di
Marco Apolloni Il bel romanzo storico di Micheal Crichton,
Mangiatori di morte, si aggiunge alla schiera di quei veri e propri “casi letterari”, come
Le poesie di Ossian di Macpherson e
Il Necronomicon di H.P. Lovecraft, le cui fonti sono state dagli autori stessi volutamente occultate o comunque mistificate. La storia si basa su un manoscritto, che esiste davvero e che peraltro è molto citato fra gli storici, del dignitario arabo Ibn Fadlan. Questi ci fornisce una prima dettagliata descrizione degli usi e dei costumi dei vichinghi, da quel fine osservatore e antropologo quale fu. Di questo manoscritto Crichton trascrive, parafrasandoli, alcuni punti tra cui ciò che concerne: i costumi dei normanni – letteralmente: “uomini del nord” – e i loro usi funerari. Esemplare è la descrizione che lui ci dà del funerale di un grande capo normanno. Di essi lui dice: sono alti come palme, tanto da parere dei giganti; indossano abiti di panno ruvido buttati dietro ad una spalla in maniera tale da lasciare libera una mano; sono muniti ciascuno di una scure, di un pugnale e di una spada – persino le donne sono armate di pugnale; le loro spade sono di fabbricazione franca, nonostante gli stessi scandinavi non disdegnassero fabbricare in proprio delle buone armi e fossero dei fini conoscitori dei segreti della metallurgia; avevano tatuaggi sul collo raffiguranti alberi, animali o altri esseri viventi.
Su Ibn Fadlan le notizie storiche sono perlopiù incerte e frammentarie. Di lui si sa che partì da Baghdad – allora “città della pace” – il giorno giovedì 11 safar dell'anno 309 secondo il calendario arabo (corrispondente al 21 giugno 921 in quello cristiano), insieme ad un'affollata carovana di persone. Il Califfo al-Muqtadir lo aveva incaricato di andare a diffondere l'islam presso la corte del re dei Bulgari, dal quale non giunse mai. Il motivo di questa missione nel romanzo viene spiegato con una “marachella” da libertino impenitente commessa da Ibn Fadlan, che ha giaciuto con la bella moglie di un vecchio mercante. Quest'ultimo, sospettoso, si era rivolto al Califfo per chiedere giustizia, che in privato si fece una risata ma in pubblico dovette accontentare il vecchio e perciò esiliare momentaneamente Ibn Fadlan. Dopo mille peripezie la carovana del diplomatico arabo si accampò sulle rive del Volga, dove venne a stretto contatto con una tribù di mercanti-guerrieri vichinghi. Il termine con cui lui chiama questa popolazione scandinava è «Rus». Da qui ha inizio la storia romanzata: l'incontro con l'impavido Buliwyf e i suoi valorosi dodici guerrieri, il suo luogotente Ecthgow e il fido combattente Herger – che nel corso della narrazione sarà l'unico interlocutore diretto dell'arabo, dato che è l'unico normanno a conoscere alcuni vocaboli latini.
La descrizione complessiva del romanzo è fedele al manoscritto originale pervenutoci nella traduzione di Per Fraus-Dolus, conservata presso gli Archivi della biblioteca dell'Università di Oslo, Norvegia. Ibn Fadlan rimane subito inorridito dalla sporcizia di questi giganteschi infedeli, che defecano senza pulirsi, fornicano davanti a tutti, si lavano la faccia e si soffiano il naso in una bacinella che viene puntualmente riutilizzata e fatta girare da tutti. La morte del loro capo Wyglif innesca una contesa per il comando tra Buliwyf stesso e un omone di nome Thorkel. Il rituale della sepoltura di Wyglif viene descritto minuziosamente: una nave viene tirata a secco, il defunto viene riccamente rivestito, numerosi oggetti di valore – che si pensano possano servire nell'aldilà – gli vengono posti accanto, animali vengono fatti a pezzi – un cavallo, due buoi, un gallo e una gallina – e, cosa più sconvolgente, una schiava si offre di accompagnare il padrone nel suo ultimo viaggio. Sotto gli occhi increduli di Ibn Fadlan, la ragazza prescelta, in uno stato pressoché totale di trance, passa da una tenda all'altra degli uomini di Wyglif, che la possiedono carnalmente per onorare la memoria del loro capo. Infatti ognuno di essi prega la ragazza di riportare testuali parole: «Dì al tuo padrone che ho fatto questo solo per amor suo.». Dopodiché alla ragazza viene data una gallina a cui essa distrattamente trancia di netto la testa e nella sua lingua si lascia andare ad una nenia rituale. L'arabo incuriosito chiede e ottiene di farsi tradurre quanto dice la ragazza. Questo è quel che gli riferisce l'interprete: «La prima volta ha detto: “Oh, vedo mio padre e mia madre”; la seconda volta: “Oh, ora vedo seduti tutti i miei parenti defunti”; la terza volta: “Oh, ecco il mio padrone, seduto in paradiso. Il paradiso è così bello, così verde. Ci sono con lui i suoi uomini e i suoi ragazzi. Mi sta chiamando. Portatemi da lui.”». Dopo quest'ultima preghiera la ragazza viene affidata ad una vecchia strega – detta appropriatamente “angelo della morte” –, che la introduce nella cabina della nave dov'è adagiato il corpo del defunto e le squarcia il costato, mentre allo stesso tempo alcuni uomini tirano una corda per strangolarla – questo serve per darle una morte immediata. Intanto per soffocare le grida della poveretta vi è un rullo assordante di tamburi, in modo tale che le altre giovani non si spaventino troppo e che quando occorra non si tirino indietro nel sacrificarsi per i loro padroni. In ultimo la nave coi corpi dei due defunti viene incendiata e presto le fiamme guizzano favillanti. Particolarmente rivelante è l'altarino che vede protagonista un normanno e l'arabo: il primo definisce gli arabi degli stupidi perché seppelliscono i loro defunti, facendoli divorare dai vermi, mentre loro sono soliti bruciarli per farli giungere prima in paradiso.
Dopo il funerale del gran capo, un sinistro messaggero – Wulfgar, figlio di un grande re del nord, Rothgar – compare per chiedere l'aiuto del nobile Buliwyf, dato che la sua terra è minacciata da un pericolo innominabile che discende con la bruma. I normanni si rivolgono alla strega con funzioni di veggente – la stessa che aveva sacrificato la schiava di Wyglif. Questa ordina a Buliwyf di formare una compagnia di tredici uomini, di cui uno straniero, per soccorrere re Rothgar. La scelta del tredicesimo guerriero cade dunque su Ibn Fadlan, che, messo nelle condizioni di non poter rifiutare, salpa il giorno seguente verso le terre del nord. Durante il viaggio l'arabo stringe amicizia con l'allegro normanno Herger. Tra i due vi sono ricorrenti scambi di battute, rigorosamente in latino – in particolare è curioso vedere la netta contrapposizione tra la religione politeista di Herger e quella invece monoteista di Ibn Fadlan. Se il primo invoca di frequente i suoi numi tutelari, il secondo non può fare a meno d'invocare Allah: «il Compassionevole, il Misericordioso». Molto belle sono le pagine finali dove la contrapposizione religiosa tra i due si smussa e diventa secondaria o, ad ogni modo, di scarsa rilevanza. Tant'è che il pragmatico Herger dice al suo amico arabo in procinto d'imbarcarsi verso la sua terra: «Forse dalle vostre parti è sufficiente un solo Dio, ma qui no; qui ci sono molti dèi e ognuno ha la sua importanza e noi quindi li pregheremo tutti per il tuo bene.». Questa frase riconciliatoria dovrebbe servire da esempio per far sì che si renda possibile una pacifica convivenza fra le diverse religioni. Il rispetto dell'altro, inteso come il diverso da sé, è il più grande insegnamento che possiamo ricavarne...
Durante la traversata in mare, per raggiungere il regno di Rothgar, l'arabo rimane esterrefatto nel vedersi davanti quello che lui chiama «mostro marino», ma che in realtà è una balena, rivelando così un'insospettata vena superstiziosa. Giunti alla corte di re Rothgar nella terra di Venden, la situazione che i nostri eroi si trovano a dover fronteggiare non è tra le migliori. Il re è vecchio e stanco, e il suo regno si sta lentamente sbriciolando ai suoi piedi. Una minaccia esterna, rappresentata dai «wendol», «wendlon» o «mangiatori di morte», continua a falcidiare vittime innocenti, non appena cala la bruma e «il drago di fuoco» scende giù dalla collina. Come se non bastasse una non meno insidiosa minaccia interna, costituita dall'infido figlio del re, il principe Wiglif – già uccisore di alcuni suoi fratelli, nonché scomodi contendenti al trono paterno –, si sta approfittando del caos generale per seminare discordia fra i conti.
Buliwyf e i suoi guerrieri credono che re Rothgar sia un vanitoso, che ha osato sfidare la collera degli dèi, posizionando la sala luccicante del trono in cima ad una scarpata – protetta sì dagli attacchi che provengono dal mare, ma totalmente indifesa da quelli provenienti da terra – e che per questo debba essere debitamente punito. Tuttavia la loro missione di soccorso è comprensibilmente spiegata dalla loro sete insaziabile di volersi lasciare dietro degna memoria. Come recita un celebre passo degli
Hávamál, detti anche
Le sentenze del Sublime – che altri non può essere che Odino, sommo re degli dèi nordici, nonché nume tutelare dei guerrieri suoi prediletti: «Gli animali muoiono, i parenti muoiono, io stesso morrò. Ma c'è una cosa che so che non morrà mai: la fama che lasciamo dietro a noi quando moriamo».
Lo stesso Ibn Fadlan rimane letteralmente catturato dall'eroismo insito nei suoi compagni di lotta normanni, che riescono a trasmettere in lui – combattente dell'ultima ora – quel gusto sadico e quasi masochistico della pugna, nel bel mezzo della quale si commisura l'effettivo valore di un uomo. Nel coraggio dimostrato di fronte all'estremo pericolo, che troviamo molto presente sia tra gli arabi che tra gli scandinavi, vi è un pressoché indubitabile anello di congiunzione tra queste due diversissime culture. L'evoluzione del personaggio di Ibn Fadlan ci sembra alquanto emblematica: da un iniziale rigetto per lo stile di vita vichingo, lui passa ad una vera e propria adozione di molti aspetti di esso. L'arabo pian piano nutrirà una sempre maggiore venerazione per il grande condottiero Buliwyf. Questi peraltro, seppur diffidente all'inizio, con il passare del tempo arriverà a considerare l'arabo sullo stesso piano dei suoi compagni normanni. Addirittura in un commovente dialogo – dopo che un nano, «tengol», gli predice la vittoria sui wendol in cambio però del suo estremo sacrificio – Buliwyf si lascia talmente andare con Ibn Fadlan, pregandolo di uscire vivo dall'imminente battaglia finale, in quanto possiede il dono di saper disegnare i suoni e quindi un giorno avrebbe potuto raccontare le loro gesta eroiche. Singolare è il modo in cui l'arabo si comporta da autentico normanno tentando di rassicurare Buliwyf dicendogli: «Non credere a una profezia finché non ha dato frutti.». Con ciò, infatti, egli non fa che riprendere un famoso proverbio vichingo contenuto negli
Hávamál, ovvero: «Non dir bene del giorno finché non è venuta sera; di una donna finché non è stata bruciata; di una spada finché non è stata provata; di una ragazza finché non si è sposata; del ghiaccio finché non è stato attraversato; della birra finché non è stata bevuta». Questa visione cinica e disincantata della vita da parte dei vichinghi, basatasi prevalentemente su una prudenza smisurata – ben comprensibile vista anche l'esistenza precaria e continuamente sul filo del rasoio da essi condotta –, trova un corrispondente in una storiella sufi – a testimonianza che queste due culture, araba e scandinava, pur essendo diverse non sono giocoforza incompatibili fra di loro.
C'è un discepolo che suppone di mettersi in viaggio e di doversi fermare a fare le abluzioni in un ruscello, sicché chiede al maestro in che direzione deve rivolgere lo sguardo mentre compie il rituale purificatorio e questi così gli risponde: «Nella direzione dei tuoi vestiti, perché non te li rubino.».
Il fatalismo guerriero di Buliwyf accompagna un po' tutti gli eroi delle saghe nordiche: la massima virtù di un guerriero è appunto lo sprezzo del pericolo, inclusa la morte. Un eroe va incontro con fierezza indomabile alla propria sorte, ben consapevole che prima o poi toccherà a tutti assaggiare il suo calice amaro. Per certi versi Buliwyf non può non ricordarci Achille Pelide, che tra una lunga vita senza gloria e una vita invece ricolma della medesima, non esitò minimamente a scegliere la seconda, cadendo con gloria nella rocca di Troia. Specialmente, però, lui ci ricorda Beowulf: nobile e valoroso principe dei Geati, l'uccisore del terrifico mostro Grendel e della sua altrettanto terrifica madre. Come a Buliwyf anche a Beowulf tocca la stessa sorte, cioè morire per concedere la vittoria ai suoi. Oltre a questa, tra i due eroi le analogie abbondano: Beowulf soccorre il re dei danesi Hrothgar, Buliwyf invece soccorre il re anch'egli dei danesi Rothgar; la vanità è la causa del flagello in cui è precipitato re Hrothgar, altrettanto dicasi per re Rothgar; Beowulf durante il primo assalto stacca una spalla del mostro Grendel e la appende in bella mostra nella sala del trono, lo stesso fa Buliwyf recidendo il braccio di uno dei wendol e appendendolo anch'egli per dimostrare la fragilità del nemico e via elencando. Appare evidente, dunque, come per l'eroe nordico il sacrificio per una nobile causa sia il viatico necessario per conseguire il prestigioso traguardo dell'immortalità, intendendo con essa: non tanto il non morire
mai, ma quanto il venire ricordati
sempre, poiché solo così l'impavido potrà vivere in eterno... Buliwyf alla fine riesce sì a decapitare la Madre dei wendol, ma questa lo ferisce mortalmente, graffiandolo con uno spillone avvelenato. Nonostante la vita abbia già cominciato ad abbandonare il suo corpo, Buliwyf vuole esserci a tutti i costi nell'ultima battaglia, per rinfrancare i cuori afflitti dei suoi compagni d'armi. La sua materializzazione sul campo di battaglia è accompagnata da un chiaro presagio di benevolenza divina, rappresentato dai due corvi posatisi sulle sue possenti spalle. Questi uccelli, secondo la religione dei vichinghi, simboleggiano una delle innumerevoli forme che può assumere Odino. Dunque, nel tal caso, questa apparizione assume un significato lampante per i guerrieri di Buliwyf: Odino avrebbe combattuto al loro fianco, perciò la vittoria è ormai vicina. Davvero significative sono le parole che Buliwyf, la sera prima della resa dei conti finale, rivolge all'arabo: «Un uomo morto non serve a nessuno.». In questa frase, che si presta facilmente a plurime interpretazioni, è racchiusa l'essenza dell'eroismo dei vichinghi, ovvero il principale contributo da essi apportato alla formazione della comune identità europea.
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Testo esoterico spacciato per opera dell'arabo folle Abdul Azhared, ma che in realtà non è nient'altro che una brillante invenzione dello scrittore horror americano H.P. Lovecraft definito: “ il solitario di Providence”.
A quell'epoca i franchi venivano considerati i migliori fabbri del mondo.
Crichton, M., Mangiatori di morte, Garzanti, Milano, 1994, vedi descrizione minuziosa di p. 33.
Strano ma vero, una volta Baghdad veniva considerata “città della pace”, mentre al giorno d'oggi si è tramutata in autentica “città della guerra”...
Di costui si dice che non era ben visto e finì con l'essere ucciso da uno dei suoi ufficiali di palazzo.
Presumibilmente si trattava di una tribù proveniente dalle coste dell'attuale Svezia, che si era impossessata di alcuni territori – fondando diverse città: da Novgorod a Kiev – situati a nord est dell'attuale Russia, che peraltro deve appunto il suo glorioso nome a questi intraprendenti vichinghi.
Mangiatori di morte, cit. p. 39.
Il paradiso qui menzionato è la leggendaria Valhalla, magione di Odino, nonché dimora in cui sono destinati ad andare i guerrieri da morti, accompagnati dalle Valchirie. In estrema sintesi, il paradiso per i vichinghi consisteva in una battaglia incessante, interrotta soltanto al termine del giorno da succulenti banchetti. Le ferite riportate il giorno prima, il giorno seguente immediatamente si rimarginavano e così via fino al Ragnarök – l'equivalente per la religione cristiana del Giorno del Giudizio –, dove in una battaglia all'ultimo sangue i prodi guerrieri avrebbero combattuto al fianco delle divinità benigne contro mostri d'antica data e divinità maligne.
Mangiatori di morte, cit. p. 40. Cfr. con: Brøndsted, J., I vichinghi, Einaudi, Torino, 2001; nel libro dello storico danese si fa spesso largo uso del resoconto di Ibn Fadlan per avvalorare certe opinioni diffuse sulla tribù svedese dei «Rus». Specialmente la descrizione del funerale del grande capo normanno è citata per intero dalla fonte originale, vedi pp. 300-301-302-303 del testo. Crichton qui non fa che parafrasare la descrizione veritiera di Ibn Fadlan, ridimensionandola per comprensibili esigenze narrative.
Il titolo della pellicola tratta dal romanzo è, non a caso: Il tredicesimo guerriero (1999), diretto da John Mc Tiernan, con Antonio Banderas nei panni di Ibn Fadlan. Le uniche differenze tra il film e il libro consistono in: un breve accenno di storia amorosa tra il dignitario arabo e la coraggiosa figlia del re; un apprendimento troppo accelerato e poco realistico della lingua normanna da parte del protagonista; il consiglio finale per sconfiggere la Madre dei wendol nel film viene affidato ad una veggente solitaria, mentre nel libro a svolgere questa funzione profetica vi è un «tengol» o un nano, che predice sì la gloria in combattimento per Buliwyf però a prezzo della sua stessa vita.
Mangiatori di morte, cit. pp. 158-159.
Si tenga presente che all'epoca gli arabi erano, con tutta probabilità, la popolazione meno provinciale della terra ed appare, perciò, quanto meno curioso che un dignitario arabo del calibro di Ibn Fadlan fosse all'oscuro dell'esistenza di questi giganteschi cetacei.
Come azzarda Crichton nell'Appendice al suo romanzo, si tratta di una tribù di antropofagi – composta da neanderthaliani rimasugli di un'epoca precedente – veneranti il culto della Grande Madre, fortemente legato ai riti della fertilità della terra. Si veda per questo la statuina della “Vergine di Willendorf”, ovvero il più antico reperto dell'era paleolitica, che raffigura il corpo di una donna senza testa e con seni prosperosi.
Si tratta di una raccolta di aforismi, che c'informa dettagliatamente dell'etica professata dalle popolazioni nordiche. L'onore, l'amicizia, l'ospitalità, la generosità, la gloria, la prudenza, il coraggio... Questi sono solo alcuni dei capisaldi che qui vengono enunciati.
I Vichinghi, cit. p. 250.
Mangiatori di morte, cit. p. 138.
Mangiatori di morte, cit. p. 138.
Mangiatori di morte, cit. p. 138.
I wendol venivano creduti esseri metà uomini e metà orsi. Questa credenza era ulteriormente rafforzata dalla scrupolosa usanza che essi avevano di portarsi via i compagni caduti in battaglia, in modo tale da cancellare le tracce delle loro vittime e alimentare l'alone d'indistruttibilità fra le fila atterrite dei loro nemici. Buliwyf e i suoi guerrieri appendendo il braccio di uno dei wendol nella sala del trono, dimostrarono pertanto che persino queste strane creature possono morire e, dunque, essere sconfitte.
Mangiatori di morte, cit. 150.