Italia, in un futuro non troppo lontano...
Il suo visino sporco di terra e bruciato dal sole si era rabbuiato, non appena gli avevano dato la notizia, non voleva saperne di farsi accompagnare in Caserma. Voleva giocare con la sua nuova amica, Maia, per cui aveva appena raccolto un ciuffo di margheritine. Ma papà e mamma erano irremovibili: “Niente storie, dobbiamo andare, se no questi ci rimandano a far la fame in Romania”.
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Erano romeni di etnia rom, suo padre e sua madre, e in linea teorica lo era anche lui. Solo che Florian era nato e cresciuto in Italia, precisamente a Roma: originariamente ribattezzata caput mundi e adesso governata da uno sbiadito esemplare della razza dei Cesari. Da sette anni si erano trasferiti nel Belpaese, che di bello ormai aveva solamente il nome. Tanti anni quanti ne aveva il piccolo Florian, che da quando stava nel pancione materno si era abituato a respirare la frizzante aria romana. Roma di maggio... uno spettacolo! Il cielo era terso quel giorno e il sole ardeva alto in cielo. Fosse stato per lui se ne sarebbe rimasto volentieri al campo, dove tutto sommato non viveva poi così male.
Nonostante la giovanissima età, gli altri bambini avevano già imparato a rispettarlo. Da quella volta che si era preso a calci e pugni con un ragazzino più grande di tre anni, ruzzolando per terra e facendosi valere come combattente nato. D'altronde se sei cresciuto in un campo rom e a tre anni ti mostrano già i primi trucchetti per derubare la gente, portandoti in spalla sui binari della stazione Termini, impari presto che la vita non è tutta rosa e fiori. Impari a cavartela da solo. Ma che ne sanno i bambini italiani, con la loro pancia piena, dei loro coetanei rom meno fortunati che invece devono imparare a farsi valere senza l'ausilio di mamma e papà...
Una volta nella roulotte di un suo cugino Florian vide uno strumento che credeva appartenere al mondo incantato di Narnia, non avendolo mai visto né tanto meno toccato prima in vita sua: era una playstation lucidata a puntino per l'occasione. Quando Florian prese in mano il joystick, le sue dita quasi tremarono al contatto con quei pulsanti scintillanti. Indescrivibile fu l'emozione del suo primo goal a Fifa, il gioco preferito da tutti gli amanti del calcio su console. Lo segnò Del Piero, il suo idolo. Sopra al letto aveva perfino attaccato il poster del giocatore juventino, con la casacca zebrata e i ricciolini svolazzanti dei suoi migliori vent'anni. Quante lattine vuote aveva spiaccicato nel tentativo di provare il famoso goal “alla Del Piero”. Era solito posizionarle su un muretto e poi tentare di colpirle con un pallone sdrucito che aveva trovato, un giorno, per strada. Appena lo aveva visto, senza pensarci neppure un attimo se l'era infilato subito sotto la maglietta portandoselo in roulotte. Era l'oggetto più prezioso che aveva e lo custodiva gelosamente, come fosse il tesoro più ambito dei Caraibi. Ma ora nella gerarchia delle priorità della sua vita, il calcio era passato in secondo piano. In primo si era saldamente ancorata Maia, la ragazzina di nove anni con sangue gitano che viveva anche lei nel campo rom. Due tizzoni ardenti al posto degli occhi, capelli lunghi e lisci color dell'ebano. Florian impazziva ogni volta che se la trovava davanti. I primi tempi non riusciva nemmeno a spiccicar parola quando l'incontrava. Poi un giorno si fece avanti lei, mentre lui era troppo indaffarato a prendere a calci il suo pallone. La loro divenne presto un'amicizia sincera. Un paio di volte andarono a vedere insieme dei films sdolcinati in un piccolo cinema di periferia. Naturalmente il biglietto per loro era omaggio, visto che s'intrufolavano furtivi facendola in barba al gestore troppo concentrato nello strappare i biglietti dei paganti.
Di scuola neanche a parlarne. Sia lei che lui, però, si divertivano a vedervi uscire i loro coetanei romani: li trovavano così buffi con i loro zainetti stracolmi di libri, che pesavano quasi più di loro. Florian e Maia, invece, col cavolo si sognavano di andare a scuola. Per di più avrebbero dovuto fare cinque chilometri a piedi ogni sacrosanta mattina per raggiungere l'istituto scolastico più vicino. A nulla servirono i continui incontri con quelli dei servizi sociali, che per convincerli elargivano caramelle e cioccolatini. A loro non serviva la “carota” dei servizi sociali, né tanto meno il “bastone” delle forze dell'ordine. Bensì occorrevano loro i pulmini promessi da quelli del Comune, bravi a parole ma asini patentati quando si trattava di attuare i loro bei proponimenti. Far fare cinque chilometri a piedi sotto l'acqua e il gelo, in inverno, oppure sotto al caldo e al sole schiacciasassi, in primavera, non serviva da incentivo per la già scarsa smania di studio dei bambini del campo. Con la camicia c'è chi ci nasce e chi no: e questi ultimi difficilmente nel corso della loro vita avranno modo d'indossare ciò che non hanno.
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“È inutile spingermi, tanto io non vengo” ripeteva il piccolo puntando i piedi con tigna. Papà Victor fu così costretto a fare il suo dovere di capofamiglia, tanto ingiusto quanto spesso ineluttabile: prese energicamente a ceffoni l'amato, ma disubbidiente figlioletto. Dall'espressione sofferente del suo volto sembrava disgustato di quel che aveva appena fatto.
“Basta così” furono le sole parole che riuscì a pronunciare Maria, guardando il marito con sguardo comprensivo. Anche lei, del resto, sapeva bene che il marito aveva fatto ciò che era giusto per loro tre.
Intanto Florian si era accasciato a terra, rannicchiandosi in una posizione fetale. Non aveva la forza di piangere e soprattutto non voleva dar spettacolo, vista la folla che si era assiepata lì attorno per assistere a quella straziante scenata familiare. Nel viso portava i segni impressigli dal volere paterno e in cuor suo non sentiva di dover biasimare suo padre. Anche lui si rendeva conto della necessità di quelle botte. Suo padre, in fondo, aveva agito per il loro bene... Florian alla fine dovette cedere e non oppose più alcuna resistenza quando papà e mamma lo trascinarono di peso nella sgangherata Cinquecento, con la targa pericolante e appiccicata dietro con lo scotch. Al loro arrivo in Caserma furono accolti dall'appuntato Corelli, che fece loro cenno di seguirlo. Li condusse nell'ufficio del comandante in capo, dove papà Victor appose la sua firma quasi stenografata nel punto indicatogli con il dito dal comandante. Dopodiché l'appuntato, senza tanti preamboli, eseguì gli ordini del suo superiore e prese con forza la mano del piccolo, che accennò appena ad una mezza reazione, subito placata da un'occhiataccia del padre. Quei “carambolieri” – come li avevano ribattezzati al campo – non meritavano la soddisfazione di vederlo umiliato. Sicché, dopo l'iniziale reticenza, Florian distese i suoi lineamenti e con un sorrisino enigmatico si lasciò prendere l'impronta delle dita, senza far storie, con dignità. Nonostante il Governo italiano, capace di un simile barbaro provvedimento, avesse in quel modo tentato di strappargliela.
Do you remember Goebbels?