2.9.06

Filosofia teoretica. Riflessioni su alcune tematiche heideggeriane

di Marco Apolloni

L’essere – per Heidegger – non è semplice-presenza, bensì è puro accadimento e come tale necessita di venire ri-fondato continuamente. La sua condizione reale è la “transitorietà escatologica”, e cioè: ciascun essere nasce, si evolve e poi muore. L’opera d’arte deve riposare in se stessa e dischiudere un intero mondo dandoci le “direttrici essenziali” tratteggianti un “popolo storico”, nonché la totalità e la complessità dei rapporti. In essa vi è connessa implicitamente un’idea di opacità e di materialità che ne costituisce un vero e proprio Tempio. L’opera oltre ad auto-chiudersi si auto-ritrae. Il disvelamento è il chiudersi e il dischiudersi della verità. Questa terrestrità o fusìs si manifesta con il venire ad essere della materia increata. Da un’opera può emergere l’intera cultura di un popolo storico e siccome la storia viene ri-scritta ad immagine e somiglianza dei popoli vincitori, così anche la cultura dipende esclusivamente dal popolo egemone (riferimento alle Tesi sulla Storia di Benjamin). La volontà è indice di una stretta appartenenza dell’uomo alla Terra. “Pieno di merito, ma poeticamente abita / l’uomo su questa Terra” (Holderlin). L’artista non è il genio creatore. Egli non crea ex nihilo, ossia dal nulla, bensì crea attraverso la sua “legalità implicita” alla Terra: interpretandone le esigenze più viscerali e cogliendo così l’appello lamentoso del Mondo ch’è aprimento-svelamento; la Terra, invece, è chiudimento-velamento. Le grandi opere d’arte hanno il merito di manifestare quelle che sono le grandi peculiarità della Terra. Gli antichi greci avevano un’idea dell’arte intesa come techne, totalmente diversa da quella che è oggi la nostra idea al riguardo. Essi distinguevano un’arte bella, quale quella dell’artista, da un’arte utile, quale quella dell’artigiano.

Per interrogare l’opera d’arte occorre, appunto, lasciarla riposare in se stessa. L’opera è “tensione alla verità” e, quindi, va pensata come sorta di conflitto insanabile tra Terra-Mondo. Essa è allo stesso tempo: terrestrità, oscurità, implicitezza. Questi elementi contrastano con l’artefice dell’opera d’arte, il cui proponimento è quello altresì di svelare. Proprio questo rapporto contrastante tra gli elementi terrestri e l’artefice porta al compimento dell’opera stessa e al suo successivo dischiudersi. La verità tende a ritrarsi (auto-chiudersi) come misura protettiva. Essa va intesa come alétheia, ossia “svelatezza” derivante da un nascondimento originario. L’evento di verità è decisivo nell’opera d’arte. Il punto di vista dell’oggettività è: “C’è un mondo fuori di noi!” Dicesi “realismo aristotelico”. I sostenitori di questa posizione affermano che senza l’accettazione di tale presupposto la conoscenza non sarebbe altro che mero specchiamento. La posizione opposta è: “C’è un mondo dentro noi!” Dicesi stavolta “soggettivismo platonico”. Coloro i quali, diversamente, sostengono questa tesi si fondano sul punto di vista della soggettività: è il soggetto che pone il mondo e non viceversa. Heidegger è convinto che la Metafisica si sia originata con Platone e si sia conclusa con la sentenza di Nietzsche “Dio è morto!” Egli, inoltre, su Nietzsche ha una posizione nettamente ambigua, e cioè: da un lato gli riconosce di essere quello che ha decretato la fine della Metafisica; dall’altro, però, quello di essere stato però quello che l’ha compiuta definitivamente! La posizione di Heidegger, invece, nei confronti della Metafisica è quella di far sì ch’essa tralasci una volta per tutte il soggetto e ritorni ad appellarsi agli dèi come avveniva già nell’antica Grecia prima dell’avvento di Platone; oppure volendo, per usare altri termini, che ripensi il concetto stesso di Dio. Al Dio, la Metafisica soggettivistica ha sostituito un volere che non vuole altro che se stesso. Qui il Dio non va inteso tanto in senso teologico quanto come ultima istanza del Sacro inteso come alterità - del resto Nietzsche stesso ha sconfessato il Cristianesimo ne L’Anticristo. Il pensiero heideggeriano può dirsi, dunque, panteista e in ciò trae spunto dal sentimento holderliniano di sentirsi, al pari di Empedocle, “Uno col Tutto!”

Per capire la sua concezione, in un certo senso, “mistica” della verità, l’immagine forse ben più adatta e di gran lunga ben più evocativa è quella del bosco fitto di “segni” apparentemente indecifrabili, ma in realtà per i quali basterebbe quel flebile e fugace scintillio per far sì ch’essi vengano decifrati, magari nel bel mezzo d’una radura suscitandoci così una “folgorazione istantanea”, ch’è la chiave per comprendere il Tutto! Comprensione questa che può anche rivelarsi inaudita e scioccante. Taluni, infatti, potrebbero venirne completamente annientati. Basti ricordare il “caso umano” di Holderlin, il quale finì i propri giorni rinchiuso in una Torre (dove vi era rimasto per la bellezza di trent’anni), in preda alla propria schizofrenia degenerativa. Questi venne ribattezzato da Heidegger come “poeta in un’epoca d’indigenza” dove s’aspettava il ritorno degli dèi fuggiti. Dunque è lecito dire che l’opera d’arte costituisce un autentico “evento di verità”. Compito dei Salvaguardanti è quello d’interrogare l’opera per far sì che l’evento si realizzi! In particolare è nel “linguaggio poetico” che tale evento vede realizzata la propria originaria vocazione. Non a caso l’ultimo (auratico, oscuro) Heidegger crederà nel potere “reificante” della Parola e scriverà, appunto, un saggio molto emblematico intitolato In cammino verso il linguaggio

La verità non è il mero prodotto del pensiero umano. Noi ci siamo già dentro ad essa e la viviamo nel nostro quotidiano! Allo stesso modo noi non possederemo mai e poi mai il linguaggio che ci è invece “donato” dall’alto. Al contrario noi siamo posseduti dal linguaggio stesso che parla attraverso noi. Il poeta è il tramite fra gli uomini e le divinità. Il suo compito è quello d’interpretare i “cenni” premonitori inviatigli dagli dèi. La sua poesia non è altro che un appello al Sacro. In Heidegger così crolla definitivamente la concezione del poeta-vate: “creatore di mondi”. Qui il poeta, pur svolgendo il ruolo di “medium”, non crea nulla e rimane unicamente creatura fra le creature, a cui è dato tuttavia il ruolo principale d’interprete, come già detto. Il linguaggio può, però, anche venire male interpretato e dare così origine a delle illusioni, come ad esempio che le cose siano semplici-presenze. Mentre esso è unicamente “nascondimento del nascondimento”, per così dire. Per questo si può parlare, per certi aspetti, di una concezione heideggeriana della verità anti-democratica in quanto posseduta solo da pochi (i poeti-filosofi)! L’opera d’arte si “storicizza”, cioè si fissa intrappolando pertanto la molteplicità e caducità dell’esistente. Essa si compone eminentemente di materia preesistente e non è, altresì, formata da qualche cosa di estraneo alla materia stessa. O meglio ancora: l’opera d’arte è fatta dentro ciò ch’è fatto! La sua forma sarà sempre debitrice della fusìs (terrestrità). Per finire: l’opera d’arte è “polisemica” (Kant), ossia è una fonte inesauribile: ognuno ci trova niente più di quel che ha già dentro di sé! In definitiva essa non possiede alcun significato univoco. Difatti qualunque interpretazione se ne potrà mai trarre, questa non l’esaurirà mai del tutto. Proprio per questo essa riuscirà ad aprire orizzonti inesplorati di senso, che non si potranno minimamente comprendere servendosi delle categorie pregresse di pensiero…

1 commento:

Anonimo ha detto...

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