Lasciare la propria casa per tre mesi e vivere all’estero, a stretto contatto con le popolazioni straniere del Sudamerica e dell’Africa, per aiutarle a trovare un lavoro e sostenere così la propria famiglia. È stato questo lo scopo del viaggio di Giancarlo Ottaviani e della fidanzata Jenny Marin, partiti a febbraio per la Colombia e l’Etiopia. «Abbiamo lavorato alla creazione di una cooperativa di donne che, attraverso la realizzazione e la vendita di prodotti artigianali, possano sostenere i propri cari» ha raccontato Ottaviani. Giunti il primo marzo nel paese africano, i due sono stati ospiti di una missionaria brugherese, Suor Teresina Generoso, presso la missione comboniana di Haro Wato (nella provincia del Sidamo).
Il soggiorno in Etiopia non è stato affatto roseo. Fin dal loro arrivo, Jenny Marin e Giancarlo Ottaviani hanno capito sotto quale governo avrebbero dovuto vivere nei due mesi successivi. Sono atterrati ad Addis Abeba il primo marzo e poco dopo il loro arrivo si sono diretti verso l’ufficio immigrazione. Mentre erano all’interno per svolgere delle pratiche burocratiche le porte si sono velocemente serrate e hanno visto morire ben sei persone di fronte al loro palazzo, durante una manifestazione. Il giorno seguente sono ripartiti per il sud in direzione Haro Wato, nella provincia del Sidamo. Speravano di trovare un po’ di tranquillità, ma anche in quella zona hanno assistito a scene di lotte tra tribù. A cinque chilometri dalla missione comboniana di cui Giancarlo e Jenny erano ospiti, infatti, sono state uccise due persone. Lo stesso è accaduto a trenta chilometri di distanza, dove circa una trentina di case sono state abbattute. Per non parlare poi della città di Dilla, dove numerosi negozi sono stati distrutti e addirittura sei persone sono morte. A Dilla, però, è accaduto anche un evento particolare: una tribù aveva intenzione di disintegrare la moschea locale, ma un gruppo di cristiani ortodossi è insorto in sua difesa; il gesto è stato molto apprezzato dai musulmani della zona. Stando ai racconti di Otta e Jenny, è stato strano ma allo stesso tempo piacevole vedere come la religione in Etiopia non costituisca ancora un motivo di scontro.
Come definireste lo scenario africano al vostro arrivo?
Un po’ complicato, prima di tutto per quanto concerne la lingua: in Etiopia si parla l’Amarico, di per sé già difficile da capire. Per di più ogni tribù ha un proprio modo d’esprimersi. Capirai che è tendenzialmente impossibile imparare a parlare quelle lingue da soli, in appena due mesi. Una seconda difficoltà riguarda l’alimentazione. In questa zona, ad esempio, è molto misera: non sempre a causa delle condizioni ambientali, ma piuttosto perché non c’è interesse a cambiarla o a migliorarla. Sono qui da poco e devo analizzare meglio la situazione, ma mi sembra che il lavoro da fare sia, prima di tutto, a livello culturale: non nel senso di esportare le nostre idee, spesso malsane di sviluppo, bensì insegnare loro come sia necessario fare qualche passo in più. Ad esempio, potrebbero migliorare le tecniche di coltivazione, introdurre nuovi alimenti integrando la loro dieta povera, e quindi dare qualche possibilità in più ai bambini che spesso risultano denutriti e vittime facili di qualsiasi malessere. So che si tratta di un lavoro lungo, ma spero di riuscire a dare il mio piccolo contributo.
Di cosa si occupa la missione in cui avete risieduto?
Approfondisce nello specifico i campi della salute e dell’istruzione. Per questo Jenny, che è fisioterapista, lavora nel dispensario sanitario e in riabilitazione e segue le vaccinazioni e le donne incinte. Sono tanti i pazienti da riabilitare, la maggior parte dei quali colpiti da tubercolosi. Pian piano stiamo facendo progressi, per cui lei è molto soddisfatta. Anche se comunque non ci si presentano sempre davanti situazioni semplici.
Puoi farci qualche esempio?
Una volta è arrivata in clinica una ragazza di vent’anni che aveva appena partorito, ma sfortunatamente non le era uscita del tutto la placenta. Per cui si stava dissanguando (n.d.r. Questo è uno dei principali casi di morte per le donne, in quella zona). In clinica non potevamo fare molto perché anche dopo aver estratto la placenta serviva una trasfusione e quindi dovevamo raggiungere l’ospedale più vicino, che stava a 75km di distanza. Ciò significava attraversare una lunghissima strada di montagna non asfaltata nel minor tempo possibile. La suora responsabile della missione mi ha chiesto di accompagnarla, così mentre Jenny accudiva la ragazza io dovevo guidare il più velocemente possibile… “Evita solo le buche più grosse e muoviti!”: questo era il mio compito. La strada era talmente liscia che la placenta è uscita durante il viaggio e così all’ospedale hanno fatto presto. Così alle 19 siamo tornati indietro, verso la missione. Pensavo che la parte complicata del lavoro fosse finita. Invece non è stato così. Lungo la strada del ritorno non c’era una luce sulla strada e pioveva a dirotto, per cui abbiamo percorso i primi 40 km nel fango. Era come guidare sopra un manto di sapone. Fortunatamente avevamo in dotazione una jeep, per cui in tre ore circa siamo arrivati “sani e salvi”.
Non è stato certo facile, posso immaginarlo. Comunque le soddisfazioni alla fine sono altrettanto smisurate… Non è così?
Puoi ben dirlo. Era la prima volta che facevo l’autista dell’ambulanza e contribuire nel mio piccolo ad aiutare una madre, e quindi una famiglia, è stata un’esperienza unica. Nella macchina c’era anche il marito, altrettanto giovane. Per tutto il tempo del viaggio d’andata ha pregato a voce bassa, mentre al ritorno ha cantato per ringraziare Dio del fatto che sua moglie fosse salva.
Credo che la realtà africana sia totalmente differente dalla nostra. Come hai già accennato prima, già da un punto di vista culturale potremmo dire di essere agli antipodi. Tu cosa ne pensi?
Sono molte le riflessioni che nascono vivendo in mezzo a questa gente. In primo luogo, stare qui è qualcosa di realmente incredibile. Sembra di vivere in un’altra dimensione, dove la gente che incontro è serena e felice anche se, secondo i nostri parametri materialistico-consumistici, non ha niente. Loro vivono una vita più che semplice e il fatto di non avere particolari ambizioni non sempre è così malvagio. Invece noi, nel nostro mondo ricco di soldi, siamo troppo spesso schiavi del sistema economico e dell’apparire. Siamo gli opposti, è vero: ma forse esiste un equilibrio tra queste due filosofie di vita. In secondo luogo, vivendo qui ho anche capito cosa voglia dire l’importanza della tribù, della comunità, del clan, degli anziani. Da un punto di vista antropologico per loro è povero chi non ha relazioni, chi non ha amici, chi non ha famiglia. E si potrebbe dire che l’etica, i valori, sono quelli che nascono e si trasmettono nella comunità. Nella nostra parte di mondo vale il pensiero razionale e cartesiano del “Penso dunque sono”; qua si potrebbe dire che varrebbe “Sono in relazione con altri quindi esisto/esistiamo”. Addirittura spesso, in una coppia composta da uomo e donna di due tribù differenti, in caso di contrasti tra le comunità, il vincolo matrimoniale non si dissolve ma va sicuramente in secondo piano. Ciò genera facilmente aspetti per noi incomprensibili e che è affascinante scoprire come il fatto che la cultura nasce e si tramanda all’interno della tribù ed è essenzialmente orale.
Puoi accennare invece qualcosa sulla tribù del posto in cui ti trovi?
Si chiama Guji. Le sue attività principali sono la pastorizia/allevamento e l’agricoltura. La società è patriarcale e le donne contano molto poco: hanno il compito di curare la famiglia e sostanzialmente devono essere schiave dei loro mariti, che ovviamente possono avere più mogli e all’incirca una ventina di figli a testa.
L’Africa è facile preda di conflitti e lotte armate… Com’è la situazione, vista da stranieri come voi?
L’Africa vive un presente di instabilità, emergenza e crisi. È molto facile assistere a scontri e, a volte, a vere e proprie guerre fra tribù; e difficilmente i governi si impegnano per portare pace e giustizia. Si tratta di processi lunghi e per un politico è molto più facile cercare successi e soldi nel breve, piuttosto che lavorare a lungo termine e magari rischiare di non vederne i risultati. Chi è interessato a mantenere vivi i conflitti, lo è essenzialmente per ragioni di sfruttamento economico.
E per quanto concerne le agenzie internazionali quali Onu, Unicef e Croce rossa?
Complessivamente mi sembra ci siano tanti sprechi. Si dice sempre che più il progetto è grande e più raccoglie fondi, più coinvolge tante realtà famose e più funzionerà. Ma non è così. È ovvio che le risorse necessarie siano molte, ma il più delle volte i grandi progetti necessitano (e quindi sprecano) una grossa percentuale dei soldi impiegati. Il più delle volte si tratta di corruzione di politici locali, ma anche di utilizzo dissennato di soldi da parte dei dipendenti delle organizzazioni che lavorano per lo sviluppo. I progetti, a parer mio, devono essere condivisi con la popolazione, altrimenti si rischia di costruire un ospedale bellissimo e all’avanguardia e, dopo pochi anni, buttare via tutto per la mancanza di finanziamenti, lasciando di quella struttura solamente uno scheletro. Con gli stessi soldi magari si sarebbero potute finanziare 20 piccole cliniche da distribuire nel paese, da far gestire a personale locale e non. Almeno 15 di queste sarebbero in vita e darebbero alla popolazione.
Particolarmente inciso nei ricordi del vostro soggiorno è il fatto che molti fondi, provenienti da Paesi come l’Italia e destinati alle Ong, vengano dispersi nel nulla...
Siamo testimoni del fatto che molti progetti non vadano a buon fine. Ne è un esempio una costruzione realizzata dalla Cooperazione Italiana, rimasta totalmente inutilizzata. Così come molte altre strutture presenti in Etiopia. Noi crediamo sia fondamentale far sì che i progetti partano da e con il popolo, collaborando con lui, insegnandogli cosa rappresenti quella struttura e spiegandogli il suo funzionamento. Nel corso del nostro soggiorno etiope, inoltre, abbiamo potuto assistere anche alla campagna di prevenzione dell’Unicef contro il morbillo. L’organizzazione ha coinvolto nell’iniziativa migliaia di bambini, spesso vaccinando anche ragazzi che avevano già ricevuto il vaccino in passato, aumentando così il rischio di malattia. Sono convinto che l’Unicef faccia tante belle cose, ma credo che sia stata troppo precipitosa nel realizzare una simile campagna, conclusasi con un semplice report, ovvero un resoconto scritto della situazione etiope. Sembra infatti che l’associazione abbia richiamato a sé centinaia di famiglie locali, dimenticando però, a causa della sveltezza, tutte quelle persone che vivono in abitazioni isolate, talvolta situate a due o tre ore di distanza dalle strade principali.
L’Africa vi ha segnato profondamente, non è vero?
I ricordi dell’esperienza in Etiopia sono bellissimi. All’interno della missione Jenny ha potuto operare nel suo campo, ovvero la fisioterapia, riabilitando diversi pazienti, la maggior parte dei quali colpita da tubercolosi, ustioni, ferite, parassiti, lebbra, epilessia e malattie agli occhi. Ha imparato molto da questa esperienza, che ha ritenuto altamente costruttiva, anche perché si è trattato di malattie con cui raramente è a contatto in Italia. Io invece ho svolto il ruolo di factotum: muratore, imbianchino, autista, insegnante di informatica. Mi sono adattato a fare quello che potevo. Oltre a queste piccole mansioni, però, ho anche cercato di realizzare un progetto di microcredito per far partire un’attività di calzoleria: tutto ciò allo scopo di dare una maggiore possibilità di lavoro e creare un tessuto economico stabile, per scoraggiare quelle persone provenienti dalla periferia e intenzionate a trasferirsi in città più grandi, dove le difficoltà sarebbero maggiori. Se tutto funzionerà come speriamo, potremmo anche pensare di raccogliere dei piccoli risparmi da coloro che, vendendo i frutti del campo o possedendo qualche animale, si trovano ad avere delle disponibilità da investire. Sappiamo che non è semplice, perché i concetti di “investimento”, “risparmio” e “consumo” sono molto differenti da ciò che intendiamo noi. Ma è proprio per questo che vogliamo calibrare bene i passi futuri. Ci sarebbero tante cose ancora da raccontare e altrettante che avremmo voluto condividere con i nostri amici, a partire dal cielo immenso che ospita tre volte le stelle che si possono vedere in Italia, quando c’è il massimo buio possibile. Intanto posso solo dirvi. “Nageakiyaani” (n.d.r. arrivederci). Ve l’ho detto che la lingua locale è difficile…
Puoi ben dirlo. Era la prima volta che facevo l’autista dell’ambulanza e contribuire nel mio piccolo ad aiutare una madre, e quindi una famiglia, è stata un’esperienza unica. Nella macchina c’era anche il marito, altrettanto giovane. Per tutto il tempo del viaggio d’andata ha pregato a voce bassa, mentre al ritorno ha cantato per ringraziare Dio del fatto che sua moglie fosse salva.
Credo che la realtà africana sia totalmente differente dalla nostra. Come hai già accennato prima, già da un punto di vista culturale potremmo dire di essere agli antipodi. Tu cosa ne pensi?
Sono molte le riflessioni che nascono vivendo in mezzo a questa gente. In primo luogo, stare qui è qualcosa di realmente incredibile. Sembra di vivere in un’altra dimensione, dove la gente che incontro è serena e felice anche se, secondo i nostri parametri materialistico-consumistici, non ha niente. Loro vivono una vita più che semplice e il fatto di non avere particolari ambizioni non sempre è così malvagio. Invece noi, nel nostro mondo ricco di soldi, siamo troppo spesso schiavi del sistema economico e dell’apparire. Siamo gli opposti, è vero: ma forse esiste un equilibrio tra queste due filosofie di vita. In secondo luogo, vivendo qui ho anche capito cosa voglia dire l’importanza della tribù, della comunità, del clan, degli anziani. Da un punto di vista antropologico per loro è povero chi non ha relazioni, chi non ha amici, chi non ha famiglia. E si potrebbe dire che l’etica, i valori, sono quelli che nascono e si trasmettono nella comunità. Nella nostra parte di mondo vale il pensiero razionale e cartesiano del “Penso dunque sono”; qua si potrebbe dire che varrebbe “Sono in relazione con altri quindi esisto/esistiamo”. Addirittura spesso, in una coppia composta da uomo e donna di due tribù differenti, in caso di contrasti tra le comunità, il vincolo matrimoniale non si dissolve ma va sicuramente in secondo piano. Ciò genera facilmente aspetti per noi incomprensibili e che è affascinante scoprire come il fatto che la cultura nasce e si tramanda all’interno della tribù ed è essenzialmente orale.
Puoi accennare invece qualcosa sulla tribù del posto in cui ti trovi?
Si chiama Guji. Le sue attività principali sono la pastorizia/allevamento e l’agricoltura. La società è patriarcale e le donne contano molto poco: hanno il compito di curare la famiglia e sostanzialmente devono essere schiave dei loro mariti, che ovviamente possono avere più mogli e all’incirca una ventina di figli a testa.
L’Africa è facile preda di conflitti e lotte armate… Com’è la situazione, vista da stranieri come voi?
L’Africa vive un presente di instabilità, emergenza e crisi. È molto facile assistere a scontri e, a volte, a vere e proprie guerre fra tribù; e difficilmente i governi si impegnano per portare pace e giustizia. Si tratta di processi lunghi e per un politico è molto più facile cercare successi e soldi nel breve, piuttosto che lavorare a lungo termine e magari rischiare di non vederne i risultati. Chi è interessato a mantenere vivi i conflitti, lo è essenzialmente per ragioni di sfruttamento economico.
E per quanto concerne le agenzie internazionali quali Onu, Unicef e Croce rossa?
Complessivamente mi sembra ci siano tanti sprechi. Si dice sempre che più il progetto è grande e più raccoglie fondi, più coinvolge tante realtà famose e più funzionerà. Ma non è così. È ovvio che le risorse necessarie siano molte, ma il più delle volte i grandi progetti necessitano (e quindi sprecano) una grossa percentuale dei soldi impiegati. Il più delle volte si tratta di corruzione di politici locali, ma anche di utilizzo dissennato di soldi da parte dei dipendenti delle organizzazioni che lavorano per lo sviluppo. I progetti, a parer mio, devono essere condivisi con la popolazione, altrimenti si rischia di costruire un ospedale bellissimo e all’avanguardia e, dopo pochi anni, buttare via tutto per la mancanza di finanziamenti, lasciando di quella struttura solamente uno scheletro. Con gli stessi soldi magari si sarebbero potute finanziare 20 piccole cliniche da distribuire nel paese, da far gestire a personale locale e non. Almeno 15 di queste sarebbero in vita e darebbero alla popolazione.
Particolarmente inciso nei ricordi del vostro soggiorno è il fatto che molti fondi, provenienti da Paesi come l’Italia e destinati alle Ong, vengano dispersi nel nulla...
Siamo testimoni del fatto che molti progetti non vadano a buon fine. Ne è un esempio una costruzione realizzata dalla Cooperazione Italiana, rimasta totalmente inutilizzata. Così come molte altre strutture presenti in Etiopia. Noi crediamo sia fondamentale far sì che i progetti partano da e con il popolo, collaborando con lui, insegnandogli cosa rappresenti quella struttura e spiegandogli il suo funzionamento. Nel corso del nostro soggiorno etiope, inoltre, abbiamo potuto assistere anche alla campagna di prevenzione dell’Unicef contro il morbillo. L’organizzazione ha coinvolto nell’iniziativa migliaia di bambini, spesso vaccinando anche ragazzi che avevano già ricevuto il vaccino in passato, aumentando così il rischio di malattia. Sono convinto che l’Unicef faccia tante belle cose, ma credo che sia stata troppo precipitosa nel realizzare una simile campagna, conclusasi con un semplice report, ovvero un resoconto scritto della situazione etiope. Sembra infatti che l’associazione abbia richiamato a sé centinaia di famiglie locali, dimenticando però, a causa della sveltezza, tutte quelle persone che vivono in abitazioni isolate, talvolta situate a due o tre ore di distanza dalle strade principali.
L’Africa vi ha segnato profondamente, non è vero?
I ricordi dell’esperienza in Etiopia sono bellissimi. All’interno della missione Jenny ha potuto operare nel suo campo, ovvero la fisioterapia, riabilitando diversi pazienti, la maggior parte dei quali colpita da tubercolosi, ustioni, ferite, parassiti, lebbra, epilessia e malattie agli occhi. Ha imparato molto da questa esperienza, che ha ritenuto altamente costruttiva, anche perché si è trattato di malattie con cui raramente è a contatto in Italia. Io invece ho svolto il ruolo di factotum: muratore, imbianchino, autista, insegnante di informatica. Mi sono adattato a fare quello che potevo. Oltre a queste piccole mansioni, però, ho anche cercato di realizzare un progetto di microcredito per far partire un’attività di calzoleria: tutto ciò allo scopo di dare una maggiore possibilità di lavoro e creare un tessuto economico stabile, per scoraggiare quelle persone provenienti dalla periferia e intenzionate a trasferirsi in città più grandi, dove le difficoltà sarebbero maggiori. Se tutto funzionerà come speriamo, potremmo anche pensare di raccogliere dei piccoli risparmi da coloro che, vendendo i frutti del campo o possedendo qualche animale, si trovano ad avere delle disponibilità da investire. Sappiamo che non è semplice, perché i concetti di “investimento”, “risparmio” e “consumo” sono molto differenti da ciò che intendiamo noi. Ma è proprio per questo che vogliamo calibrare bene i passi futuri. Ci sarebbero tante cose ancora da raccontare e altrettante che avremmo voluto condividere con i nostri amici, a partire dal cielo immenso che ospita tre volte le stelle che si possono vedere in Italia, quando c’è il massimo buio possibile. Intanto posso solo dirvi. “Nageakiyaani” (n.d.r. arrivederci). Ve l’ho detto che la lingua locale è difficile…
1 commento:
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