di Paola Mancinelli
Una suggestiva proposta filosofica è quella di Roberto Mancini, docente di Ermeneutica Filosofica presso l’Università di Macerata, il cui fascino consiste nell’aver correlato diverse fonti, non già proponendo una sintesi, ma cercando di mantenere la tensione dialogica,così che esse possono coabitare, secondo il valore etico del termine, dando forma ad una mondialità riscattata da possibili tentazioni di supremazia culturale.
Già il titolo ci sembra importante in quanto dice di un’eccedenza sulla scorta di una mancanza, facendo in modo che il filosofare mai pago del per se notum, divenga una sorta di freccia scoccata verso la sempre nuova possibilità del pensare. L’eccedenza nasce dall’intenzionalità politica assunta dalla parola amore, che traduce, in tal modo, una prassi di emancipazione e di responsabilità come legame ontologico in avanti, ovvero verso la generatività incessante dell’essere umano alla relazione con la verità; ma anche all’indietro, perché permette di riscattare la memoria delle vittime di violenze e guerre od oppressioni, così che esse non siano più mute, ma pienamente compartecipi di questo novum da pensare e da sperare. La mancanza, al contrario nasce dal fatto che il termine traduce la nonviolenza gandhiana. Qui va subito denunciata un’impotenza lessicale, che, dopo la svolta linguistica, denota una sorta di malattia ontologica: quella stessa che Levinas ha contrassegnato come pensiero della medesimezza, ossessionato dall’alterità per cui nutre una sorta di allergia. Si è normalmente fatto ricorso ad un termine negativo per identificare una categoria del tutto positiva. Ora, però, tale impotenza crea una nuova grammatica generativa non solo del filosofico ma dell’umano tout court
Mancini interpella Levinas in questo percorso ed il fatto che il filosofo ebreo-francese sia collocato alla fine dice, a nostro avviso, di come egli abbia invitato la filosofia a recuperare criticamente il suo inizio pensandolo altrimenti, ovvero in maniera da mantenere una tensione con l’altra sua fonte, quella ebraica; tuttavia la fedeltà al suo pensiero esige anche che questo altrimenti pensare si sviluppi fino a dialogare con istanze del tutto nuove.
Questo pensiero è quindi arrischiato sull’enigma della sua origine,ma senza malia dell’anamnesi; paradossalmente l’origine trova la sua coniugazione solo nel futuro, così che la sua topologia si estende sui due perni dell’immemoriale e della promessa, nonché su quello dell’oggi messianico e della visione fondata sulla speranza. C’è un filo rosso che lo percorre interamente, ed è quello della redenzione come il non-ancora che rende possibile questo coabitare; come scrive lo stesso filosofo maceratese a p. 69: “La vera visione è attesa della redenzione”. Voci della teologia politica e della speranza echeggiano all’unisono con quelle della teoria critica della Scuola di Francoforte, la cui convergenza è la possibilità di una coappartenenza all’Invisibile che non può non rigenerare anche quei rapporti e quelle ferite che hanno inferto dei colpi alla dignità umana ed al suo legame con la verità. Mancini, seguendo Gandhi, parla di una continuità con la propria storia interiore per cui chi è capace di nonviolenza non ha distrutto la propria infanzia e questo ha chiare assonanze evangeliche traducibili come prassi politica. C’è dell’altro, però, notevolissimo da un punto di vista filosofico,quanto di grande incidenza a livello antropologico. Questo pensiero ha perso il fondamento,intendendo per fondamento quell’ubi consistam incontrovertibile ed oggettivante refrattario al tempo umano ed alla relazione, eppure ha guadagnato una fondazione altrettanto incontrovertibile dal punto di vista epistemologico da ravvisare nell’eccedenza della speranza che permette di leggere la vita activa come agire simbolico ed intenzionale il cui riempimento di senso è dato proprio da quanto è sperato. Una fondazione, dunque, guadagnata ex post attraverso una suggestiva analogia trascendentale per cui l’ingiustizia e l’oppressione non devono poter essere l’ultima parola. La ricaduta antropologica è indubbia: la comunione dei volti come tensione escatologica che permette di pensare scenari di pace in nome della responsabilità, l’esperienza dell’essere sempre rigenerati alla Verità come possibile trasformazione interiore che mi fa essere testimone della sua eccedenza e mi convoca alla libertà dell’impegno in un mondo comune e liberato dal dominio, la certezza di un dover essere che interrompendo la chiusura del fenomenico schiude il già-non-ancora della sua redenzione. Riteniamo che Mancini ci offra una suggestiva pista per ripensare la politica come sogno di un mondo comune e di un possibile ordo amoris dove anche una categoria come la xeniteia diviene sua riserva critica e suo compimento.
Già il titolo ci sembra importante in quanto dice di un’eccedenza sulla scorta di una mancanza, facendo in modo che il filosofare mai pago del per se notum, divenga una sorta di freccia scoccata verso la sempre nuova possibilità del pensare. L’eccedenza nasce dall’intenzionalità politica assunta dalla parola amore, che traduce, in tal modo, una prassi di emancipazione e di responsabilità come legame ontologico in avanti, ovvero verso la generatività incessante dell’essere umano alla relazione con la verità; ma anche all’indietro, perché permette di riscattare la memoria delle vittime di violenze e guerre od oppressioni, così che esse non siano più mute, ma pienamente compartecipi di questo novum da pensare e da sperare. La mancanza, al contrario nasce dal fatto che il termine traduce la nonviolenza gandhiana. Qui va subito denunciata un’impotenza lessicale, che, dopo la svolta linguistica, denota una sorta di malattia ontologica: quella stessa che Levinas ha contrassegnato come pensiero della medesimezza, ossessionato dall’alterità per cui nutre una sorta di allergia. Si è normalmente fatto ricorso ad un termine negativo per identificare una categoria del tutto positiva. Ora, però, tale impotenza crea una nuova grammatica generativa non solo del filosofico ma dell’umano tout court
Mancini interpella Levinas in questo percorso ed il fatto che il filosofo ebreo-francese sia collocato alla fine dice, a nostro avviso, di come egli abbia invitato la filosofia a recuperare criticamente il suo inizio pensandolo altrimenti, ovvero in maniera da mantenere una tensione con l’altra sua fonte, quella ebraica; tuttavia la fedeltà al suo pensiero esige anche che questo altrimenti pensare si sviluppi fino a dialogare con istanze del tutto nuove.
Questo pensiero è quindi arrischiato sull’enigma della sua origine,ma senza malia dell’anamnesi; paradossalmente l’origine trova la sua coniugazione solo nel futuro, così che la sua topologia si estende sui due perni dell’immemoriale e della promessa, nonché su quello dell’oggi messianico e della visione fondata sulla speranza. C’è un filo rosso che lo percorre interamente, ed è quello della redenzione come il non-ancora che rende possibile questo coabitare; come scrive lo stesso filosofo maceratese a p. 69: “La vera visione è attesa della redenzione”. Voci della teologia politica e della speranza echeggiano all’unisono con quelle della teoria critica della Scuola di Francoforte, la cui convergenza è la possibilità di una coappartenenza all’Invisibile che non può non rigenerare anche quei rapporti e quelle ferite che hanno inferto dei colpi alla dignità umana ed al suo legame con la verità. Mancini, seguendo Gandhi, parla di una continuità con la propria storia interiore per cui chi è capace di nonviolenza non ha distrutto la propria infanzia e questo ha chiare assonanze evangeliche traducibili come prassi politica. C’è dell’altro, però, notevolissimo da un punto di vista filosofico,quanto di grande incidenza a livello antropologico. Questo pensiero ha perso il fondamento,intendendo per fondamento quell’ubi consistam incontrovertibile ed oggettivante refrattario al tempo umano ed alla relazione, eppure ha guadagnato una fondazione altrettanto incontrovertibile dal punto di vista epistemologico da ravvisare nell’eccedenza della speranza che permette di leggere la vita activa come agire simbolico ed intenzionale il cui riempimento di senso è dato proprio da quanto è sperato. Una fondazione, dunque, guadagnata ex post attraverso una suggestiva analogia trascendentale per cui l’ingiustizia e l’oppressione non devono poter essere l’ultima parola. La ricaduta antropologica è indubbia: la comunione dei volti come tensione escatologica che permette di pensare scenari di pace in nome della responsabilità, l’esperienza dell’essere sempre rigenerati alla Verità come possibile trasformazione interiore che mi fa essere testimone della sua eccedenza e mi convoca alla libertà dell’impegno in un mondo comune e liberato dal dominio, la certezza di un dover essere che interrompendo la chiusura del fenomenico schiude il già-non-ancora della sua redenzione. Riteniamo che Mancini ci offra una suggestiva pista per ripensare la politica come sogno di un mondo comune e di un possibile ordo amoris dove anche una categoria come la xeniteia diviene sua riserva critica e suo compimento.
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