. E’ bene dire che, in caso di guasto o smarrimento della rotta nel deserto (solo il Ténéré è grande quasi come la Francia), occorre mantenere la calma, nonostante le condizioni in cui ci si trova siano senza dubbio allarmanti. Ecco perché, prima della partenza, Fabrizio Gatti ha cercato di raccogliere maggiori informazioni possibili, attraverso mappe, racconti o altre fonti; così facendo ha potuto segnare alcuni punti di riferimento che gli sarebbero stati utili, una volta circondato solamente dal deserto.
Ma le persone che decidono di partire sono a conoscenza a priori della pericolosità a cui vanno incontro? Chi parte sa che è sarà un viaggio duro e difficile, ma di certo ignora a cosa sta per andare incontro. Neanche Fabrizio Gatti pensava che i militari arrivassero a tanto: estorsioni, ricatti, violenza.
Ma allora, se già attraversare il tratto desertico è così pericoloso, perchè i clandestini decidono di compiere un simile viaggio? Chi parte, nella maggior parte dei casi, sono ragazzi che hanno studiato e che sperano che il loro titolo di studio da noi valga di più; chi parte, spesso sono emigranti africani, o persone che provengono dai paesi più poveri in cerca di lavoro. Chi parte sono persone che vogliono trovare la libertà, anche solo intesa come possibilità di veder realizzato un sogno. Chi parte sono africani “cittadini del mondo”: quelli che si sentono occidentali perché hanno appreso l’importanza dell’istruzione e della scuola. Sono tutti coloro che si sentono proiettati verso un mondo informatizzato, in cui internet è diventato un utilissimo strumento di comunicazione. Ricordo ancora oggi un aneddoto simpatico che Fabrizio mi raccontò in merito al suo viaggio.
Durante il percorso gli era capitato di incontrare gente che gli chiedesse di mandare loro una mail, una volta tornato in Italia, con allegate le sue fotografie. Gli sembrò strano. In fondo, in un’Africa povera, denutrita ed affamata non si può credere all’esistenza di internet. Invece, esistono tantissime baracche, in cui sono collocati fili elettrici, pochi telefoni e qualche schermo. Internet è molto importante perché per loro è uno dei pochi mezzi attraverso il quale possono comunicare con il resto del mondo.
A Dirkou ha conosciuto un ragazzo che era rimasto bloccato perché aveva finito i soldi necessari per continuare il viaggio. Gli ha raccontato che una ragazza bulgara, con la quale era in contatto e alla quale aveva confessato il suo sogno di arrivare in Europa, gli aveva spedito addirittura 100 dollari attraverso internet.
Avventura dopo avventura, alla fine del reportage, sono emersi aspetti che nessuno in redazione si sarebbe mai aspettato. La violenza e le torture a cui i clandestini sono sottoposti da parte dei militari e della polizia sono indescrivibili: pestaggi, frustate con cavi elettrici abbandonati, estorsioni continue. E se un clandestino non ha i soldi per continuare il viaggio, viene abbandonato in mezzo al deserto. Adama Traoré e altri 21 ragazzi sono stati lasciati sotto il sole almeno per dodici giorni, mangiando topolini, insetti, una manciata di miglio. I soldati li hanno fatti scendere dal camion vicino a un pozzo sperduto nel deserto, perché i 22 immigrati non avevano più niente; nemmeno un paio di scarpe bucate con cui pagare l’estorsione.
La cosa più scioccante dunque è lo sfruttamento del fenomeno immigrazione, da parte della polizia e dell’esercito. Oltre agli episodi di violenza, il giornalista è rimasto molto scosso da altri momenti di sofferenza a cui ha assistito durante il viaggio intrapreso. Kofi e Oliver ne sono un esempio. Kofi, 24 anni, partito dal Ghana, è morto di fame e polmonite all’autostazione di Agadez. Dopo sei ore di convulsioni, invece del medico, i guardiani hanno chiamato i poliziotti. Kofi non aveva i 1000 franchi per pagare l’ospedale. Oliver, invece, arrivato dalla Nigeria, è stato soffocato da una pallottola di banconote. Aveva 800 dollari, i gendarmi nigerini stavano spogliando e massacrando di botte tutti gli stranieri perquisiti prima di lui. E Oliver, disperato, ha ingoiato i soldi per nasconderli. Credo che il viaggio di Gatti sia stata una scelta giusta. Penso valga la pena mettersi in gioco e raccontare ciò che dai media, solitamente, è ignorato o nascosto. È una grande soddisfazione riuscire a mostrare quello che nessuno ha visto, al di là delle informazioni ufficiali perlopiù fittizie. C’è una parte della realtà, infatti, che non viene mediata da nessun ufficio stampa o che magari le fonti negano; è a questo punto che un giornalista deve ingegnarsi, per cercare di raccontare la realtà fino in fondo... Un po' come ha cercato di fare lui.
E oggi, grazie alle inchieste a cui ci ha ormai abituato questo coraggioso e caparbio professionista, molte verità nascoste sono venute a galla e di questo gliene siamo tutti grati e sopratutto gliene sono grati loro: quella banda di disperati che, con gommoni a malapena galleggianti, si riversano disperatamente nelle coste del nostro Belpaese inseguendo i loro sogni, spesso - purtroppo - irrealizzabili.

3.4.07

Riflessione sul tragico: Che cos'è il destino per l'uomo greco?

di Marco Apolloni

Che cos'è il destino per l'uomo greco? È il contrappeso alla propria libertà, o meglio è la capacità di resistere alla propria ineluttabilità. Da ciò si origina la tragedia, che è un aperto scontro tra la libertà dell'uomo e l'ineluttabilità del suo destino. L'uomo infatti può ribellarsi al proprio destino oppure accettarlo e farsene una ragione. Nietzsche definiva quest'ultimo atteggiamento: “amor fati”. Proprio da quest'oscuro e insondabile sentimento tragico della vita, lui intuì il carattere pessimista dei greci. Secondo Nietzsche appunto nell'incondizionata accettazione del proprio destino consiste la nostra maggiore felicità, intesa come liberazione da un destino il cui peso altrimenti ci schiaccerebbe! Noi aspiriamo alla libertà poiché non riusciamo a possederla del tutto. Il nostro paradosso è questo: ci muoviamo in tutte le direzioni, pur sapendo che alla fine non arriveremo da nessuna parte... “Neppure Zeus al suo fato può sfuggire” fa dire Eschilo al suo Prometeo incatenato. In Eschilo il destino rappresenta la soglia ignota che l'uomo non può varcare. La Dike (Giustizia) punisce l'uomo che osa oltrepassare i limiti impostigli dal suo fato imperscrutabile. Da ciò ne deriva che: per vivere bene occorre vivere secondo le leggi della necessità! La tragedia per l'uomo coincide con la scoperta del proprio infausto e soverchiante destino. Terribile è la conoscenza – non a caso secondo i tragici greci: il dolore era il principale strumento conoscitivo –, perciò quasi sarebbe meglio non conoscere affatto.
In Sofocle, Edipo proprio perché ha tanto sofferto viene beato!
In Euripide, invece, il conflitto non è più tra l'io e il destino oppure tra l'io e il divino, bensì tra gli uomini e le loro passioni “umane troppo umane” direbbe Nietzsche. Nelle Baccanti, lui ci presenta una femminilità come autentica “alcova” in cui dimorano le passioni umane più irrefrenabili, rappresentata appunto dalle Baccanti, e in contrapposizione una mascolinità come sede della ragione, rappresentata invece da Penteo. Questi nella tragedia tenta invano d'impedire la diffusione del culto dionisiaco a Tebe e come risarcimento ottiene di venire fatto a pezzi dalle Baccanti, che nel loro momentaneo invasamento lo scambiano per un leone. A ben poco valgono, poi, le lacrime di sua madre Agave: certamente non a ridarle il figlio ucciso. Questa tragedia euripidea segna il trionfo del dionisiaco, seppur nella sua accezione negativa, inteso come trionfo dell'irrazionalità! Divertente è quell'aneddoto secondo cui a Euripide toccò morire, a seconda delle versioni, o sbranato da una muta di cani inferociti o fatto a pezzi – come Penteo – da un gruppo di donne invasate.
Laddove la tragedia rappresenta le sublimi ed eroiche passioni contrastanti dell'animo umano, Nietzsche accusa Euripide di aver annichilito lo spirito tragico dei greci e di aver introdotto surrettiziamente nella tragedia lo spirito raziocinante socratico. È vero poi che il Nietzsche “adulto” diventa acerrimo nemico del cristianesimo – e ne darà prova infatti nella sua opera imprescindibile L'anticristo –, ciononostante sin dai suoi inizi letterari si può già intravedere una ferma condanna di quelle fasi preparatorie del cristianesimo tra cui: il platonismo ma, prima ancora, il socratismo! Socrate viene da lui percepito come una sorta di “assillo” che lo perseguiterà per il resto dei suoi giorni ma di cui, tuttavia, non riuscì mai del tutto a liberarsi.
Pohlenz muove sostanzialmente tre critiche alla visione nietzscheana della grecità antica: la prima, troppo pessimismo eroicizzato; la seconda, troppa importanza data al ruolo giocato dalla musica nell'origine della tragedia attica, in gran parte dovuto alle influenze wagneriane e tardo-romantiche del “giovane” Nietzsche – mentre la musica in realtà aveva un ruolo soltanto accessorio e ornamentale, egli dà invece maggiore preminenza alla componente visiva e infatti ritiene che quella greca sia essenzialmente una “cultura della visione”; infine, la terza, contesta a Nietzsche il suo pessimismo di fondo sui greci, che non gli permette di riconoscere il rovescio della medaglia della tragedia, che è altresì la commedia. Mentre dalla prima – secondo Aristotele – scaturiscono le “passioni del pianto”, dalla seconda invece scaturiscono le “passioni del riso”. Ma le une non possono darsi senza le altre e sono indissolubilmente legate fra loro da un sottile quanto inestricabile filo comune. Proprio per questo: un comico è anche un po' tragico e, viceversa, un tragico è anche un po' comico...

Civiltà greco-latina: la poetica dei greci / 3

(corso tenuto dal professor Giuseppe Girgenti)
Appunti, considerazioni, riflessioni

di Marco Apolloni

La poesia nella civiltà greca si caratterizza in tre fasi: prima fase, poesia epica antica (Omero, Esiodo); seconda fase, poesia elegiaca; terza fase, poesia drammatica. In merito a quest'ultima vi sono due opere imprescindibili: una di un contemporaneo, Aristotele, intitolata La poetica; un'altra di un postero, Nietzsche, intitolata La nascita della tragedia.
Tesi di Nietzsche: il sentimento tragico della vita è la caratteristica peculiare dell'uomo greco. Tale sentimento è determinato dal conflitto incessante tra la libertà umana e la necessità del fato ineluttabile. Dunque esiste una sola via d'uscita: “l'amor fati”! Tesi questa riconducibile agli stoici, i quali desideravano anch'essi assecondare il loro destino, senza opporvisi minimamente. Da ciò ne consegue l'equazione: Grecità = Pessimismo!
Tesi di Aristotele: la tragedia – nata da un insopprimibile esigenza religiosa, culto di Dioniso – è imitazione di uomini nobili, laddove la commedia invece è imitazione di uomini più spregevoli. La prima suscita le “passioni del pianto”, la seconda invece le “passioni del riso”. Senza l'una non può necessariamente darsi nemmeno l'altra, poiché l'arte è imitazione della vita e della vita fanno parte entrambe queste passioni ed entrambe queste categorie di uomini – siano essi nobili oppure spregevoli.
Attraverso il teatro, che svolge una funzione sia paidetica, cioè educativa, che terapeutica, i cittadini della polis imparano mediante la purificazione dalle passioni negative, dicesi: catarsi. Quindi, in definitiva: per i greci andare a teatro è l'equivalente del nostro andare a messa la domenica, oggi...
Sulla scia aristotelica si colloca la tesi di Pohlenz: nettamente contrapposta a quella di Nietzsche, che vede nell'equazione Grecità = Pessimismo uno schema fin troppo riduttivo. La tragedia intesa come pessimismo ha un suo preciso rovescio della medaglia, che consiste nella commedia intesa altresì come ottimismo. Piuttosto si potrebbe definire il pessimismo dei greci come il limite invalicabile del loro ottimismo, oltre il quale non era dato accedere. Quindi, in definitiva: senza la commedia non vi sarebbe neppure la tragedia!
I poeti drammatici rivaleggiano fra di loro come degli “agoni” olimpionici e questa genuina competizione ha luogo nelle loro rappresentazioni teatrali. La prima, in assoluto, di cui si conserva memoria è quella tenutasi al Teatro di Dioniso ad Atene nel 534 a.c.
Il termine “dramma (drammatico)” deriva dal verbo “drán” che significa: “agire”. Dunque il drama propriamente inteso sta a significare un'azione scenica detta: “rappresentazione” o anche “messa in scena” e di cosa se non di un'azione? La tragedia così come la commedia, dunque, appare come un'imitazione di un'azione – ovvero: mimesi di una prassi. Questa è scritta per venire inscenata dagli attori e non per venire narrata dagli aedi o dai rapsodi.
Il dolore per i greci è fonte d'inestimabile conoscenza. Non a caso, se in Eschilo s'impara attraverso la sofferenza, viceversa in Sofocle la conoscenza produce sofferenza.

2.4.07

Geopolitica americana Vs. Geopolitica europea

di Marco Apolloni

Occorre distinguere la tradizione geopolitica europea machiavellico-realista da quella americana messianico-idealista. Questo non vuol dire che alcuni padri della patria americana fossero totalmente sforniti di una certa visione realista; basti ricordare statisti del calibro di Hamilton e Washington, fino ad arrivare ai giorni nostri a Kissinger – la cui origine tedesca è testimonio di una visione geopolitica prettamente europea. Ne L'impero che non c'è lo studioso americano David Polansky afferma proprio che la nazione americana è stata fondata sull'anti-machiavellismo, o meglio sul diniego del modo di fare politica tipicamente europeo. Gli americani sin dalla loro gloriosa fondazione si sono sempre sentiti una “eccezione”. La Provvidenza – forte è il carattere spirituale di questa giovane nazione, colonizzata originariamente da schiere di puritani emigrati dalla Madrepatria inglese – li ha infatti collocati in una posizione di comodo, lontani geograficamente dagli atavici conflitti europei, e ha dato ad essi un territorio immenso sul quale espandersi e proliferare, diventando così una nazione fieramente indipendente.
Proprio alla luce del carattere eccezionalista, di cui si sentono investiti gli americani, possono essere comprese le loro due opposte tensioni. Una all'isolazionismo, mirabilmente espressa dalla dottrina Monroe dal nome dell'omonimo Presidente, il quale voleva che gli americani si occupassero solo delle faccende americane, lasciando agli europei le loro faccende ed estendeva la sfera d'influenza degli Stati Uniti oltre all'America settentrionale anche all'America centro-meridionale – già prefigurata, oltretutto, dal famoso monito del primo Presidente George Washington – il cui succo può essere così reso: non immischiatevi nelle guerre europee poiché la nostra missione è più elevata.
Un'altra invece jeffersoniana – dal nome del Presidente Thomas Jefferson – inneggiante invece ad uno spiccato interventismo per affermare la sicurezza democratica in tutto il globo terracqueo, poiché ovunque vi fosse stato un nemico della democrazia costui sarebbe stato anche un nemico degli Stati Uniti, che minacciava la sicurezza interna della nazione.
Questa seconda tensione ebbe tra i suoi più autorevoli esponenti – nel bene e nel male – il Presidente Woodrow Wilson, ovvero il decisore dell'intervento americano nel primo conflitto mondiale. Intervento, questo, risolutivo che assestò la batosta finale alla smisurata arroganza della Germania guglielmina – che aveva raggiunto il suo culmine con l'affondamento del mercantile Lusitania. Dal nome del Presidente Wilson si originò la cordata dei wilsoniani, attualmente riconoscibili nei cosiddetti “neoconservatori” – ovvero espressione della contestata amministrazione Bush jr., che con una presunzione tutta idealistica sta rispondendo agli attentati di quel maledetto 11 Settembre, con la complessa e potenzialmente interminabile guerra al terrorismo internazionale. Anche se, a dire il vero, la guerra dichiarata al terrorismo ha una sua “ragione d'essere” eminentemente geopolitica. Essa è figlia della necessità propria degli Stati Uniti di ri-consolidarsi come potenza mondiale egemone. Non contrattaccare dopo l'abominevole attacco del 11/9 sarebbe stato percepito in tutto il mondo più che come un atto di generosa misericordia dell'America, come un segnale invece di debolezza. Dunque la guerra in Afghanistan, prima, e in Iraq, poi, rientrano nel segno di un'unica e unilaterale dimostrazione di forza – alla faccia di chi voleva l'America come una potenza in declino –, oltre a servire come preciso monito ai cosiddetti “regimi canaglia” – Iran e Siria su tutti. Gli Stati Uniti, dunque, nonostante siano la potenza incontrastata “numero uno” vogliono a tutti i costi essere la potenza “numero uno plus”. Sta di fatto, però, che l'America oggi – come l'omonimo titolo di un film del regista americano Robert Altman – è molto meno potente di quanto non fosse stata prima dell'undici Settembre. Altrimenti non sarebbero spiegabili certe libertà prese da alcuni suoi alleati. Emblematica è stata in quest'ottica la dichiarazione franco-tedesca, ribattezzata Chirac-Schroeder, contro l'intervento militare in Iraq.
Indubbiamente alcuni errori commessi in passato dagli Stati Uniti, hanno contribuito in misura rilevante a determinare l'attuale situazione di caos. Fu proprio la grossolana logica de “il nemico del mio nemico è mio amico”, che portò gli Stati Uniti ad appoggiare i guerrieri estremisti talebani nella lotta per l'indipendenza dell'Afghanistan, contro l'allora unica minaccia sovietica. Guerra questa che riveste un'importanza geopolitica cruciale, in quanto si mantenne con un piede ancora nella guerra fredda e l'altro nella guerra di oggi al terrorismo.
Ma ritorniamo alle strategie del Presidente Wilson... L'idealismo wilsoniano-americano ha già mostrato i suoi notevoli punti dolenti, vedi il disastro geostrategico del tentativo – miseramente fallito – di conciliare le potenze uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale. Tale fallimento innescò poi, come tutti sappiamo, l'inevitabile quanto inesorabile avvento sulla scena politica tedesca, di Adolph Hitler, la cui follia imperialista trascinò l’intero mondo nel baratro del secondo e – ancor più cruento – conflitto mondiale. Chissà che una maggiore prudenza e un pizzico in più di sano pragmatismo da parte di Wilson avrebbero potuto, forse, scongiurare un epilogo talmente drammatico. Ciò non significa però, attribuire la colpa dei disastrosi accadimenti successivi al Presidente Wilson, pur tuttavia le sue responsabilità oggettive furono e restano pressoché indubitabili. A tal proposito, estremamente intuitiva si rivelò Margaret Thatcher, ex Primo Ministro inglese, nel dire che: “Gli Stati Uniti sono figli della loro filosofia, mentre noi europei siamo figli della nostra storia” – malauguratamente sanguinosa, bisogna riconoscere, ma pur sempre “maestra di vita” (per dirlo con Cicerone).
Cercando di tirare le somme si può benissimo tracciare uno schema ideal-tipico sul modo di pensare americano. Innanzitutto, va detto, l'approccio politico degli americani è decisamente universalistico. Lo stesso Jefferson parlava di obblighi morali inderogabili per gli americani; oppure si pensi allo scrittore Melville, quando si riferiva all'America come alla Nuova Gerusalemme. D'altronde la costituzione americana – indirettamente influenzata dal pensiero politico di Locke e di Montesquieu – si rivolge indistintamente a tutti gli uomini liberi capaci di riconoscersi nei suoi alti e nobili principi. Troppo spesso questo universalismo americano viene però frainteso dagli europei come una sorta di moralismo ipocrita. Un'altra caratteristica del modo di pensare americano è che: gli americani non si impegnano facilmente nei conflitti, ma quando lo fanno diventano irriducibili. Proprio per questo il cittadino-medio americano muove guerra ad un altro paese solo se si tratta di combattere il cattivo di turno, sia esso: Guglielmo II, Hitler, Milosevich o Saddam. Anche l'ottimismo antropologico di cui è profondamente intrisa la cultura americana si risolve, nelle decisioni politiche dell'America, in un'eccentrica forma di sperimentalismo. Chiaro esempio di questo sperimentalismo “all'americana” è l'operazione di esportazione della democrazia in teatri altamente instabili, che l'attuale amministrazione repubblicana sta portando avanti con esiti diremmo “poco fortunati” – per usare un eufemismo. Secondo l'ottica americana: l'umanità è perfettibile a patto che venga, per così dire, americanizzata, cioè venga ri-plasmata ad immagine e somiglianza dell'America.
Tra americani ed europei, in definitiva, vi è una notevole diversità, che emerge in maniera ancor più evidente nell'ultimo conflitto iracheno. Inoppugnabili dati sociologici c'insegnano che: mentre il soldato americano segue il modello John Rambo e combatte in Iraq, con la convinzione di essere un paladino delle forze del bene in lotta contro le forze del male; il soldato inglese è molto più accorto, “prudenza” sembra essere la sua parola d'ordine e, sopratutto, se non altro gli sono state date le nozioni più elementari per meglio orientarsi sul difficile terreno di scontro iracheno, a differenza dei sprovveduti marines americani i quali hanno invaso un paese nemico senza avere la benché minima cognizione di causa su quel che sarebbe stato il dopo-Saddam – responsabilità, questa, più che altro da imputare ai loro generali e ancor meglio ai “falchi” di Washington. L'incapacità tutta americana di pensare al mondo esterno – percepito come un'entità spaventevole e insidiosa – è qualcosa di strettamente connaturato alla natura stessa dell'essere-americano. Basti pensare che l'attuale Presidente Bush jr., prima di ereditare lo scettro paterno, ebbe occasione di maturare un'effettiva esperienza del mondo basatasi soltanto su due mini-viaggi, compiuti nel confinante stato del Messico. Dato questo che dovrebbe farci non poco riflettere sulle percezioni che ha del mondo un americano-medio – peraltro ben rappresentato dal suo attuale Presidente.
Il caso del diverso modo di rapportarsi dei soldati inglesi rispetto a quelli americani nel difficile teatro d'operazione iracheno, rivela un modo di pensare squisitamente europeo. In definitiva, l'approccio europeo è molto più storico. Può sembrare addirittura che: mentre gli americani parlano chiaro, gli europei balbettano. Questo timore reverenziale degli europei è imputabile al fatto che essi sono – come già detto – figli della loro storia. Per le sue sanguinose guerre e difficoltà d'ogni sorta, la storia dell'Europa ha insegnato moltissimo ai suoi stessi abitanti e, soprattutto, ha insegnato loro ad essere realisti e non pessimisti – anche se il realismo può essere facilmente scambiato per pessimismo, pur trattandosi di ben altra cosa. Dunque il realismo degli europei ha fatto sì che essi si rivelassero, oggi, molto più cauti e prudenti sulle questioni politiche davvero cruciali. In una parola, l'atteggiamento europeo – nettamente contrapposto a quello americano – è nemico di ogni sperimentalismo. Per gli europei sperimentare è vietato. Del resto gli europei sanno bene che: “Chi dimentica la storia è condannato a ripeterla” – parafrasando il filosofo messicano Carlos Santayana.
Nei rapporti tra Europa (con particolare riguardo all'Italia, per ovvi motivi sciovinisti) e Stati Uniti, il patto di Yalta (febbraio '45) sancì la spartizione dell'Europa tra le due super-potenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, in virtù del quale: l'Europa orientale divenne un protettorato dell'Unione Sovietica, mentre l'Europa occidentale divenne un protettorato degli Stati Uniti. L'Italia aderì al patto atlantico (NATO), pur con alcune sue specificità interne (PCI). Difatti in Italia si riconoscono due tendenze dominanti in politica estera: una filo-americana legata alla DC e un'altra invece filo-sovietica legata al PCI. Quindi i rapporti tra Italia e Stati Uniti si sono sin da subito contraddistinti sotto il segno dell'ambiguità. Non solo i comunisti ma anche alcuni democristiani non vedevano granché di buon occhio l'Italia come protettorato statunitense. A dimostrazione che, malgrado tutto, vi erano più affinità tra un italiano e un russo, che non tra un italiano e un americano. Generalmente nelle dinamiche della Prima Repubblica quando c'era un ministro della difesa filo-americano, se ne metteva uno all'opposto filo-sovietico (o filo-arabo).
Il Presidente francese Charles De Gaulle fu il primo a parlare apertamente di un'Europa unita, dall'Atlantico agli Urali. Alla lunga l'atteggiamento strafottente degli Stati Uniti venne sempre più mal digerito dagli alleati europei. Essi, perciò, cominciarono presto a stancarsi di lavare i panni sporchi dell’alleato americano. Dal punto di vista americano, infatti, l'Europa è sempre stata niente più che un “albero di ciliegie”, dal quale cogliere: ciliegie buone ed altre meno buone. Per questo alcuni hanno ribattezzato questo tipo di politica come: “cogli la ciliegia”. Occorre precisare, però, che per l'attuale amministrazione neoconservatrice in Europa non ci sono più ciliegie da cogliere. Tant’è che per gli americani l'Europa intesa come unità politica neppure esiste – è giusto una costruzione fragile, al pari di un castello di sabbia, destinata pertanto a crollare poiché priva di fondamenta sufficientemente solide –, anche se esistono gli europei. Difatti, ora come ora, l'Europa sembra essere la summa di molteplici punti di vista divergenti. Il trattato di Maastricht – all'indomani della scomparsa di un mondo bipolare – costituì una spinta propulsiva verso l'attuazione di un disegno paneuropeista, oltre ad essere un tentativo concreto di coordinare gli sforzi dei singoli paesi, incanalandoli in un unico sforzo comunitario. Per inciso, in Italia Tangentopoli sarebbe stata impensabile in uno scenario di guerra fredda. Con l'avvento della Seconda Repubblica in Italia scompaiono formalmente – tranne alcune rare e frammentarie sacche di resistenza, capeggiate da alcuni irriducibili – sia i comunisti interni che esterni. Ciò coincide anche con un tempestivo cambio di segno nei rapporti con gli alleati americani. A ben guardare, lo stato di protettorato americano ha fatto più male che bene all’Italia. Ad ogni modo, questo non può e non deve servire da scusante per la pochezza della politica estera italiana – e, perché no, anche di quella interna. All'origine di tutto, sta l'impossibilità della classe dirigente italiana di riconoscere ed attuare delle direttive comuni cosiddette “bipartisan”. Come se l'Italia non fosse mai uscita dalla guerra civile – perché di questo si trattò – del biennio glorioso ('43-'45) della guerra partigiana contro il nemico nazi-fascista. Oltre a questi problemi di natura storica, se ne deve sommare un altro, ossia l'incapacità di fondo del nostro paese di ragionare in termini soggettivi – semmai solo di vincoli esterni. L'atteggiamento tipico dell'Italia in politica estera potrebbe venire così tradotto: voler restare coi piedi in due staffe. Tali problemi, però, sono principalmente dovuti al mancato intercambio generazionale della nostra ormai avvizzita classe dirigente. Basti vedere il modo in cui i principali decisori politici della Prima Repubblica, oltre a godere – a quanto pare – dell'elisir di lunga vita, si sono avvinghiati alla poltrona del potere, insediandosi persino fra le fila della Seconda Repubblica – a testimonio della veridicità del riuscito motto andreottiano secondo cui: “Il potere logora chi non ce l'ha”. Non essendo avvenuto questo ricambio generazionale tanto agognato, come si può anche solo sperare che nella nostra politica – sia estera che interna – possa cambiare qualcosa? È vero che la speranza è l'ultima a morire, ma anche ad essa vi è un termine.