18.9.06

"Il presente possibile" di Ugo Perone

Notturno il fiume delle ore scorre
dalla sua sorgente che è il domani eterno….
(Miguel de Unamuno)
[1]

di Paola Mancinelli

Abbiamo scelto come esergo questi versi di Unamuno per mettere in luce uno dei principali meriti di quest’ultima fatica del filosofo Ugo Perone, ovvero quello di dare una nuova grammatica al tempo, sia di ordine filosofico che antropologico. Egli, sviluppa così, il tratto più saliente della sua elaborazione ermeneutica iniziata già con Nonostante il soggetto, dove emerge tanto la necessaria slogatura di un pensiero che si trova, figlio di Poros e Penia, già iniziato, a riflettere sull’inizio, quanto i suoi passaggi rischiosi di una continua ripresa mai eguale, ove la triplice estasi temporale sottende lo sforzo d’esistenza.
Altrettanto ne Il presente possibile si affaccia l’ardua ed affascinante fatica del soggetto di pensare la propria storicità, dando al presente la connotazione del possibile dove confluiscono memoria e futuro quasi in una investitura del soggetto stesso, preso fra il suo nulla cosciente e l’eternità. Inutile dire quanto la teologia costituisca l’interlocutrice privilegiata della teoresi di Ugo Perone, forse proprio perché consente di rileggere il tempo come kairós, e l’esistenza come narratio, dunque implicata in una grammatica temporale entro le cui maglie si distende il pensiero, proprio a partire da una necessaria e gratuita relatio, giacché la sua iniziativa iniziata procede da un Dio che si narra.
Tuttavia, non vogliamo anticipare troppo le tematiche che rendono questo volumetto, pur agile, prezioso e denso. Anzi, daremo subito una presentazione che funga da orientamento per chi si accinga alla lettura.
I primi tre capitoli, rispettivamente: Drammaturgia del pensiero, Il presente come soglia, Etica del presente, sembrano scandire una fenomenologia ermeneutica in cui la finitudine, suo dato incontrovertibile, si dispieghi in una possibilità di senso nella storia, capace di attestarsi su di una trascendenza da sempre già là, e pur cercata da sempre, nello sbilanciamento, così che si possa usare una metafora, cara allo stesso filosofo torinese; quella dell’anca di Giacobbe.
Ci vorremmo soffermare proprio sul carattere di drama perché è quanto di più connota la semantica del tempo umano. Perone ricorre alle categorie husserliane di ritenzione e protensione, partendo quasi da una Strenge Wissenschaft che analizzi il tempo al microscopio, pur recuperando una Sinngebung del tutto inedita. Asserisce, infatti, l’allievo di Pareyson, che la ritenzione è una coda di cometa che trasforma l’ora dell’impressione originaria nell’ora dell’attualità ritenuta, implicando il trattenimento di ciò che si allontana; ecco dunque la reduplicazione memoriale dell’attimo. Ma si tratta di un sempre nuovo ora, un nunc stans che anticipa e si pluralizza. Tanto è vero che dovremmo parlare di un Zwischen den Zeiten, un tempo tra i tempi, un ispessimento della ritenzione che riscatta la caducità.
Qui, però, si raggiunge un climax che, a nostro avviso, completa, superandola, la prospettiva heideggeriana. Se, infatti,la frase tedesca Es gibt Zeit, da tradurre con si dà tempo, indica l’in-disponibilità del tempo come possibilità di manipolazione (Zuhandenheit), Perone sottolinea che questa stessa indisponibilità nasce dalla coscienza del tempo che si ha. Avere non sta, qui, tanto per possesso, quanto invece per l’attualizzazione anticipante di ciò che non c’è ancora: il futuro. Allora il tempo che si ha è il tempo che si è, la temporalità del nostro esser-ci cui è affidata la custodia dell’essere. Già Heidegger insegnava che “la temporalità si temporalizza originariamente a partire dal futuro”, così che la sua autenticità nasce dalla consegna al primato del non-ancora. Se tale temporalità rinvia ad un’ontologia dell’evento, Perone si chiede, tuttavia, quanto questo non costringa a fare i conti anche con una teologia dell’evento, come per esempio quella barthiana, dell’irruzione irrelata dell’alterità assoluta, ma anche se questa paradossale possibilità impossibile non si traduca,contro le stesse intenzioni di Barth, in un esito del tutto secolarizzato. L’interpellazione di Heidegger e di Barth costituisce un nuovo passaggio decisivo in quanto il primo si attesta su una sorta di pensiero gnomico, dell’attesa dell’ultimo Dio che si esplica a spese della cancellazione della trascendenza, sporgendosi dal confine dell’evento dell’essere. D’altra parte la metafora usata dal secondo, della tangente che tocca il cerchio mai toccandolo, per contrassegnare l’impossibile possibilità di Dio, non rischia forse di far precipitare tale evento nella notte dell’eguaglianza di tutti gli eventi, dando luogo a surrogati messianici? Vi è una via di uscita; l’intreccio di filosofia e teologia, il loro dialogo ineludibile che riesca a rimettere in movimento un pensiero oltre l’irrigidimento dell’opposizione.
Per questo, Perone ricorre ad una figura come quella della soglia, atta a contraddistinguere il presente con una inedita ricchezza di metafore che riecheggiano, altresì, retaggi neoebraici ed echi della mirabile poesia di Celan. La soglia è memoria dell’attraversato, dice Perone, e l’attesa di un valico, il tempo non mio, che pure è per me, lo spazio che non si abita ma che consente l’abitare, infine l’al di là nell’al di qua. Ed ecco, allora, che si è riconsegnati alla finitezza, al mistero dell’ek-sistere che implica un essere confrontati con un già là, uno sporgersi misterioso che ferisce,ma che, pure, rinvia ad una tenerezza ove è custodita questa stessa finitudine. La tenerezza è qui mistero ontologico, anzi, sentimento ontologico per eccellenza,come felicemente asserisce il filosofo torinese, che non traguarda la finitudine nel segno della morte, vi coglie, bensì, la sorprendente freschezza della vita, declinando altrimenti quel pensare come über-schreiten che immette sull’altrove rispetto alla caducità. Secondo il paradigma della lotta di Giacobbe con l’Angelo, questa tenerezza che rinvia alla ferita della finitudine nel suo sbilanciamento necessario e gratuito è la stessa che scandisce nel tempo il racconto di una origine sempre cercata, la narrazione di un mistero che supera e stupisce, l’avventura di una soggettività che si ritrova dopo uno smarrrirsi in quello stesso mistero.
Ecco spiegato perché dal capitolo IV al capitolo VII, Perone ripercorre Il racconto della filosofia fino ad approdare ad un’ Ermeneutica del positivo transitando attraverso Il racconto dell’io,della finitezza, del tempo. In queste tappe la rotta che conduce è ancora la narrazione come ermeneutica nella quale il pensiero è contrassegnato dalla meraviglia della scoperta e del riconoscimento, della trascendenza che lo rinvia alla sua identità.
Anselmo da un lato e Descartes dall’altro costituiscono i lembi di questo racconto. L’uno indicando l’anteriorità di un’esistenza, quella di Dio da sempre là, sottende lo sprofondarsi del pensiero nella natura di Dio per cogliervi l’esistenza come appartenenza originaria, per riconoscervi la verità di essa. Suggestivo è, a questo proposito, l’accostamento con la mirabile pagina del racconto lucano dei discepoli di Emmaus, ardenti dal desiderio dinanzi alla spiegazione delle Scritture da parte dello sconosciuto ospite,da ritrovare nel gesto della cena, colui che è veramente risorto. Così l’opera anselmiana è il racconto di una sorpresa: quella del ritrovamento da parte del pensiero di un’esistenza creduta, così che tale narratio, assolutamente temporale sia capax aeterni.
L’altro sottende nelle sue Meditationes il racconto dell’io, del suo esito verso il suo mondo e le rappresentazioni della mente, che fu l’esito stesso della modernità. Eppure attraverso questo capovolgimento in cui l’io vive l’estraneità a sé, fronteggiando il sé, si ha la perdizione ed il ritrovamento,poiché l’estraneità a sé è pur sempre possibilità di un incontro con un’alterità che è il proprio ipse. Un incontro che ha bisogno del tempo come topologia dell’io ove s’incrociano, fallendosi talora, vita e pensiero rinviando ad una sproporzione che assume il senso di un’eccedenza e che dice dell’atto di un incontro. Ecco dunque che la filosofia come dizione del tempo si trova dinanzi allo stupore della rivelazione,in cui hic et nunc è partecipe di un evento, ma in cui si attesta già su una soglia, quella della vita.


[1] Citazione contenuta in J. L. Borges, Storia dell’eternità, in Tutte le opere, vol II Mondadori, Milano 1984, p.523

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