8.9.06

"Basilide – la filosofia del Dio Inesistente", G. Biondi

di Marco Apolloni

“Non è vero che lo gnostico non creda in Dio, è vero che non crede nel mondo” G. Biondi (p. 271).

La crisi della modernità è ormai giunta al suo culmine, episodi come il crollo del muro di Berlino e l’attacco terroristico alle Due Torri, sono “segni dei tempi” molto significativi e potrebbero venire associati a certe derive di un pensiero sempre più “debole”, che hanno portato alle congetture di alcuni studiosi sulla fine sia della storia che della filosofia stessa. Al punto dove siamo arrivati ora, il successo, o meglio l’accumulo di capitale, è diventato l’unico metro di paragone per giustificare la bontà intrinseca della propria vita terrena e di riflesso anche quella, verosimilmente, ultraterrena. I segnali dell’odierna “deriva nichilista”, già molto prima di Nietzsche, ci furono inviati da autori come Sade e Balzac, che precorsero i tempi e in particolare il primo dei due, il cui ateismo viscerale fa letteralmente impallidire e sembrare fin troppo tenui certe accuse nietzschiane al cristianesimo secolarizzato e mistificato dall’apostolo Paolo. Secondo il “divin marchese”, infatti, della religione andrebbe conservata soltanto la bestemmia utile per raggiungere l’estasi sessuale…
Sin dal suo soppiantamento dell’Impero Romano d’Occidente, la religione cristiana si è prefigurata come sua diretta discendente – come giustamente ci ha fatto notare Dostoevskij. Estrapolando concetti rispettivamente platonici e aristotelici, quali di “bene trascendente” e di “atto puro”, il cristianesimo ha fondato una sua filosofia appunto detta “cristiana”. Difatti si pensi a tale significativa coincidenza, ossia non solo la religione cristiana subordinò la ragione alla rivelazione, ma anche il platonismo e il pitagorismo stessi. In questa dettagliata ricerca viene ricostruita mirabilmente la storia del concetto di Nous neoplatonico e neopitagorico, inteso meramente come Intelletto, poi sfociato nel Logos cristiano. Secondo l’allegoria basilidiana, il Cristo “celeste” è Intelletto stesso, che va discinto dal Gesù “terreno” sceso su di lui sotto forma di una colomba in occorrenza del battesimo sulle acque del Giordano. Secondo l’autore alessandrino, inoltre, questi non sarebbe mai morto sulla croce, bensì si sarebbe fatto “beffa” dei suoi carnefici e il suo involucro corporale, peraltro, sarebbe stato soggetto ad un cambio di “sembiante”, ovvero sostituito da Simone di Cirene. Per questo la complessa teologia basilidiana venne propriamente chiamata “docetica”. Cristo, dunque, secondo Basilide è sì della stessa ousia, o sostanza, del Padre ed inoltre è ad esso coesistente. Il suo ruolo è propriamente quello d’Intelletto intermediario e di “tramite” tra il Dio innominabile di cui è figlio e parte della sua filiazione intellettiva intrappolata nel mondo della materia, governato da un ottuso e ostacolante dio-arconte. Inoltre è il custode della verità ermetica, ch’è velamento e svelamento heideggeriano. Tale verità ermetica la si può cogliere soltanto mediante la propria facoltà intuitiva, dunque aveva visto giusto Heidegger a riconoscere il valore astronomico delle intuizioni dei poeti capaci di decifrare i “segni degli dèi”! Cristo, in effetti, è una sorta di Ermes, messaggero-nunzio del volere imperscrutabile del Padre suo e il suo tempo della venuta è quello paolino dell’unica volta, a differenza di quello dell’eterno ritorno nietzscheano. Il suo compito è quello di disseminare delle pillole di saggezza risveglianti il nostro sopito “demone interiore” – di cui il primo a parlarcene è stato lo stesso Platone per bocca di Socrate – e illuminanti la nostra umana condizione di elevatezza e quindi la nostra appartenenza ad un mondo ipercosmico…
Mentre a proposito del Dio Inesistente qui viene affermato: “Se Dio è davvero trascendente, allora trascende anche ogni nome e definizione” (p. 292). La tesi di questo libro, riprendendo e ampliando una certa concezione paolina, cerca di riporre maggiormente l’accento sullo spesso dimenticato concetto-chiave di “amore”, intendendo con esso quella forza trainante dell’agire umano, che oltrepassa di gran lunga persino la fede trasportatrice di montagne. Infine, però, la più scottante assunzione del libro è che il Vangelo giovanneo – vista la conoscenza esibita dal suo autore di diversi temi gnostici –, ci fa pensare ad un suo inserimento surrettizio nel corpus dei Vangeli canonici e tra l’altro la diversità anche stilistica, oltre a quella contenutistica, che emerge coi tre Vangeli sinottici avvalora tanto più tale verosimile ipotesi. La finalità precipua, in ultima istanza, di tale mistificazione potrebbe essere stata quella di sconfessare talune eresie – fra cui con tutta probabilità anche quella basilidiana –, che avrebbero potuto mettere in serio pericolo la Chiesa dei primordi. L’accuratezza di questa trattazione delucidante un maestro dello gnosticismo tanto oscuro come Basilide, va ancor più apprezzata se si considera il lavoro minuzioso sulle fonti indirette, perlopiù scarse, che trattano le tematiche della dottrina e della scuola basilidiana. Già perché i padri della Chiesa, nonché dell’eresiologia tra cui Giustino, Origene, Ireneo e Ippolito, si occuparono solo in via frammentaria dell’eresia di Basilide, poiché questi nel corso della sua vita non ambì a incarichi ufficiali di episcopato o addirittura di papato (come fecero invece Valentino e Marcione), dunque non minacciò mai concretamente lo strapotere della Chiesa di Roma. In ogni caso tra le dicerie che si sono sparse su questo controverso autore, la più duratura e pungente è senz’altro quella legata all’evocazione di Abrasax – da Abracadra – identificato erroneamente con il diavolo. Mentre, in realtà, dietro al suo nome si cela un cifrario criptico riconducibile al numero 365, pari al numero dei cieli inferiori da lui governati e di cui è “principe sommo” degli angeli, ai quali è affidato e sottoposto ciascun cielo inferiore, originatosi dall’accumulo panspermatico, che ha dato l’avvio alla fondazione primigenia di tutto l’esistente e così anche di quello squallido e degradato “ammasso mondano” ch’è il nostro mondo. La concezione basilidiana della genealogia mondana, cioè di questo mondo, infatti prevede tre distinte fasi: la katabolè, la ghénesis e la ktisis, ovvero la caduta o gettito iniziale del seme, la generazione delle parti filiali e arcontiche e, infine, la plasmazione dei cieli inferiori e della terra; plasmata appunto da un dio-arconte inferiore – quale potrebbe essere il dio ebraico Yaweh –, di cui noi siamo le creature a “immagine e somiglianza”. In definitiva: il dio di questo mondo – secondo questa precisa ottica – è un’impostore!
Il recente restauro del Vangelo perduto del discepolo-traditore (o almeno così è sempre stato dipinto dalla tradizione) Giuda Iscariota, distingue invece due divinità-arcontiche coalizzatesi nella plasmazione di questo mondo, ovvero Yaldaboath – che tra l’altro potrebbe essere ricondotto allo stesso Yaweh – “il dio sanguinario-vendicativo” e Saklas “il dio stolto”. Inoltre un altro elemento sconvolgente apportato da questo Vangelo è la discendenza ultraterrena del Cristo, che secondo l’autore gnostico-sethiano, è appunto discendente diretto di Seth, ossia il terzo figlio di Adamo ed Eva, avuto dopo il “fattaccio” tra Caino ed Abele. In alcune parti del Vangelo, Cristo è capace di “viaggi intergalattici” – per usare un’immagine meglio esplicativa della letteratura fantascientifica – e visita ripetutamente il reame celeste e beato di Barbelo, o della Pura Spiritualità, dal quale lui proviene. La sua venuta su questa terra, sempre secondo la linea interpretativa di questo Vangelo, è servita solo per risvegliare la sopita “scintilla divina” celata nei cuori di alcuni uomini pneumatici e intellettivi appartenenti all’originaria generazione che ha in sé l’ascendenza divina. Giuda in questo preciso disegno soteriologico, cioè salvifico e di liberazione dell’intero genere umano, è colui che squarcia il velo Maya dell’effimero e sacrificando la spoglia corporale del Salvatore, ne sprigiona lo spirito più autentico e lo riconduce nel luogo da dov’era venuto.
Diverse analogie e concordanze esistono, inoltre, con la concezione valentiniana degli eoni e la cosmologia angelica basilidiana. Addirittura, secondo una diffusa e plausibile ipotesi, la scuola alessandrina di Basilide ereditata ad Isidoro, confluì infine nella setta dei valentiniani. Per quest’ultima la caduta accidentale della Sophia, o Sapienza, ha instillato nei cuori di alcuni uomini una possibilità di elevazione-congiunzione (o ascesa, katabasis, ch’è il contrario di discesa, anabasis) con la superiore sfera divina-trascendentale. Dunque il Cristo altro non è stato che un ulteriore eone, venuto a noi per toglierci il velo dagli occhi e renderci partecipi della conoscenza e della Pienezza, o Pleroma, del Padre. Ad ogni modo, nella concezione valentiniana occorre distinguere ulteriormente tre tipologie di uomini: gli ilici, gli psichici e i pneumatici, per cui solo questi ultimi – che designano gli gnostici – possiedono quel barlume conoscitivo e sono in grado di discernere la verità-eclissata dalla menzogna-spacciata-per-vera. La setta valentiniana, tuttavia, disconobbe il numero 365 di Basilide, coincidente con l’angelo sommo Abrasax e che voleva ascrivere ad ogni cielo o entità angelica un nome e un numero, operando così un notevole ridimensionato e fermandosi all’esiguo numero di trenta ipostasi, come ci riferisce l’eresiologo Ippolito. Il neoplatonico Plotino, invece, prese soltanto le prime tre ipostasi basilidiane (la trinità teorizzata da Teofilo: Padre, Figlio e Spirito) e scartò tutte le altre per minor confusione, denunciando le eccessive moltiplicazioni operate dallo gnosticismo in genere e da Basilide in particolare, il quale fu fra tutti gli gnostici il più prolifico nell’assegnamento stesso delle ipostasi. Tale assunzione di Plotino venne a sua volta ripresa dai vari Padri della Chiesa susseguitesi nel corso dei secoli, tutti quanti denuncianti le innumerevoli complicazioni numeriche proprie dello gnosticismo. Un numero d’ipostasi consimile a quello basilidiano forse lo si avrebbe potuto riscontrare soltanto nel mancante Libro di Zoroastro
Rimanendo in tema, il pensiero di Basilide fu quindi in contrasto sì con la patristica che con il platonismo. Da quest’ultimo, sopratutto, si differenziò sostanzialmente nella connotazione negativa del demiurgo o arconte di questa terra, poiché questi – secondo Basilide e gli gnostici – era fin troppo legato alla materia, la quale veniva indicata come elemento costitutivo dell’imperfezione di questo mondo. Un tratto distintivo comune a tutti gli gnostici è che loro “non credono in questo mondo”, come ha avuto occasione di affermare il professor Biondi, e men che meno, dico io, al “dio di questo mondo”! Riportando una citazione del suo libro “la beatitudine consiste nella possibilità di essere liberi dal corpo e di non dover più subire ulteriori incarnazioni in peregrine vite” (p. 254). Qui senz’altro il pensiero basilidiano è debitore del neopitagorismo e dei culti orfici nel concetto di “mentensomatosi”. Inoltre alla maniera dei pitagorici anche Basilide prescisse ai suoi discenti un silenzio quinquennale. Oltretutto, aggiungerei io, il lettore più smaliziato non può non cogliere delle rilevanti analogie con molti culti o religioni orientali, tra cui induismo e buddismo. In particolare quest’ultimo che prevede una serie ininterrotta di reincarnazioni finché non si è pienamente assolti il proprio “debito karmico”: secondo cui tutto quel che di male facciamo ci ricade addosso. Proprio per colpa di tale debito rimaniamo nel samsara – che facendo un paragone con gli gnostici potrebbe essere l’“ammasso mondano”, ovvero questo mondo “di sotto” – e, pertanto, non possiamo raggiungere la condizione ideal-paradisiaca del nirvana, ossia il raggiungimento di una sorta di armonia cosmica o, per dirlo con Aristotele, di entelechia, cioè di comunione fra tutti gli enti…
La cosmogonia basilidiana, per così dire, prevede una germinazione monogenetica, ovvero si svolge attraverso la coppia maschile di Padre e Figlio, dunque viene estromessa in questa fase iniziale la componente femminile. A tal proposito si può affermare che non vi è una vera e propria matrice originaria associata a una genesi (ghénesis), ma diversamente una manifestazione (physis) dal nulla. Dopodiché si originano le due parti di “denso” e “sottile”, corrispondenti rispettivamente al Cristo – perciò già preesistente – e allo Spirito. Dalla terza parte di questa filiazione tripartita, la più imperfetta peraltro, vengono generati gli arconti o divinità inferiori – tra cui si colloca l’arconte plasmatore di questa terra. Essi a loro volta plasmano tutte le altre creature a loro sottomesse e da essi, quindi, ha inizio la vera opera di creazione, o di ktisis. Dopo la caduta o katabolè, il Dio inesistente – che ha scaturito dal nulla tutto l’esistente – provocherà l’apokatastasis finale, ossia la reintegrazione – o riunificazione – della sua filiazione tripartita. Apokatastasis che potrebbe anche intendersi come apocalisse, la cui fine però – secondo Basilide – altro non sarebbe che un ricominciamento, ovvero un ritorno all’origine. Benjamin nelle sue Tesi sulla Storia riporta una frase folgorante di Karl Kraus davvero emblematica: “L’origine è la meta”! Tra l’inizio e la fine di questo progetto soteriologico, si collocano i processi di generazione e di creazione. La chiave di tutto, a quanto pare, è nella nostra semenza. Dunque sembrerebbe essere un discepolo basilidiano il “sommo poeta” Dante Alighieri quando nella XXVI cantica infernale nel discorso di Ulisse ai suoi marinai fa dire a questi: “Fatti non foste a viver come bruti ma per seguire virtude e canoscenza”…
Secondo una certa chiave di lettura gnostica, questa celebre affermazione dantesca, potrebbe così venire interpretata: la “canoscenza”, ovvero la “conoscenza” stessa – in greco gnosi –, è ciò che può fornire la liberazione del nostro genere umano sottomesso a divinità inferiori, a loro volta sottomesse ad altre divinità superiori. Il nostro vantaggio su queste divinità schiave della loro stessa ignoranza è che noi umani siamo fatti di una diversa e migliore stoffa rispetto ad essi, poiché nelle profondità del nostro spirito noi conserviamo una particella infinitesimale di conoscenza, la “scintilla divina” appunto, che se opportunamente rinfocolata ci ricondurrà alla nostra discendenza oltremondana alla quale apparteniamo, e cioè: al regno spirituale di Barbelo. In noi vi è celata una natura adamantina, ovvero noi siamo i diretti discendenti dell’Adamas celeste, che volendo operare una congettura forzata è l’antecessore dello Ubermensch o Superuomo di Nietzsche, che anche in questo caso si rivela per quel ch’è stato, ovvero un gran divulgatore ma che di originale ebbe ben poco…
Per la setta dei Naasseni – in ebraico Nas vuol dire Serpente – il “peccato originale” compiuto da Eva fu un atto sacrosanto, di coraggio e di ribellione ad un dio altresì ingiusto e insensato. Merito della setta naassena è stato quello di risolvere la teologia ebraica in una sorta di antropologia divinizzatrice e fautrice dell’uomo immortale. Per essi Eva restituì l’Intelletto sottratto all’uomo da Yaldaboath o Yaweh, i due nomi del dio inferiore ebraico, e perciò insieme al suo compagno Abramo si mise sulla stessa scia del Salvatore, il quale sarebbe un’erede della stessa genia di Seth - loro terzo figlio. Inoltre essi trovarono il modo d’ingannare la morte, ch’era un retaggio del dio-arconte tiranno di questa terra. A questo proposito si può dire che questi furono i primi ad incamminarsi lungo il sentiero poco battuto dell’immortalità. In questa loro concezione i Naasseni si rifecero a Filone di Alessandria, il quale rifletté sulla differenza che occorreva tra l’uomo celeste e quello terrestre. Esiste una sottile linea di congiunzione infatti tra Adamas, l’uomo-androgino incorrotto e incorporeo – dunque né maschio né femmina, come già tratteggiato nel Simposio platonico –, e il nome cifrato Kaulakau, designante la sfera superiore e celestiale nell’accezione filoniana. Mentre Adamo rappresenta, sempre secondo Filone, l’uomo plasmato e di conseguenza corruttibile di questo mondo inferiore – ch’è un riflesso sbiadito dell’altro mondo superiore –, il cui nome in cifre è Saulasau e comprende appunto: sia l’uomo che il mondo materiale. Infine vi è Zeesar, il cristiano battezzato nelle acque del Giordano, il quale nonostante risieda nel mondo corrompibile, grazie ad un risanamento spirituale ed interiore è in grado di ascendere fino al cielo. Il corpo è per noi un intralcio e a questo proposito giunge propizia la morte, ch’è soltanto una separazione di sostanze, che permette il dischiudersi della nostra anima incommensurabile. La mortificazione del corpo, come ultima vestigia di questo fasullo mondo, è uno dei temi dominanti del pensiero di Basilide. Questo suo aspetto particolare emerge prorompente nella sua concezione dell’amore molto vicina a quella di San Paolo, secondo cui “tutto è permesso”, “ma non tutto edifica”. L’amore, o agape, basilidiano viene identificato in un sentimento puro e genuino, affrancato da qualunque desiderio carnale e concupiscente. Il desiderio è ciò, infatti, che ci vincola di più a questo mondo effimero e illusorio: è il cappio con il quale ci tengono impiccati le divinità arcontiche, quali angeli e potestà. I strumenti di tortura da essi adoperati sono le nostre appendici spiritiche che ci si attaccano “come la ruggine al ferro” fino a corroderci e risucchiarci interamente la nostra anima. Se non ci libereremmo dei nostri impellenti desideri terreni ci comporteremmo “come un pesce che voglia pascolare con le pecore sui monti” – frase questa attribuita da Ippolito allo stesso Basilide. Perciò ecco che quella del “matrimonio” si profila in quest’ottica, come una soluzione più che intelligente – alla maniera dell’apostolo Paolo –, poiché farebbe sì che noi uomini non verremmo presi dall’ossessione per le questioni biecamente carnali e cosicché riusciremmo a concentrarci prevalentemente su quelle altresì spirituali. Il basilidiano Isidoro rafforza la tesi del suo maestro, insistendo molto sulla “facoltà razionale” che dimora in noi e ci rammenta, in proposito, di padroneggiare la “creazione inferiore” che vi è in ognuno. In ultima analisi, possiamo dire che noi tutti siamo “alieni” a questo mondo…
Ritornando ad Abrasax, questi nella concezione basilidiana non era il dio ipercosmico, infatti sopra a lui “principe angelico” dei 365 cieli inferiori – che potrebbero venire detti anche ebdomadi – e delle 45 obdoadi, vi è il Dio Inesistente affiancato dal suo Figlio: Cristo o Intelletto, a seconda di come lo si voglia chiamare. Data la vastità e la complessità prefigurata dalla cosmologia basilidiana ecco che, in un certo senso, le scoperte di nuovi pianeti e nuove forme di vita da parte degli scienziati, non ci apparirebbero poi così pericolose da mettere a repentaglio l’intero apparato del nostro “credo”. Se, infatti, nel più aspro concilio teologico della storia della Chiesa tenutosi a Nicea nel 325 d. C., ove si scontrarono due differenti teologie, ma soprattutto due diverse visioni del mondo, Alessandria avesse avuto la meglio su Roma, probabilmente il cristianesimo che molti di noi oggi professano, sarebbe potuto essere sin da subito in rapporti decisamente meno conflittuali con la scienza stessa. Poiché c’è compatibilità tra gli insegnamenti gnostici, specialmente quelli basilidiani, e ciò che a poco a poco va scoprendo la scienza. Perciò chi scrive vi dice che secondo quest’ottica religiosa gnostica più che plausibile: la scienza a quest’ora sarebbe la migliore alleata della religione cristiana, invece che la sua più acerrima nemica. Tuttavia nel credo cosiddetto “niceano” sopravvissero, seppur velate tra le righe, molte assunzioni proprie dello gnosticismo. Tra tutte, infatti, si ammette la pre-esistenza di Cristo, il quale si afferma venne generato e non creato, dunque si pone maggiormente l’accento sul primo dei due termini e molti padri della Chiesa dovettero, a tal proposito, ammettere la generazione del Cristo a partire dalla Luce della Genesi. Inoltre, per appurare che lo gnosticismo è pervenuto fino a noi oggi, basti pensare a molti culti new age, i quali altro non sono che degli inverosimili miscugli sincretistici. Addirittura, quando sono andato per motivi di studio in Inghilterra, ho visto coi miei stessi occhi a Glastonbury – che viene considerata “la capitale mondiale” di queste nuove ed emergenti religioni –, una setta cristiano-buddista che adorava come suo Budda proprio Gesù Cristo. Oppure mi viene in mente la setta americana Scientology, che consta di una fitta rete capillare di chiese in tutto il mondo e i cui credenti secondo certe statistiche dovrebbero aggirarsi attorno ai settanta o ottanta milioni di unità, la quale non fa altro che rivisitare e rielaborare alcune nozioni già presenti in tutte le eresie condannate dalla Chiesa ufficiale di Roma, tra cui la principale di tutte anche perché la prima in assoluto, ossia lo gnosticismo. L’ideatore-mistificatore di questa influente setta scientologista, non a caso, prima di tramutarsi in profeta è stato uno scrittore di fantascienza. Già la fantascienza… La prossima volta che andate al cinema a vedere un film legato a questo filone, fate più attenzione e noterete la matrice comune “gnostica”, per così dire, del genere fantascientifico…
Mi sono concesso questo breve “excursus” proprio per costatare la grande attualità dello gnosticismo e per ciò stesso anche del pensatore Basilide, in quanto questi fu il padre dell’eresia gnostica-crisitiana, nonché anche il padre misconosciuto di tutta la filosofia cristiana, dato che quello che tutti considerano come il vero originatore dello gnosticismo, ovvero Simon Mago, non può definirsi a tutti gli effetti cristiano, poiché non riconobbe la divinità di Cristo. Tant’è vero che lui stesso si definì come l’incarnazione del Nous, o Intelletto divino, e pure oltretutto in base ad una contorta serie d’ipotesi di reincarnazioni punitive, scovò una certa Elena in un bordello di Tiro, la ripulì per bene e la fece passare per l’incarnazione stessa della ben più famigerata Elena di Troia, simboleggiante l'Intelligenza, o Ennoia. Tuttavia la storia, tribunale inappellabile degli accadimenti dell’umanità, ci ha impedito la conoscenza autentica e di prima mano del pensiero di Basilide. E come giustamente affermò Walter Benjamin nelle sue famose Tesi: la storia viene fatta dai vincitori e quindi c’è poca speranza che le figure dei grandi perdenti, ci vengano riconsegnate in tutta la loro squisita integrità, così come sono state realmente. Comunque, grazie a studiosi-interpreti raffinati come Graziano Biondi e alle loro amorevoli filtrazioni, delle nozioni cruciali del pensiero basilidiano ci sono state finalmente riconsegnate, cosicché la posterità possa meglio giudicare le proprie origini, le proprie radici ma, soprattutto, la propria storia poiché, parafrasando una celebre affermazione di Carlos Santayana: “Chi dimentica la storia è spesso condannato a ripeterla”... Per finire, uno degli insegnamenti che ho potuto ricavare - venendo a conoscenza del pensiero di Basilide - è il seguente: un Dio Inesistente si è fatto “beffe” di noi, lasciando che un dio-imperfetto plasmasse il nostro mondo altrettanto imperfetto, però ha insufflato in ciascuno di noi una flebile fiammella, grazie alla quale possiamo avere una possibilità di auto-salvazione, sviluppando l’Intelletto liberatore celato in ognuno di noi…

La conoscenza è salvezza!

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Veramente un bel lavoro! A mio modesto parere merita di essere preso in considerazione!

Anonimo ha detto...

grazie,è molto interessante e stimolante