20.6.07

I vichinghi: cultura o civiltà?

di Marco Apolloni

Nelle pagine iniziali di presentazione del suo romanzo Mangiatori di morte, Crichton ci dà una descrizione sommaria dei vichinghi. Ci dice che i nostri libri di storia ci hanno insegnato che la “culla della civiltà” è l'Oriente e che l'Occidente è solo un ricettore, seppur attivo, dei valori espressi nelle società orientali. Tesi, questa, rafforzata da uno studioso di filosofia della storia qual è Remi Brague, che nel suo saggio Il futuro dell'Occidente individua proprio nella «secondarietà» il carattere preminente che l'Occidente ha saputo imporre. I due esempi, universalmente riconosciuti, che lui cita sono l'impero romano e il cristianesimo. Entrambi hanno avuto l'indiscutibile merito di esser stati dei continuatori di ciò che prima era già stato imposto: dalla grecità classica e dall'ebraismo1. Seguendo questa linea interpretativa, dunque, cosa dovremmo dire di quei pirati dei mari del nord, usualmente raffigurati con dei baffoni spioventi, chiome fulve, elmi con le corna, spade damascate e una ferocia inaudita in battaglia? Qual è stato il contributo storico da loro dato alla formazione, ad esempio, di quella grandiosa idea – che noi tutti prima o poi ci auguriamo possa diventare realtà – che è l'Europa? Riportiamo un'opinione di Lord Clark:
«Se si considerano le saghe islandesi, annoverabili tra i grandi libri del mondo, dobbiamo ammettere che i normanni produssero una cultura. Ma era anche una civiltà?... Civiltà è qualcosa di più che energia, volontà e capacità creative; è qualcosa che gli antichi normanni non avevano ma che, già a quell'epoca, cominciava a riapparire nell'Europa occidentale. Come posso definirla? Be', assai sommariamente, un senso di permanenza. I nomadi e gli invasori vivevano in uno stato permanentemente fluido. Non sentivano il bisogno di guardare oltre il prossimo marzo, il prossimo viaggio o la prossima battaglia. Per questo non gli venne mai in mente di costruire case di pietra o di scrivere libri.»2.
Questo tipo di opinione è il più lampante esempio di pregiudizio contro quella che è la cultura vichinga. L'opinione di Lord Clark più o meno ricalca quella del grande storico danese Johannes Brønsted, che così conclude il suo saggio intitolato I Vichinghi: «Quando finalmente l'età vichinga volse al termine, i Vichinghi avevano ricevuto dall'Europa più di quanto non avessero dato; il nord che essi lasciarono ai loro discendenti, per quanto animato da influenze europee, non si era indebolito, ma era cambiato giacché era entrato in una nuova civiltà.»3. Tuttavia quando Brønsted parla di «nuova civiltà» crediamo presupponga che già quella dei vichinghi fosse una civiltà, seppur magari più acerba di quella in cui essi stessi poi confluirono. Come Crichton, anche noi pensiamo che stabilire se i vichinghi abbiano prodotto soltanto una cultura oppure una civiltà sia una mera questione di semantica – neanche delle più rilevanti. Quel che importa è che questi giganti tatuati – così come ce li descrive Ibn Fadlan – nascondevano dietro la loro smania d'avventura, di battaglie e di imprese sempre nuove, anche numerose abilità: i loro agili scafi di frassino – che guadagnarono loro il soprannome di ascomanni, letteralmente “uomini dei frassini” – sui quali erano scolpiti i volti di draghi che servivano a proteggere l'equipaggio dagli spiriti maligni e che denotavano la loro perizia marinara; inoltre, essi erano anche degli esperti fabbri e conoscevano per filo e per segno i segreti della metallurgia; poi ancora, la loro sublime poesia4 e prosa scaldica – ci hanno consegnato autentici capolavori della letteratura universale; infine, che dire del codice etico Hávamál, che non ha nulla a che invidiare a codici orientali quale, ad esempio, l'HagakureCodice segreto dei samurai – del monaco buddista Yamamoto Tsunetomo. Che importanza ha poi se opere come l'Hávamál peccano di fatalismo? C'è un fatalismo che ancora oggi è duro a morire. Che la nostra vita sia un bene di cui non disponiamo, ma di cui bensì siamo disposti, chiunque ne sa qualcosa. È lecito pensare che l'etica vichinga sia la vetta massima raggiunta da questi rozzi guerrieri con un indistruttibile senso dell'onore, dell'amicizia e del buon morire – quindi anche del buon vivere, dato che Morte e Vita sono elementi della stessa sostanza omogenea.
Il prepotente ingresso dei vichinghi, nelle pagine dei manuali di storia europea, è segnato da quella che è la loro prima scorreria piratesca di cui ci è giunta memoria, ossia l'assalto dell'8 giungo 793 a Lindisfarne, nei pressi della costa del Northumberland. Qui essi sbarcarono e come dei demoni venuti da oltremare – non a caso gli arabi erano soliti chiamarli madjus, cioè stregoni pagani – si portarono dietro l'inferno e dietro di loro lasciarono solo terra bruciata. I vichinghi, infatti, passarono a fil di spada molti monaci inermi, scassinarono i tesori locali che subito vennero stivati nei loro fulminei scafi e rapirono donne – da quegli insaziabili esseri sensuali qual erano. I monaci sopravvissuti tramandarono nelle loro memorie l'orrore e la brutalità di quegli uomini pugnaci. Una cosa va però specificata: scorrerie come queste sono state episodi fugaci dovuti all'iniziativa isolata di qualche intrepido capitano di ventura, capofamiglia o capotribù.
Gli storici sono propensi a rintracciare due motivi principali per questa entrata in scena prepotente dei vichinghi. Il primo motivo è da ricercarsi nella poligamia. Tesi questa sostenuta per la prima volta da Dudone di San Quintino (morto nel 1043) e successivamente avvalorata da Adamo di Brema, che definisce i vichinghi in materia di donne «viziosi come gli slavi, i parti e i mori»5. Di certo i costumi sessuali lussuriosi di costoro, come naturale conseguenza dei loro sfrenati eccessi, doveva produrre una numerosa figliolanza. E così fu, almeno in parte. Molti di questi “frutti della lussuria” ad un certo punto della loro vita venivano esplicitamente messi alla porta di casa dai loro stessi padri, che li invitavano ad andarsi a procacciare miglior fortuna altrove. Dunque, in un contesto simile, ci sembra piuttosto ovvio come l'indole di questi giovani potesse venire temprata dalla fame di avventure e di conquiste memorabili, vista l'aridità e la ristrettezza del suolo natio. Il secondo motivo della loro comparsa fu appunto la volontà di espansione, dovuta in larga misura a ragioni di natura prettamente geografica. Addirittura taluni hanno intravisto in questa loro sete illimitata di conquiste territoriali, una motivazione ulteriore di tipo climatico. Tuttavia molti dati in nostro possesso ci fanno propendere per un misurato scetticismo riguardo questo eventuale terzo motivo.
Solitamente per popolazioni vichinghe s'intendono: i danesi, i norvegesi e gli svedesi. Ciascuno di questi popoli tardò a trovare una struttura socio-politica unitaria e anche quando la trovò si trattò di una costruzione piuttosto fragile. Vi era una sostanziale divisione in classi laddove spiccava il re come primus inter pares6, primo fra pari. Poche altre società si sono forgiate, come quella vichinga, sull'altissimo e nobilissimo valore dell'amicizia, oggi troppo spesso trascurato. Mai come per un vichingo: trovare un amico significava trovare un tesoro. L'amicizia era il cemento con cui venivano rinsaldati i loro rapporti umani. A tal proposito, così recita un passo molto bello dell'Hávamál: «Ero giovane, molto tempo fa; camminavo solo e smarrii la via, ma trovai la ricchezza in un compagno. Nell'uomo è la gioia dell'uomo.»7. In definitiva, le classi erano pressoché tre: i conti, ovvero la classe più abbiente, disponevano di una propria flotta e potevano organizzare – al pari del re – lunghe campagne militari lontano dalla madrepatria; i contadini, i quali godevano della massima libertà e dignità, vivevano di ciò che producevano e le loro donne, così come quelle dei conti, erano anch'esse ben trattate e rispettate da tutti; infine, vi erano gli schiavi che venivano spesso fustigati in pubblico8 e totalmente disprezzati, come d'altronde avveniva in un po' tutte le società dell'epoca.
I danesi e i norvegesi, che disponevano di territori decisamente poveri, furono i più avventurosi – costretti evidentemente dalle condizioni contingenti. Approssimativamente i danesi conquistarono e mantennero l'egemonia, seppur a fasi alterne, di tutta la zona comprendente l'attuale Inghilterra. Essi, inoltre, non rinunciarono a terrorizzare diverse località della costa della Normandia. I norvegesi, invece, proliferarono in Scozia e Irlanda. Essi, poi, colonizzarono terre ostili quali l'Islanda e la Groenlandia e, in particolare, si servirono di quest'ultima come trampolino di lancio per spingersi fino al Labrador e a Terranova. A quanto risulta, i primi scopritori delle inesplorate coste americane furono proprio i norvegesi; alcuni di essi, smarrendo la rotta, approdarono poco prima dell'anno mille nel continente nordamericano. Da qui si originarono le leggende sulla scoperta del Vinland o “terra del vino”, per la presenza potenzialmente sterminata di vigneti. Per quel che concerne altresì gli svedesi, essi si espansero ad est e, seguendo il corso del Volga, giunsero fino a Bisanzio. Una curiosità a riguardo è la presenza di un corpo di guardia, formato esclusivamente da formidabili guerrieri detti variaghi – inizialmente questo termine designava i mercanti –, al soldo dell'imperatore bizantino. La presenza svedese in Grecia è oltretutto testimoniata dalle iscrizioni runiche, ormai cancellate dalle intemperie, presenti sul grande leone marmoreo ritrovato nel Pireo, che oggi è conservato a Venezia. Inoltre, il nome dell'attuale Russia lo dobbiamo proprio ad una tribù svedese: i «Rus».
L'epopea vichinga si snoda in ben tre secoli: IX, X e XI secolo (dopo Cristo). Durante questo periodo essi raccolsero più di quanto non seminarono, contaminandosi con altre società senza dubbio più evolute. Malgrado le quisquilie sul fatto che i vichinghi abbiano saputo produrre o meno una civiltà, di sicuro la loro presenza nella memoria collettiva europea è pressoché indiscutibile. Il loro apporto, di qualsiasi entità si sia trattato, v'è sicuramente stato. Tanto che almeno un tassello di quell'intricato mosaico qual è l'identità europea, lo dobbiamo senz'altro ai vichinghi. Senza di loro l'Europa non sarebbe mai stata ciò che è ora e, quel che più conta, mancherebbe di uno dei suoi tasselli costitutivi.

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1Brague, R., Il futuro dell'Occidente, Rusconi, Milano, 1998.
2Mangiatori di morte, cit. p. 11.
3I Vichinghi, cit. p. 321.
4Uso appositamente il termine “sublime” per descrivere particolari composizioni come l'Edda di Snorri Sturluson, il cui lirismo è tutto proteso a cantare gesta eroiche in un linguaggio davvero forbito ed emozionante. Vedi espressioni quali: l’«ape feritrice» (la freccia), «la tana del drago» (l’oro), la «terra dei falchi» (il braccio, dato che regge il falcone da caccia), «l’uccello chigliato» o «l’alce del fiordo» (la nave) e per finire «l’idromele di Odino» (la poesia).
5Pörtner, R., L'epopea dei vichinghi, Garzanti, Milano, 1972, cit. p. 18.
6Tuttavia solo in linea teorica si trattava di una società paritaria. Infatti difficilmente una famiglia ricca godeva dello stesso trattamento giuridico di una famiglia meno abbiente. Addirittura nei thing o assemblee locali, dove ci si riuniva per prendere le decisioni più importanti, spesso finiva che la famiglia più povera dovesse pagare pegno a quella più ricca, anche nel caso in cui uno dei suoi componenti aveva subito un torto da uno dei componenti dell'altra famiglia. In definitiva, l'uguaglianza delle società vichinghe era ben lontana dall'utopica égalité: entrata a far parte del vocabolario collettivo soltanto dalla Rivoluzione francese in poi.
7I Vichinghi, cit. p. 250. Questo passo testimonia come popolazioni considerate “barbare”, come quelle vichinghe, fossero tutto il contrario di quel che si dice. Crediamo sia difficile trovare una così vibrante dimostrazione di umanesimo, inteso come ricerca della propria ricchezza nel diverso da sé, che vuol dire esattamente specchiarsi negli occhi dell'altro e riconoscervi un'unica grande persona umana...
8Tanto era radicato il senso dell'onore tra gli uomini liberi, che essi preferivano pagare i loro sgarri con la morte piuttosto che con la frusta, per non doversi sottoporre allo stesso trattamento riservato agli schiavi.

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